CIMA D'AURIN

Presumibile "castellaro" ligure, (inglobando le zone dette Convento, S. Bernardo, Arcagna, Cima Tramontina, Colla e Portu) in base ai ritrovamenti di testimonianze romane (numerose alla Colla) sembra essersi evoluta una grossa TENUTA, agricola e residenziale (nel medioevo frammentata fra feudatari, monaci e liberi proprietari) di una probabile famiglia, di latifondisti intemeli romani, Aurinia, proprietari di terreni anche ad Ouri di Pigna ed Orignana di Ventimiglia.








ILLUMINISMO: Verso la seconda metà del Settecento giunse nel pieno del suo sviluppo un movimento di pensiero che influenzò ogni aspetto della cultura e della vita, l'Illuminismo.
La nuova ideologia ebbe origine in Inghilterra, Francia e Paesi Bassi, come conseguenza del pensiero cartesiano e gallileiano; non rimase limitata ad un ristretto numero di filosofi, bensì riuscì a coinvolgere una larga parte della popolazione, divenendo una reale forza di trasformazione della società. Il fulcro fu la RAGIONE UMANA, considerata come unica certezza indiscutibile, superiore ad ogni autorità o rivelazione. Ne conseguì una valorizzazione dell'uomo e della scienza, mentre questioni teologiche e metafisiche passarono decisamente in secondo piano.
La maggiore diffusione si ebbe intorno al 1750 in un periodo di pace.
Dopo decenni di guerre, il richiamo alla ragione ed a un nuovo umanismo precludevano il fanatismo ed il settarismo.
Il nuovo intellettuale - filosofo cercò di porsi accanto al sovrano per consigliarlo ed ispirarne l'opera di rinnovamento e miglioramento delle condizioni di vita e dei rapporti sociali, rompendo per la prima volta la tradizionale alleanza tra trono ed altare.
Il movimento può essere definito borghese: lo dimostrano lo spirito pacifista, contrario all'idea feudale ed al modo cavalleresco, la convinzione dell'uguaglianza tra gli uomini contro i diritti di sangue ed i privilegi di casta.
Ne conseguiva il desiderio del riconoscimento dei diritti e dei doveri dei cittadini, all'interno di un contesto meritocratico, dove il valore del singolo era il mezzo per una lecita promozione sociale.
Un aspetto essenziale dell'Illuminismo fu il suo grande impegno divulgativo.
Spariscono infatti le figure dei filosofi e degli scienziati chiusi nelle loro specializzazioni e fruitori di un linguaggio a molti incomprensibile per dar vita ad una nuova figura di studioso, che estende le certezze matematiche a tutti i campi dello scibile umano.
Tutto ciò comportò un inevitabile scontro con la Chiesa, della quale vennero rinnegate tutte le rivelazioni trascendenti.
Gli Illuministi accettavano una forma di religione naturale detta Deismo, una religione senza dogmi che identifichino Dio come l'ordine supremo della natura.
L'uso della ragione fu considerato come l'unico strumento in grado di dare la felicità.
Vennero in seguito realizzate tutte le istituzioni tradizionali, sotto la luce del nuovo pensiero illuminato.
Furono subito chiare le ingiustizie, i privilegi, gli abusi.
Ne derivò un serrato processo al passato, alla storia, vista come un susseguirsi di errori, violenze, oppressioni.
Compito della ragione era quello di portare la luce, di criticare principi ed istituzioni, di diffondere la cultura e la verità, in modo che tutti gli uomini comprendessero di essere uguali e liberi per natura.
Nonostante alcuni considerino il periodo che va dal 1750 al 1780 come il culmine del movimento, il dispotismo illuminato, con l'alleanza di filosofi - intellettuali e uomini politici, durante il quale si ebbe una vertiginosa diffusione dell'ideologia, possiamo considerare questo arco di tempo come l'inizio della fine.
L'alleanza con i sovrani non potè infatti durare a lungo, nonostante avesse contribuito in maniera sostanziale alla diffusione.
Ben presto il dispotismo napoleonico troncò le speranze, diffondendo, contemporaneamente, nuove idee di libertà e democrazia che furono trasmesse ai progressisti, ai liberali ed ai nazionalisti dell'Ottocento.


