Infor./riprod. a c. di Bartolomeo Durante

Dalle origini dell' occupazione spagnola, e cioè sin dal tempo di Carlo V, la residenza nei Vicereami dell' America Meridionale esigeva una formale autorizzazione del Governo di Madrid.
Nessun suddito di Spagna poteva recarsi alle Indie senza un sovrano consenso che veniva, ordinariamente, rilasciato per non più di due anni.
Una cedula del 1518, che non cessò mai d'avere vigore, esigeva che lo scopo della partenza fosse giustificato; che, da due generazioni almeno, nessuno della famiglia fosse stato condannato dal Sant'Uffizio.
Una legge successiva, del 1566, limitava il permesso a determinate colonie ed a condizione che il viaggio si effettuasse senza interruzione alcuna; che il capitano della nave giurasse di non avere a bordo persone prive d'autorizzazione.
Per godere dei benefizi largiti dagli Spagnoli occorreva naturalizzarsi.
La naturalizzazione si conseguiva praticando, prima di tutto, la religione cattolica apostolica romana, vivendo nella colonia per non meno di dieci anni, sposando una hija del pais spagnola o criolla, producendo titolo di possesso decennale di beni immobili del valore almeno di quattromila ducati.
Ma poiché era costume che a queste norme positive non fossero sottoposte le persone altolocate, i favoriti del sovrano, gli uomini di toga ed i prelati, poté accadere che membri dell'uno o dell'altro ceto privilegiato si stabilissero nelle terre interdette alla maggioranza.
La Spagna, inoltre, temeva gli stranieri non solo perché potevano introdurre nuove concezioni morali e politiche, ma perché potevano essere agenti o spie di Governi nemici i quali aspirassero ad occupare, presto o tardi, quelle terre fiorenti.
Sicché le leggi che vietavano l'immigrazione erano in circostanze particolari trasgredite e violate dalle medesime autorità coloniali rispetto a stranieri che professavano arti o mestieri indispensabili al Plata.
Per esempio, un medico, un ingegnere, un fabbro ferraio, un orologiaio, difficilmente, se la loro condotta era buona, venivano espulsi. Gli Inglesi appartenenti ad una nazione potente che non celava i suoi avidi disegni sulle colonie spagnole e professanti una religione diversa, erano, quasi sempre, cacciati.
I Portoghesi, che costituivano il nucleo più numeroso degli stranieri residenti al Plata, quasi tutti contrabbandieri, non godevano nessuna simpatia.
Trattati con diffidenza, l'ambiente era loro generalmente ostile.
Ai Portoghesi seguivano, per numero, gli Italiani, dediti, in genere, alle piccole industrie: lavoratori intelligenti, probi, tranquilli, non erano nè perseguitati, nè amati.
Gli Spagnoli guardarono sin da principio l'elemento italiano senza diffidare, perché intuivano che non era lo spirito di conquista quello che li lanciava nel Nuovo Mondo, ma il desiderio di trovare un certo benessere che non era possibile ottenere allora in Italia.
Precluse all' accesso di qualsiasi mano d' opera che non fosse quella indigena -e che, con qualche rara eccezione, fu sempre impiegata nello sfruttamento minerario di certe regioni site più a settentrione o più a mezzogiorno- le terre del Plata, per quanto feraci, rimasero a lungo pressoché deserte.
E se, in qualche centro abitato, l'infiltrazione dell'elemento italiano fu quasi coevo con l'inizio della dominazione spagnola, il modo clandestino col quale essa s'iniziò e proseguì impedisce di delinearne con chiarezza lo svolgimento storico.
Aggiungasi che solamente navi di proprietà e di costruzione spagnola potevano caricare merci coloniali; che solamente negozianti di Siviglia avevano facoltà d'esportare ed importare; che trattati internazionali notevoli come quello del 1648 con le Sette Province Unite confermavano l'isolamento da ogni esteriore contatto, per mantenere alla Corona di Spagna il godimento esclusivo delle risorse transoceaniche.
Qualche marinaio, gettato dalla burrasca su quei lidi, e datosi poi al cabotaggio lungo le sponde del Parana; alcuni operai venuti con i Gesuiti e da questi adibiti ad insegnare le arti manuali agli indigeni delle reducciones; pochi servitori d'alti funzionari vissuti dapprima in Lombardia o nel Napoletano; qualche soldato militante nei reggimenti spagnoli; qualche prete, qualche awenturiero: tali sono i radi Italiani, dei quali sia rimasta notizia, immigrati presso l'estuario del Plata prima del prtma 1776; cioè sino all'anno in cui le province circostanti, prima rette da governatori dipendenti dal Vicere del Perù, furono costituite propriamente in un vicereame con capitale Buenos Aires. od a poco prima di tale evento risalgono le notizie di alcuni Padri gesuiti italiani autori di storie provinciali o di dizionari indigeni, e di alcuni funzionari ed artigiani del Vicere.
Così il gesuita sardo Antonio Macioni pubblicava in Madrid, nel 1732, El Arte y Vocabulario de la lengua Lule y Tonocotes; verso il 1769 padre Giuseppe Gallo officiava in Nostra Signora del Rosario; nel 1789 l'abate Jolis pubblicava la Historia del Gran Chaco, con carte geografiche annesse; nel 1791 il Padre don Lorenzo Ramo francescano fondava la missione di San Matteo.
Tra i membri del Tribunale del Protomedicato, istituito in Buenos Aires con decreto reale del 12 settembre 1779, v'era un Italiano di riconosciuto ed incontestato valore: Francesco Bruno Rlvarola; e nel 1782, al seguito del Vicere, in qualità di ebanista o fornitore di mobili, lavorava il ligure Giovanni Cansi che possedette una bottega in via San Martin fino al 1838.
Le riforme introdotte in Ispagna da Carlo III delle quali giungevano tardive notizie al Plata ; l'educazione che...la gioventù sudamencana cominciava a ricevere in Europa; lo scambio dei prodotti che rendeva attiva la rada di Buenos Aires, prima quasi priva di navi, tendevano a trasformare, a rinnovare lo spirito collettivo del Plata.
E mentre la vita coloniale, alla sua superficie, non mostrava che una lieve alterazione di atteggiamenti, si modificava sostanzialmente nella sua intima stmstruttura.
La borghesia spagnola composta di commercianti e di funzionari era contraria alle nuove idee perché gindicava che la germinazione di nuovi concetti sociali avrebbe roso dalle fondamenta la vecchia istituzione coloniale.
La borghesia criolla, composta nella sua quasi totalità di hacendados (proprietari), seguiva animosamente le idee d'innovazione; lottava per ottenere riforme dal regime; era impaziente d'estendere e di sviluppare i propri affari attraverso il conseguimento di una più ampia libertà.
Parecchi di questi hacerdados s'erano rivolti direttamente al re, inviando certe memorie che attestano, ad un tempo, la conoscenza delle dottrine economiche correnti ed il contrasto stridente con gli atti legislativi delle autorità.
Redatti da gente vissuta lontana dalla metropoli, se, per un lato, tradiscono una certa ingenuità, dall'altro non dissimulano la volontà di impartire a chi l'ignora una pratica nozione di scienza amministrativa.
Ne seguì qualche savio provvedimento, quali il primo censimento di Buenos Aires del 1744 e l'ordinamento di quel che può chiamarsi il primo catasto nel 1768.
Ma l'invocata opera di riforme non venne.
Poiché il benessere era generale, le famiglie criollas conducevano tutte, press'a poco, lo stesso tono di vita.
Eccettuati i magistrati ed i mercanti favoriti dal monopolio, che cercavano di mantenere il lusso e le abitudini europee, tutti gli altri possedevano su per giù lo stesso numero di schiavi e di cavalli, avevano le stesse abitudini, godevano dei medesimi divertimenti.
Ben limitata era la cultura.
L'educazione primaria era impartita in scuole create dal Cahildo nei differenti rioni della città e nelle scuole d'insegnamento religioso od in quelle private.
L 'insegnamento secondario era dato nel Colegio San Carlos che attraversava un periodo di decadenza e aveva solo sessanta allievi.
L' insegnamento universitario si poteva seguire soltanto nelle città di Cordoba e di Charcas ed aveva un carattere confessionale che conservò sino all' espulsione dei Gesuiti (2 gennaio 1767).
Nell'Università di Charcas, poiché in questa città v'era un tribunale, predominava l'insegnamento del diritto civile su quello canonico, e per i preti c'era un seminario.