Il dispotismo illuminato
L'importanza delle nuove idee illuministiche fu compresa dai sovrani di alcuni Stati, che le attuarono in modo graduale e parziale, cercando di conciliare la critica all'assolutismo con l'esercizio di quello stesso potere assoluto. In questo tentativo di conciliazione essi finirono però con lo snaturare la portata democratica dell'Illuminismo. Da questo compromesso ebbe origine il fenomeno del dispotismo illuminato. I sovrani, sotto la spinta dei tempi, andarono sempre più incontro alle esigenze di libertà e di eguaglianza, ma nel senso di mantenere tutti uguali sotto di loro, mantenendo quindi quasi intatto il proprio potere. Ciò fu possibile anche per una grave mancanza degli Illuministi che da un lato criticavano l'origine divina del potere regio e dall'altro diffidavano di ogni programma troppo democratico, temendo l'irrazionalità e la disordinata passionalità del popolo. Ecco perché accettarono l'autorità regia purché venissero messi in atto le proprie riforme. Così alcuni sovrani poterono: limitare e combattere i privilegi di nobiltà e clero, instaurare la libertà dei commerci, promuovere l'istruzione pubblica, migliorare il regime fiscale. In questo modo le condizioni di vita di alcuni Stati migliorarono, ma nel complesso le popolazioni continuarono ad essere sottoposte alla volontà decisionale del potere costituito, a restare prive dei più elementari e fondamentali diritti. Da tale situazione trasse i maggiori vantaggi lo Stato che diventò ancora più forte. Più ricco e meglio amministrato. In Austria, Prussia e Russia (mentre la Francia rimaneva estranea alle nuove idee) la figura del sovrano venne identificata con quella del pater familias e venne a configurarsi un nuovo tipo di stato: lo stato paternalistico.
Maria Teresa d'Asburgo (1740-1780)
Mentre la Francia restava estranea ad ogni forma di rinnovamento, in Austria l'imperatrice Maria Teresa d'Asburgo si propose di risanare economicamente il paese e contrastare le spinte atonomistiche del suo composito impero. Fu la sua un epoca tra le più feconde per la monarchia asburgica, grazie anche alla collaborazione di diversi diplomatici e di abili cancellieri. L'imperatrice riuscì così a limitare i poteri delle varie assemblee regionali e a riportare all'obbedienza nobiltà e clero. Promosse con ogni mezzo lo sviluppo delle attività produttive, facendo ricorso ad una drastica riduzione dei dazi interni. Riordinò il settore dell'istruzione dopo l'espulsione della Compagnia di Gesù, che da anni esercitava un rigido monopolio in campo educativo nel paese.
Giuseppe II (1780-1790)
A Maria Teresa d'Asburgo successe il figlio Giuseppe II che continuò l'azione di riforma. Raggiunse importanti risultati quali la più ampia libertà religiosa, l'abolizione della servitù della gleba, l'eliminazione dei privilegi feudali e nobiliari e la soppressione dell'obbligo per gli artigiani di far parte delle antiche corporazioni, tuttavia nella sua ansia riformatrice finì, a causa dell'asprezza dei suoi interventi, per alienarsi il consenso delle popolazioni che costituivano l'impero. Operò con estrema durezza e decisione anche nei confronti della Chiesa movendo dal presupposto che lo Stato ha il dovere di modificare, regolare e limitare le attività ecclesiastiche spinse il giurisdizionalismo alla sua massima espressione (cosa che gli valse il soprannome di "re sacrestano"). Addirittura impose ai vescovi di fare giuramento di fedeltà e di obbedienza al sovrano. Il suo successore, il fratello, Leopoldo II ritenne più saggio e realistico contenere e limitare le riforme troppo radicali e politicamente inopportune poste in atto dal predecessore.
Federico II di Hohenzollern
Ben più duttile e produttivo fu, nel seguire le idee illuministiche, Federico II il Grande, fondatore della potenza prussiana. Per Federico II lo Stato non è proprietà del principe: quest'ultimo altro non è che il suo primo servitore, tenuto a subordinare il proprio interesse personale al bene comune. Questi emanò precise norme per un più ampio godimento delle condizioni di vita dei propri sudditi (libertà religiosa, diffusione del libero pensiero). Semplificò e modernizzò, velocizzandole, le procedure dell'apparato giudiziario; vietò la condanna a morte e la tortura; limitò le punizioni corporali e riformò il sistema carcerario. Questo concretizzare gli ideali illuministici fece di lui il sovrano preferito dagli intellettuali europei.