Nella prima metà del secolo XVIII i gesuiti italiani Cattaneo e Gervasoni, che visitavano il Plata, descrivevano già, nelle loro lettere, Buenos Aires come la maggiore città, dopo Asuncion, che s'incontrasse dalle Ande al Mare.
Creato il Vicereame nel 1776 ed autorizzato il commercio libero nel 1778, il traffico della città, già considerevolmente aumentato, andò intensificandosi.
Diventato l'unico porto delle regioni che s'estendevano sino al Perù, fu lo sbocco di tutte le ricchezze metallifere dell'altopiano andino che, un tempo, venivano accumulate in Lima per essere poi inviate in Ispagna.
La popolazione, nello spazio di venticinque anni, s'era decuplicata: nel 1770 era raddoppiata da diecimila circa in ventiduemila.
La ricchezza aveva raggiunto proporzioni insperate.
Nel 1778 Italiani erano un centinaio circa e secondo il catasto di dieci anni prima, possedevano anche proprietà.
Domenico Belgrano Prino aveva, "segun costumbre generalizada entre los residentes extranjeros" spagnolizzato uno dei due cognomi in Perez e come tale era conoscinto.
Nato ad Oneglia nel 1731 s'era recato nel 1750 a Cadice, in cerca di fortuna, e di qui a Buenos Aires nel 1759 dove ottenne, dieci anni dopo, nel settembre 1769, il certificato di naturalizzazione che gli permetteva di commerciare con gli Indi e di coprire cariche pubbliche.
"Pertenecia Belgrano Peri" -scrive il Gondra- "a esa holgada clase de mercadores de Indias cuya moral privada era tan rigida en el hogar, como flexible en los negocios, y cuya puntual observancia de las buenas costumbres y de las leyes, no conocia mas excepcion que la de defraudar al fisco, practicando a todo riesgo el negocio de contrabando".
In breve tempo s'arricchì e penenne, quantunque straniero naturalizzato,al grado di regidor del Cabildo -consigliere comunale- ed alfiere reale della città.
Accumulata una buona fortuna Domenico Belgrano ottenne che suo figlio fosse educato al contatto della civiltà: i nuovi ricchi avvertivano la necessità di destarsi al Plata da quella che fu chiamata siesta colonial, e MANUEL BELGRANO [uno dei futuri PADRI DELLA PATRIA] potè così, tra i primi, concedersi il lusso di viaggiare e studiare.
Ritornato dopo gli studi compiuti in Ispagna a Buenos Aires, e diventato, nel 1799, segretario del Consolato del Commercio, fondava scuole di navigazione e di disegno; altre ne progettava di agricoltura, di commercio e di chimica sperimentale.
Suoi maestri prediletti negli studi economici furono l'abate Galiani ed Antonio Genovesi, le cui lezioni di economia civile erano state tradotte in castigliano, nel 1785, da Victorian de Villaba.
L'idea di dedicarsi allo studio del diritto pubblico e dell'economia politica, cui il Belgrano accenna nella sua Autobiografia che gli fu, senza dubbio, suggerita dalle prime pagine delle Lezioni di economia civile nelle quali il napoletano Genovesi stabilisce l'intima relazione tra la politica e l'economia ed inizia lo studio di questa disciplina per esaminare la composizione e l'organizzazione dei corpi politici.
Al Genovesi dovette le intelligenti iniziative e la propaganda svolta a beneficio della pubblica istruzione.
Dal Galiani ricavò la distinzione tra economia teorica e pratica, che è il leit-motiv della sua concezione sociale.
Al Genovesi ed al Galiani, insieme, s'ispirò nella elaborazione "della sua politica ecclettica che accettava il principio della libertà elaborato dagli individualisti senza però giungere ai loro estremi. Il Belgrano pensava che questa libertà così spesso citata e così di rado compresa, dovesse limitarsi ad esercitare il commercio non solo a vantaggio degli individui ma della società. Lo demas es una licencia destructiva".
Seguace fedele del principio teorico fondamentale della libera concorrenza, ripeteva talvolta le definizioni che l'abate Galiani aveva enunciate nel trattato Della Moneta, intorno al prezzo di costo o valore reale. "Se il valore è una ragione, questa è composta da due ragioni che con questi nomi esprimo: utilità e rarità".