Dispotismo illuminato in Italia
Anche in Italia alcuni principi portarono avanti una serie di riforme miranti al rafforzamento del proprio stato e al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. In Lombardia Maria Teresa d'Austria e Giuseppe II attuarono una serie di riforme legislative e portarono a termine diverse opere pubbliche; resero l'istruzione dai 6 ai 13 anni obbligatoria. Parallelamente si sviluppò un movimento culturale (ricordiamo il celebre giurista Cesare Beccaria) che fece della regione uno dei centri intellettualmente più avanzati d'Italia. Il granducato di Toscana, sotto i Lorena, vide attuarsi, con Pietro Leopoldo, una grande serie di provvedimenti a favore dell'agricoltura e del commercio. È il primo stato europeo ad abolire la pena di morte anche in caso di regicidio. Il granduca eliminò inoltre ogni esenzione dalle imposte per nobili e clero. A Napoli re Carlo III di Borbone assistito dal ministro Bernardo Tanucci (e affiancato da personaggi del calibro di Gianbattista Vico) attuò una politica commerciale di vasto respiro che accrebbe l'attività del porto di Napoli. Limitò inoltre gli antichi privilegi di nobiltà e clero e intraprese una serie di lotte contro il banditismo.


RIVOLUZIONE FRANCESE (1789-1799), successione di avvenimenti politici e sociali che ebbero come conseguenze principali la caduta della monarchia, il crollo dell'Ancien Régime e l'istituzione della repubblica in Francia.
Le cause fondamentali furono l'incapacità delle classi dominanti di affrontare i problemi di stato, l'indecisione del re, l'esagerata tassazione della popolazione rurale, l'impoverimento del proletariato, il fermento intellettuale dovuto all'
Illuminismo e l'eco della guerra d'Indipendenza americana.
Per più di un secolo prima che Luigi XVI salisse al trono (1774) la Francia aveva vissuto periodiche crisi economiche dovute alle lunghe guerre sostenute durante il regno di Luigi XIV, alla cattiva gestione degli affari nazionali da parte di Luigi XV, alle perdite subite nella guerra coloniale anglo-francese (1754-1763) e all'indebitamento per i prestiti alle colonie americane in guerra per l'indipendenza (1775-1783).
Poiché era sempre più insistente la richiesta di una riforma fiscale, sociale e amministrativa, nell'agosto 1774 il nuovo re nominò controllore generale Anne-Robert-Jacques Turgot, che impose severe economie di spesa.
Quasi tutte le riforme furono tuttavia boicottate dai membri più reazionari del clero e della nobiltà che, appoggiati dalla regina Maria Antonietta, imposero le dimissioni di Turgot e si opposero anche al suo successore, il finanziere e statista Jacques Necker.
Questi dovette a sua volta lasciare l'incarico, ma si guadagnò il favore popolare pubblicando un resoconto delle finanze reali, che rivelava l'altissimo costo del sistema dei privilegi e dei favoritismi.
Negli anni successivi la crisi peggiorò e la richiesta di convocazione degli Stati generali (assemblea formata da rappresentanti del clero, della nobiltà e del terzo stato), che non si riunivano dal 1614, costrinse Luigi XVI ad autorizzare le elezioni nazionali nel 1788.
Durante la campagna elettorale, la censura fu sospesa e la Francia fu invasa da opuscoli che diffondevano idee illuministe.
Necker, nuovamente nominato controllore generale, chiese di attribuire al terzo stato, cioè alla borghesia, tanti rappresentanti agli Stati generali quanti erano quelli attribuiti al primo e al secondo stato insieme.
Gli stati generali si riunirono a Versailles il 5 maggio 1789.
Le delegazioni delle classi privilegiate si opposero immediatamente alle proposte di procedura elettorale avanzate dal terzo stato, che, essendo il gruppo più numeroso, con il sistema del voto individuale si sarebbe assicurato la maggioranza.
Dopo sei settimane di tergiversazioni i rappresentanti del terzo stato, guidati da Emmanuel-Joseph-Sieyès e dal conte Honoré-Gabriel de Mirabeau e in aperta sfida alla monarchia che sosteneva clero e nobiltà, si proclamarono Assemblea nazionale, attribuendosi il potere esclusivo di legiferare in materia fiscale.
Privata dal re della sala di riunione, l'Assemblea per tutta risposta si trasferì nella sala attigua (20 giugno), giurando che non si sarebbe sciolta senza aver redatto una costituzione (giuramento della pallacorda).
Divisioni interne fecero sì che anche molti rappresentanti del clero inferiore e alcuni nobili liberali si unissero al nuovo organo.
Di fronte alle continue sfide ai suoi decreti e alla sedizione serpeggiante nell'esercito, il re capitolò e il 27 giugno ordinò a nobiltà e clero di unirsi ai rivoluzionari, che si proclamarono Assemblea costituente.
Allo stesso tempo, cedendo alle pressioni della regina e del conte di Artois (il futuro Carlo X), Luigi XVI radunò alcuni reggimenti stranieri attorno a Parigi e a Versailles e licenziò nuovamente Necker.
Il popolo parigino reagì con l'insurrezione aperta e dopo due giorni di tumulti prese d'assalto la Bastiglia, il carcere simbolo del dispotismo reale (14 luglio 1789).
Già in precedenza sporadici disordini e sollevamenti contadini in diverse zone della Francia avevano allarmato i piccoli proprietari terrieri non meno dei seguaci del re.
Spaventati dagli eventi, il conte di Artois e altri reazionari lasciarono il paese, dando inizio alla migrazione dei nobili (réfugiés).
Per timore che il popolo approfittasse ulteriormente del crollo del vecchio apparato amministrativo e passasse nuovamente all'azione, la borghesia parigina si affrettò a istituire un governo locale provvisorio e una milizia popolare (guardia nazionale), comandata dal marchese di Lafayette, eroe della guerra d'Indipendenza americana.
Un tricolore rosso, bianco e blu sostituì lo stendardo bianco dei Borbone, mentre anche nelle province si formavano municipalità borghesi e rurali e unità della guardia nazionale. Luigi XVI, non potendo contenere la crescente rivolta, ritirò le truppe, richiamò Necker e legittimò le misure prese dalle autorità provvisorie.
I disordini in provincia e nelle campagne spronarono la Costituente: il 4 agosto 1789 clero e nobiltà rinunciarono ai propri privilegi e, qualche giorno dopo, fu approvata una legge che aboliva i privilegi feudali, pur con alcune eccezioni.
Furono proibite la vendita delle cariche pubbliche e l'esenzione dalle tasse, mentre alla Chiesa cattolica fu tolto il diritto di prelevare le decime.
L'Assemblea si dedicò quindi alla redazione della costituzione.
Nel preambolo, noto come Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, i delegati formularono gli ideali rivoluzionari condensati poi nell'espressione "liberté, égalité, fraternité".
Nel frattempo il popolo, affamato e in fermento per le voci di una cospirazione monarchica, assediò inferocito il palazzo di Versailles (5-6 ottobre), costringendo la famiglia reale a riparare a Parigi con l'aiuto di Lafayette.
L'episodio spinse alcuni conservatori, membri della Costituente, a seguire il re e a dare le dimissioni.
L'obiettivo iniziale di una monarchia costituzionale venne mantenuto, anche se tra i membri dell'Assemblea cominciò a prevalere un certo radicalismo.
La prima stesura della costituzione fu approvata dal sovrano il 14 luglio 1790, presenti delegazioni di ogni parte del paese.
Le province furono abolite e sostituite da dipartimenti dotati di organi amministrativi elettivi locali; i titoli nobiliari furono soppressi; si istituì il processo davanti alla giuria per atti criminali e si prospettarono fondamentali modifiche alle leggi.
Basando il diritto di suffragio sulla proprietà, la costituzione limitò l'elettorato alla borghesia e alle classi più elevate. Il potere legislativo fu conferito a un'assemblea composta da 745 membri da eleggere in modo indiretto.
Sebbene il re detenesse il potere esecutivo, gli furono imposte rigide limitazioni: il suo veto aveva esclusivamente effetto sospensivo e all'Assemblea spettava il controllo sulla sua condotta negli affari esteri.
La costituzione civile del clero limitò notevolmente il potere della Chiesa cattolica; i suoi beni confiscati servirono a garantire i nuovi titoli (assignats) emessi per risolvere la crisi finanziaria; preti e vescovi sarebbero stati eletti da particolari assemblee e retribuiti dallo stato, al quale essi dovevano giurare fedeltà, mentre quasi tutti gli ordini monastici dovevano essere soppressi.
Nei quindici mesi tra l'accettazione della prima stesura della costituzione e il suo completamento mutarono gli equilibri di forze all'interno del movimento rivoluzionario, soprattutto a causa del clima di scontento e di sospetto diffuso tra le classi prive del diritto di voto, sempre più portate a soluzioni radicali.