Mariano Moreno, come dimostrarono il Groussac il il Levene ed il Gondra, perveniva alla conoscenza del Montesquieu attraverso Gaetano Filangieri . "In quanto alle sue letture filosofiche e giuridiche, è ormai definitivamente dimostrato che conobbe Montesquieu attraverso Filangieri come altri impararono Rousseau leggendo il Fouillee".
L'esempio della Rivoluzione nordamericana, la nuova politica inglese che offriva all 'America spagnola la libertà di commercio, la crescente immigrazione straniera fomentata dalla legislazione sul libero commercio dei negri, acceleravano lo sviluppo sociale.
Il I aprile 1801 compariva a Buenos Aires il primo giornale, Telegrafo mercantil rural, politico, economico e historiografico del Rio de la Plata, bisettimanale, per lo più di otto pagine, di tinta reazionaria, fondato dal colonnello spagnolo Franco Antonio Cabello y Mesa.
Vi collaboravano Domingo de Azcuenaga, autore di favole e poesie giocose, José de Chorroarin e Carlos Montero, insegnanti nel Colegio San Carlos, Pedro Andres Garc~a e Juan José Castelli che fu più tardi segretario della Ginnta rivoluzionaria, l'ingegnere Cervinos, il poeta Medrano e Manuel Belgrano.
Per il formato e la periodicità, aveva un po' l'apparenza del quotidiano ed un po' l'aspetto della rivista, e durò quasi due anni, sino alla fine del 1802.
Mentre il "Telegrafo" cessava le pubblicazioni, nasceva proprio nel 1802 il "Semanario de agricultura, industria y comercio", diretto da Hipolito Vicytes e da Cervino, con spirito più liberale.
Questo settimanale ebbe come collaboratori i giovani intellettuali riformisti che facevano capo a Manuel Belgrano.
Dal 1781, veniva pubblicata, per la prima volta, da José loaquin de Aranjo (1762-1834) che colla borò anche al "Telegrafo", la "Guia de Forasteros" che dava notizie sul movimento degli stranieri e che tentava riassumere la cronaca cittadina di Buenos Aires.
L'esempio dell'Araujo fu tosto seguito da altri e la sua pubblicazione delle guide e degli almanacchi diventò periodlca e consuetudinara al Plata.
Una eletta mmoranza di argentini, frattanto, un po' versata per atavismo nelle cose del commercio, un po' trasportata dall'età nelle lusinghe del sogno, meritò per primo il nome di partito.
Ma quando si definisce "realista", il ceto spagnolo e "patriotta" quello creolo, non si dice cosa esatta.
Vi furono Spagnoli ardenti partigiani della rivoluzione e creoli che la combatterono, certi gli uni e gli altri, che il movimento volto verso le riforme non sarebbe sfociato mai nella separazione.
In seguito a questa confusa ed incerta trasformazione d'idee e di fatti, si svolgeva nell'ultimo quarto del secolo XVIII una inattesa attività a Buenos Aires; essa giungeva all'apogeo della rinascita negli ultimi anni del secolo decimottavo e nei primi del decimonono.
Intorno al 1805 giungevano quindi, in cerca di alti guadagni, emigranti provenienti da tutte le parti d'Europa.
Pochi erano professionisti perché il numero dei medici, ingegneri, avvocati richiesto dalle esigenze della vita coloniale era molto ridotto.
La presenza di questi stranieri aveva preoccupato il Vicere Sobremonte (1804-1807) che, per misura di pubblica sicurezza, ordinò, nel 1805, agli stranieri domiciliati nei diversi quartieri urbani, di presentarsi al rispettivi alcaldes a dichiarare la propria condizione personale.
Secondo dati precisi raccolti presso l'"Archivo de la Nacion" e rispondenti al censimento statistico, risulta che, intorno a quell'anno erano stabiliti a Buenos Aires 469 stranieri.
I più numerosi erano, come s'è visto, i Portoghesi, e cioé duecentosessantacinque.
Di questi, duecentoquarantacinque erano giunti al Plata avendo un mestiere determinato, gli altri venti risultavano, dal censimento, senza occupazione fissa.
I residenti Francesi erano cinquantaquattro; gli Inglesi ventitre; Nordamericani ventisei; gli Italiani novantadue.
Nell'elemento italano erano superiori per numero i Genovesi; venivano poi i Romani; quindi, decrescendo, i Siciliani, i Piemontesi, i Milanesi ed i Napoletani che erano solo due.
Quei pochi dei nostri che si dedicarono a piccole industrie, le videro prendere, in seguito, uno sviluppo promettente.
Uno di questi Italiani commerciava con un capitale di dodici mila pesos, veramente cospicuo a quei tempi, ed era considerato come uno dei ricchi commercianti di Buenos Aires.
Così pure tale Luigi Zenela la cui azienda era la sola che avesse allora distribuite numerose succursali in vari luoghi del Vicereame.
Godeva di molta stima e considerazione nell'ambiente coloniale il farmacista Diego Marenco che lavorava con due nipoti.
Medico di grande valore, in quel tempo, fu Carlo Giuseppe Guerzi.
Ma tolti uno o due ricchi commercianti, un eccellente medico, un bravo farmacista, tutti gli altri erano umili lavoratori.
E mentre tra Inglesi, Francesi, Portoghesi, Nordamericani si nota un numero relativamente superiore di professionisti (dottori, professori, capitani, piloti, ingagneri, scllltori, interpreti, scrivani ed impiegati), nell'elemento italiano immigrato prevale l'operaio che tende a diventare piccolo commerciante. Due degli Italiani stabiliti nel 1805 al Plata furono espulsi perché privi di permesso di residenza.
Si chiamavano: Giacomo Perfumo (Profumo?) nativo di Genova e Filippo Corbero pure genovese, registrati entrambi come domiciliati nel quartiere N. 2.
Secondo il decreto che ordinava il loro rimpatrio, essi erano arrivati con taluni bastimenti che avevano portato schiavi e dovevano ritornare con essi, con l'avvertenza che non facendolo, sarebbero stati condotti via a loro spese come tutti gli altri che non avessero fatto parte degli equipaggi di detti bastimenti o di coloro i quali fossero giunti con diverso destino.
Di certuni non s'indicava neppure il motivo dell'espulsione; si mettevano a verbale soltanto le loro proteste.
Già il primo Vicere del Plata, Pedro de Cevallos (1777-78) aveva pensato di munire Buenos Aires di moli che servissero allo scarico, al carico e al riparo delle navi.
Ma i vari progetti erano infiniti e tutti vaghi, senza ordine nella concezione e senza fondamento.
Il 5 ed il 6 giugno 1805 il temporde aveva distrutte le case poste lungo la parte bassa del fiume e prodotto danni rilevanti specialmente all'argine contiguo al castello mettendo in pericolo questo e gli edifici circostanti.
I danni provocati da questa tempesta suggerirono al Marchese di Sobremonte, che fu vicere intelligente, di provvedere Buenos Aires di un porto onde prevenire ulteriori perdite che avessero potuto cagionare la ripetizione di un disastro simile.
Perciò con Officio del 10 giugno 1805, incaricava l'ingegnere italiano Eustachio Giannini di studiare i piani.
Il Giannini presentò il progetto preliminare il 13 agosto dello stesso anno ma quello definitivo rimase sepolto per sempre negli archivi di Madrid ove era stato inviato per l'approvazione.
Il titolo del progetto era il seguente: Manifesto sobre el puerto de Buenos Ayres y demas proyactos de este Rio de la Plata".
Esso suscita ancora oggi l'interesse dei tecnici per la scienza ed erudizione con cui tratta la materia, per la sua grandiosità e le basi su cui si fonda.
Quello del Giannini è il nome più brillante della colonia straniera e l'Araujo lo cita come tale nella Guia de Forasteros del Vireinato de Buenos Ayres del 1803.
Il 25 maggio 1810 una grande adunanza di popolo in armi, nella piazza di Buenos Aires, proclamava destituito il vicere ed affidava il potere ad una Giunta di Governo.
Alcuni postulati essenziali del 25 maggio hanno i loro precedenti in certi reclami redatti in parte da coltivatori(1793) ed in parte da proprietari fondiari(1794), che pretendono la libertà di commercio e segnalano gli errori ed i vizi del regime coloniale.