Questa tendenza, stimolata in tutta la Francia dai giacobini e a Parigi dai cordiglieri, si acuì alla notizia dei contatti tra Maria Antonietta e il fratello, l'imperatore Leopoldo II d'Asburgo che, come quasi tutti i regnanti d'Europa, aveva accolto i réfugiés e non nascondeva la propria ostilità di fronte agli avvenimenti francesi.
Il sospetto popolare sulle attività della regina e sulla complicità del re trovò conferma il 21 giugno, quando la famiglia reale tentò di lasciare la Francia e fu catturata a Varennes.
Il 17 luglio 1791 i repubblicani di Parigi si riunirono al Campo di Marte chiedendo la deposizione del sovrano.
All'ordine di Lafayette, politicamente affiliato ai foglianti (monarchici moderati), la guardia nazionale aprì il fuoco disperdendo i dimostranti.
Lo spargimento di sangue acuì la frattura tra repubblicani e borghesia.
Dopo aver sospeso Luigi XVI dalle sue funzioni, la maggioranza moderata della Costituente, temendo ulteriori disordini, reintegrò il re nella speranza di contenere le spinte radicali ed evitare l'intervento straniero.
Il 14 settembre Luigi XVI giurò di appoggiare la costituzione emendata.
Due settimane dopo, con l'elezione della nuova legislatura autorizzata dalla costituzione, l'Assemblea costituente fu sciolta.
Nel frattempo, Leopoldo II e Federico Guglielmo II, re di Prussia, avevano emanato una dichiarazione congiunta contenente minacce di intervento armato contro la rivoluzione (27 agosto 1791).
L'Assemblea legislativa, riunitasi il 1° ottobre, era composta da 745 nuovi membri (poiché i costituenti si erano dichiarati ineleggibili alla legislatura successiva) ed era divisa in fazioni le cui idee politiche erano ampiamente divergenti.
La più moderata era quella dei foglianti, sostenitori della monarchia costituzionale prevista nella costituzione del 1791; al centro si collocava la maggioranza (detta pianura), senza un programma preciso, ma compatta nell'opposizione ai repubblicani, seduti a sinistra, distinti in girondini, che chiedevano la trasformazione della monarchia costituzionale in repubblica federale, e montagnardi (giacobini e cordiglieri), che propugnavano una repubblica fortemente centralizzata.
Prima che queste differenze provocassero una grave frattura interna, i repubblicani riuscirono a far approvare alcune leggi importanti e severe misure contro gli ecclesiastici che rifiutavano il giuramento di fedeltà.
Il veto del re a tali proposte creò una crisi che portò al potere i girondini, i quali, nonostante l'opposizione dei montagnardi, adottarono un atteggiamento ostile verso Federico Guglielmo II e Francesco II d'Asburgo (succeduto al padre sul trono imperiale il 1° marzo 1792), principali protettori dei réfugiés e sostenitori della ribellione dei signori feudali alsaziani contro il governo rivoluzionario.
La volontà di guerra si diffuse rapidamente sia tra i monarchici, che speravano di restaurare l'Ancien Régime, sia tra i girondini, che volevano un trionfo decisivo sulle forze reazionarie nazionali ed estere.
Il 20 aprile 1792 l'Assemblea legislativa dichiarò guerra all'Austria.
A causa degli errori commessi dagli alti comandi francesi, perlopiù monarchici, l'Austria riportò numerose vittorie nei Paesi Bassi austriaci.
La conseguente invasione della Francia fece cadere il ministero Roland il 13 giugno e nella capitale scoppiarono disordini culminati nell'attacco alle Tuileries, la residenza reale.
L'11 luglio Sardegna e Prussia entrarono in guerra contro la Francia e scattò l'emergenza nazionale; furono inviati rinforzi agli eserciti e a Parigi si raccolsero volontari da tutto il paese, tra cui il contingente di Marsiglia che arrivò cantando la Marseillaise.
Lo scontento popolare nei confronti dei girondini, raccoltisi intorno al monarca, aumentò la tensione, che degenerò in insurrezione aperta quando il duca di Brunswick minacciò di distruggere la capitale in caso di attentati contro la famiglia reale.
Gli insorti assaltarono le Tuileries, massacrando le guardie del re, che si rifugiò nella sala dell'Assemblea legislativa; il re fu sospeso e imprigionato, il governo parigino deposto e sostituito da un consiglio esecutivo provvisorio dominato dai montagnardi di Georges Danton, che ben presto assunsero il controllo dell'Assemblea legislativa e indissero elezioni a suffragio universale maschile per una nuova Convenzione costituente.