All'alba del secolo XIX, liberisti e monopolisti disputano intorno alla cenvenienza di reclamare la libertà economica, e l'opinione pubblica divisa in due campi opposti polemizza per l'una o per l'altra tendenza.
Non fu questa la sola questione che provocò l'insurrezione, ma fu l'unica che vibrò all'unisono sulle rive del Plata allorché si decisero le sorti delle popolazioni.
Ogni nazione sceglie la sua idea favorita per farne programma bandiera.
Il cittadino inglese ha sempre combattuto intorno al diritto di votare pagamenti ed imposte; e quando le colonie angloamencane vorranno conservare la linea inglese ed avocare a sè tali diritti, scoppierà la rivolazione del 1776.
Per questo la politica nordamericana promana dalla tradizione della libertà inglese.
Nulla d'analogo nell'America del Sud.
Provenienti da una madrepatria cui erano ignoti tanto l'amore della libertà quanto il concetto del governo libero, i coloni, sfruttati per due secoli dall'autorità vicereale, pur desiderando di dipendere ancora dalla Corona di Spagna, ambivano tuttavia correggere lo stato d'inferiorità e di soggezione nel quale la legge li poneva nei confronti della metropoli.
Ma di fatto, il moto dell'autonomia si risolse nella conquista della completa indipendenza.
Che la libertà sia stata raggiunta a prezzo di lotte sanguinose, è certo.
Ma la libertà politica non fu obiettivo dei primi rivoluzionari del 1810: commetterebbe grave errore chi volesse giudicare, secondo la visuale dell'America libera di oggi, quell'altra America coloniale spagnola, dove la Chiesa aveva sempre condannato al rogo i seguaci di determinati principi di libertà, costituenti la legge fondamentale degli Stati anglosassoni del Nord.
Dopo la conquista dell'indipendenza (1810-1816) bisognava mutare la tradizione, reagire contro l'indolenza che i creoli avevano imparata a praticare negli ozi della vita pastorale.
Bisognava provvedere alla rinascita del bestiame perché la sua distruzione, dovuta al mal governo vicereale era stata così grave che, in pochi anni, dalla estrema abbondanza si era scesi alla preoccupazione di veder sparire l'ultima mandria.
Quando, nel 1795, era giunta la prima autorizzazione d'esportare, mancavano i mezzi per profittare del permesso.
I cuoi erano il solo prodotto trasportabile fino a Buenos Aires per essere imbarcato; ma un buon terzo imputridiva per mancanza di mezzi che lo preservassero dalle punture degli insetti.
Fu soltanto nel 1816 che si pensò, per la prima volta, di porre in un bagno d'arsenico i cuoi seccati al sole.
Mancavano assolutamente navi e marinai nazionali; pochi erano i consumatori di carne della quale si nutriva solo una minima parte dell'esigua popolazione.
Il regime agrario, anche negli ultimi anni del vicereame, consisteva nel proteggere le frontiere dalle incursioni degli Indi.
Nel vasto progetto dell'Azara, patrocinato ma non attuato dal Viceré Pedro Melo de Portugal y Villena (1795-97) si proponeva la creazione di certi centri di popolazione, di ripartizioni fondiarie non da vendersi, ma da concedersi all'incanto.
Ma la riforma agraria non si poteva attuare senza la presenza di una sufficiente popolazione.
Bisognava ricorrere, in ogni modo, allo straniero, affinché fornisse uomini e denaro.
L'importanza sociale del 25 de Mayo consiste in ciò che fu non solo una ribellione al Governo Vicereale in quanto vietava l'ingresso della mano d'opera e del capitale esterni, ma anche un invito ad immigrare, a popolare, a coltivare, a creare ricchezza e benessere.
Gli Stati Italiani del Settecento non avevano ancora, nei loro istituti legislativi, provveduto (poiché non vi avevano nemmeno pensato) all'espatrio.
Solamente S. M. Sarda in un R. Editto del 10 maggio 1794 prescriveva alcune provvidenze per impedire l'emigrazione dei sudditi dai Regni Stati.
In pratica, l'espatrio era appena tollerato come pericolosa deviazione dal ritmo tradizionale della vita.
Discordi erano invece le opinioni dei sociologi italiani.
Alcuni, seguendo i principi della scuola fisiocratica, pur enunciando idee liberali in materia economica, erano contrari però all'emigrazione.
Antonio Genovesi, ragionando intorno alla popolazione, diceva che come un pastore era tanto più ricco quante più pecore aveva, così anche uno Stato lo era tanto più quanto maggiore era il numero degli abitanti, ed aggiungeva che l'emigrazione era una gravissima sciagura.
Gaetano Filangieri considerava la popolazione copiosa come il massimo dei beni e buona arte politica quella d'accrescerla comunque.
Cesare Beccaria ragionava allo stesso modo.
Altri erano, invece, favorevoli.
Così Pietro Verri cominciava a chiedersi se le colonie e l'emigrazione di cui esse s' alimentavano non potessero essere talvolta bene.
Melchiorre Gioia e Gian Domenico Romagnosi scrivevano che l'emigrazione era diritto naturale del cittadino, il quale poteva essere obbligato verso lo Stato soltanto da motivi di legge nulla più.
Se l'esodo era quasi nullo dagli Stati meridionali, all'infuori di qualche fuga dal porto di Napoli, quello dagli Stati settentrionali consisteva in una sorta di emigrazione temporanea oltre le Alpi (nei dintorni di Ginevra e di Lione od in Austria) o verso l'Europa mediterranea orientale.
Soltanto i navigatori liguri solevano talvolta sbarcare sulle rive del Plata e fermarvisi.
Ma se è possibile sapere, dagli atti, che molti partono per l'America in genere, è difficile poi scoprire se sbarchino in Argentina piuttosto che altrove.
Nel 1807, quando si costituirono speciali corpi di volontari per liberare Buenos Aires dagli invasori inglesi (corpi composti di Spagnoli e d'Argentini suddivisi per province), sorsero anche legioni straniere.
Le leggi della provincia prescrivevano agli stranieri l'obbligo del servizio militare.
Costretti, in determinate occasioni, a prendere le armi, gl'immigrati preferirono evidentemente aggrupparsi in battaglioni speciali piuttosto che incorporarsi nelle compagnie dell'esercito regolare composto di negri, di mulatti, di Indi, e d'ogni sorta di gente razziata e costretta a prender servizio.
Due anni dopo, nel 1809, le Autorità di Buenos Aires ordinavano in estrema segretezza, quasi come provvedimento di sicurezza pubblica, un nuovo censimento.
Risultarono presenti cinquantasette Italiani.
Se però, ci si sofferma su quanto riferisce al Cabildo, l'alcalde (che si chiamava Parodi) del Quartiere N. 8, si resta molto scettici sull'utilità di questa misura statistica suggerita, evidentemente, da ragioni di politica interna.
"Mancano molti nomi" -dice l'alcalde- "in considerazione del segreto col quale l'ecc.mo Vicere ha ordinato fosse compinta l'operazione".
S'era nell'agosto del 1809, cioè poco prima dell'imminente rivoluzione del maggio dell'anno successivo.
I dati ricavati dai documenti ufficiali nell'ultima metà del secolo XVIII e nei primi anni del XIX, hanno dunque valore indiziario, non probatorio.
Se si pensa che dal 1804 al 1810 nello spazio di sei anni, il Governo Vicereale si preoccupò tre volte di conoscere, sotto vari pretesti, la condizione ed il nome degli stranieri, ci si persuade subito che nessuna delle operazioni compiate soddisfaceva l'esigenza.
Dalle cifre indicate, l'autorità ricavava una così scarsa fiducia che ordinava, subito dopo, di verificare ancora, di cercare, di guardare meglio.
Le cifre stesse della popolazione argentina presentano, dal 1804 al 1810, oscillazioni che mostrano la difficoltà di raccogliere dati precisi.
Per gli stranieri poi le difficoltà dovevano essere anche maggiori.
E' lecito supporre che molti immigrati onde evitare d'essere scoperti e cacciati, celassero la propria origine straniera e che molti archivisti, dal canto loro, non chiedessero di meglio che fare apparire argentino pure chi non lo era.
Si trattava, inoltre, di gente umile che non lasciava tracce di sè, nel paese abbandonato.
Quale carta si può mai produrre per credere falso un documento dichiarato autentico dall'autorità che lo detiene?
[testo ripreso da: Niccolo' Cuneo, Storia dell'emigrazione italiana in Argentina (1810-1870), Milano, 1940, capitolo I]