Tra il 2 e il 7 settembre oltre 1000 sospetti traditori furono processati sommariamente e giustiziati nei cosiddetti "massacri di settembre", dettati dalla paura di presunti complotti per rovesciare il governo rivoluzionario.
Il 20 settembre l'avanzata prussiana fu bloccata a Walmy.
Il giorno seguente si riunì la nuova Convenzione nazionale, che proclamò l'abolizione della monarchia e la nascita della Prima Repubblica.
Sebbene le principali fazioni, montagnardi e girondini, non avessero altri programmi comuni, non si sviluppò alcuna opposizione al decreto della Gironda che prometteva l'aiuto francese a tutti i popoli oppressi d'Europa, principio che di fatto avrebbe dato luogo a future annessioni.
Mentre le truppe conseguivano nuove vittorie, conquistando Magonza, Francoforte sul Meno, Nizza, la Savoia e i Paesi Bassi austriaci, cresceva il conflitto all'interno della Convenzione, con la Pianura che oscillava tra i girondini conservatori e i montagnardi radicali, capeggiati da Robespierre, Marat e Danton.
Fu approvata la proposta della Montagna di processare Luigi XVI per tradimento: il 15 gennaio 1793 il re fu dichiarato colpevole e il 21 gennaio ghigliottinato, provocando la reazione immediata delle corti europee.
La mancanza di unità dei girondini durante il processo al re danneggiò il loro prestigio e la loro influenza alla Convenzione diminuì, anche in conseguenza delle sconfitte francesi contro l'Inghilterra e le Province Unite (1° febbraio 1793) e contro la Spagna (7 marzo), quest'ultima entrata con alcuni stati minori nella coalizione controrivoluzionaria.
All'inizio di marzo, la Convenzione approvò la coscrizione di 300.000 uomini, arruolati nei vari dipartimenti.
Sfruttando la resistenza opposta dai contadini della Vandea, i monarchici e il clero li spinsero alla rivolta, dando inizio alla guerra civile che si diffuse rapidamente nei dipartimenti vicini.
La sconfitta francese a Neerwinden, la guerra civile e l'avanzata delle forze straniere in Francia portarono a una crisi tra i girondini e i montagnardi, che sostenevano la necessità di un'azione radicale in difesa della rivoluzione.
Il 6 aprile la Convenzione istituì un nuovo organo esecutivo della repubblica, il Comitato di salute pubblica, e riorganizzò il Comitato di sicurezza generale e il Tribunale rivoluzionario, inviando inoltre funzionari nei singoli dipartimenti per sorvegliare l'applicazione della legge e requisire uomini e armi.
Il conflitto tra girondini e montagnardi si acuì; nuovi tumulti scoppiati a Parigi, organizzati da estremisti radicali, costrinsero la Convenzione a ordinare l'arresto di 29 delegati e due ministri girondini, così che da quel momento prevalse la fazione radicale del governo parigino.
Il 24 giugno l'Assemblea promulgò una nuova costituzione ancora più democratica; tale documento non entrò mai in vigore perché fu completamente riformulato dai giacobini, passati il 10 luglio alla direzione del Comitato di salute pubblica.
Tre giorni dopo, il radicale giacobino Jean-Paul Marat fu assassinato da Carlotta Corday, simpatizzante girondina; l'indignazione pubblica accrebbe notevolmente l'influenza giacobina.
Il 27 luglio il giacobino Maximilien Robespierre entrò nel Comitato e ben presto ne assunse la guida.
Aiutato da Louis Saint-Just, Lazare Carnot, Georges Couthon e altri, Robespierre ricorse a misure estreme per schiacciare qualunque tendenza controrivoluzionaria.
I poteri del Comitato vennero rinnovati mensilmente dall'Assemblea nel periodo noto come il Terrore (aprile 1793 - luglio 1794).
In campo militare, la repubblica dovette affrontare le potenze nemiche che avevano ripreso l'offensiva su tutti i fronti: Magonza era stata riconquistata dai prussiani, numerose città francesi erano cadute o sotto assedio, gli insorti cattolici o monarchici controllavano buona parte della Vandea e della Bretagna, mentre Caen, Lione, Marsiglia e Bordeaux erano nelle mani dei girondini.
Una nuova coscrizione chiamò alle armi tutta la popolazione maschile abile, 750.000 uomini che vennero divisi in quattordici eserciti.
All'interno, l'opposizione veniva repressa duramente dal Comitato: il 16 ottobre fu giustiziata Maria Antonietta e, due settimane dopo, ventuno girondini; migliaia di monarchici, ecclesiastici, girondini e altri, accusati di attività o simpatie controrivoluzionarie, furono processati e mandati al patibolo, per un totale di 2639 esecuzioni, di cui più della metà tra giugno e luglio 1794.
Il tribunale di Nantes condannò a morte oltre 8000 persone in tre mesi e in tutta la Francia si eseguirono quasi 17.000 pene capitali che, sommate ai morti nelle prigioni sovraffollate e malsane e ai rivoltosi uccisi sul campo, portarono le vittime del Terrore a circa 40.000.
Non si fecero distinzioni: nobili, ecclesiastici, borghesi e soprattutto contadini e operai furono condannati come renitenti alla leva, disertori, ribelli o responsabili di altri crimini.
Al clero, il gruppo proporzionalmente più colpito, fu imposta l'abolizione del calendario giuliano, sostituito da quello repubblicano.
Il Comitato di salute pubblica di Robespierre tentò di riformare la Francia secondo i concetti di umanitarismo, idealismo sociale e patriottismo; nello sforzo di istituire una "repubblica della virtù", si enfatizzò la devozione alla nazione e alla vittoria, combattendo corruzione e ribellione.
Il 23 novembre 1793, la Comune di Parigi (la prima, detta anche Comune rivoluzionaria), presto seguita in tutta la Francia, chiuse le chiese, iniziando la predicazione della religione rivoluzionaria nota come culto della Dea Ragione.
Ciò accrebbe le differenze tra i giacobini, guidati da Robespierre, e i seguaci dell'estremista Jacques-René Hébert, che costituivano una forza notevole alla Convenzione e nel governo parigino.
Frattanto, la campagna contro la coalizione antifrancese raccoglieva vittorie e respingeva gli invasori; contemporaneamente il Comitato di salute pubblica schiacciava le insurrezioni di monarchici e girondini.
Il conflitto tra il Comitato e gli estremisti si risolse con l'esecuzione di Hébert e dei suoi collaboratori (24 marzo 1794); pochi giorni dopo (6 aprile) Robespierre fece giustiziare Danton e i suoi seguaci, che cominciavano a chiedere la pace e la fine del Terrore.
A causa di tali rappresaglie Robespierre perse l'appoggio di molti giacobini; si diffuse il rifiuto delle eccessive misure di sicurezza imposte dal Comitato e lo scontento generale si trasformò presto in una vera cospirazione: Robespierre, Saint-Just, Couthon e altri 98 seguaci furono arrestati il 27 luglio (corrispondente al 9 termidoro II) e giustiziati il giorno seguente.
Sino alla fine del 1794 l'Assemblea fu dominata dal gruppo che aveva rovesciato Robespierre ponendo fine al Terrore: i club giacobini furono chiusi in tutta la Francia, vennero aboliti i tribunali rivoluzionari e abrogati alcuni decreti, tra cui quello che fissava il tetto massimo di prezzi e salari.
Richiamati i girondini e altri delegati di destra espulsi, i termidoriani divennero fortemente reazionari, sicché nella primavera del 1795 ripresero tumulti e manifestazioni di protesta, duramente represse e seguite da rappresaglie contro i montagnardi.
Nell'inverno 1794 l'esercito invase i Paesi Bassi austriaci e le Province Unite, poi riorganizzate nella Repubblica batava.
La coalizione antifrancese si sgretolò: con il trattato di Basilea (5 aprile 1795) la Prussia e altri stati tedeschi stipularono la pace con la Francia; il 22 luglio anche la Spagna uscì dalla guerra; solo Gran Bretagna, Sardegna e Austria rimasero in guerra con la Francia.
Per quasi un anno però si ebbe una situazione di tregua.
La fase successiva aprì le guerre napoleoniche.
La Convenzione nazionale redasse rapidamente una nuova costituzione che, approvata il 22 agosto 1795, conferiva il potere esecutivo a un Direttorio composto di cinque membri e quello legislativo a due camere, il Consiglio degli Anziani (250 membri) e il Consiglio dei Cinquecento.
Il mandato di un membro del Direttorio e di un terzo del corpo legislativo doveva essere rinnovato annualmente a partire dal maggio 1797 e il voto era limitato ai contribuenti residenti da almeno un anno nel proprio distretto elettorale.
La nuova costituzione si allontanava dalla democrazia giacobina e, non indicando mezzi per risolvere i conflitti tra potere esecutivo e legislativo, pose le premesse per rivalità interne, colpi di stato e un'inefficace gestione degli affari interni.
La Convenzione, sempre anticlericale e antimonarchica nonostante l'opposizione ai giacobini, creò una serie di garanzie contro la restaurazione della monarchia; decretò infatti che il Direttorio e due terzi del corpo legislativo fossero scelti tra i propri membri, suscitando così la violenta insurrezione dei monarchici (5 ottobre 1795).
I disordini furono sedati dai soldati guidati dal generale Napoleone Bonaparte.
Il 26 ottobre cessarono i poteri della Convenzione, sostituita il 2 novembre dal governo previsto nella nuova costituzione.
Nonostante il contributo di abili statisti quali Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord e Joseph Fouché, il Direttorio dovette fronteggiare subito numerose difficoltà: sul fronte interno l'eredità di un'acuta crisi finanziaria aggravata da una disastrosa svalutazione (99% circa) degli assignats, lo spirito giacobino ancora vivo tra le classi più povere, il proliferare tra i benestanti di agitatori monarchici che propugnavano la restaurazione; sul fronte internazionale la questione aperta con il Sacro romano impero e l'assolutismo, costante minaccia alla rivoluzione, che ancora dominava quasi tutta l'Europa.
I raggruppamenti politici borghesi, decisi a conservare il potere conquistato, presto scoprirono i vantaggi derivanti dal dirottare le energie della massa in canali militari.
A circa cinque mesi dall'insediamento, il Direttorio aprì la prima fase (marzo 1796 - ottobre 1797) delle guerre napoleoniche.
Tre colpi di stato, sconfitte militari nell'estate 1799, difficoltà economiche e fermento sociale misero in grave pericolo la supremazia politica borghese.
Gli attacchi della sinistra culminarono in un complotto del riformatore radicale François-Noël Babeuf, che chiedeva la distribuzione di terre e ricchezze.
Il tradimento di un complice fece fallire l'insurrezione e Babeuf fu giustiziato il 28 maggio 1797.
Un colpo di stato rovesciò il Direttorio (9-10 novembre 1799) e Napoleone Bonaparte, idolo popolare grazie a recenti vittoriose campagne, salì al potere come Primo console, chiudendo il periodo "rivoluzionario".
Il parziale fallimento della rivoluzione fu compensato dal suo dilagare in quasi tutta Europa.
Il risultato immediato della rivoluzione fu l'abolizione della monarchia assoluta e dei privilegi feudali.
Si eliminarono la servitù, i tributi e le decime; i grandi possedimenti vennero frazionati e si introdusse un principio equo di tassazione; con la redistribuzione delle ricchezze e dei terreni, la Francia divenne il paese europeo con il maggior numero di piccoli proprietari terrieri indipendenti.
A livello sociale ed economico, si abolirono l'incarceramento per debiti e il diritto di primogenitura nell'eredità terriera, e fu introdotto il sistema metrico decimale.
Napoleone portò a compimento alcune riforme avviate durante la rivoluzione: istituì la Banca di Francia, che era banca nazionale semi-indipendente e agente governativo in materia di valuta, prestiti e depositi pubblici; instaurò l'attuale sistema scolastico, centralizzato e laico; organizzò l'università e l'Institut de France; stabilì l'assegnazione delle cattedre in base a esami aperti a tutti, senza distinzioni di nascita o reddito.
La riforma delle leggi provinciali e locali fu accolta nel Codice napoleonico, che rispecchiava molti principi introdotti dalla rivoluzione: uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; proibizione della detenzione arbitraria oltre il terzo giorno dall'arresto; regolarità processuale, che prevedeva un consiglio di giudici e una giuria, la presupposizione di innocenza dell'accusato fino a prova contraria e il diritto alla difesa.
In tema di religione i principi di libertà di culto e di stampa, enunciati nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo, portarono a una maggiore libertà di coscienza e al godimento dei diritti civili per protestanti ed ebrei.
Furono gettate le basi per la separazione tra stato e Chiesa.
Gli esiti teorici della rivoluzione si ritrovano nelle parole "liberté, égalité, fraternité", che diventarono il vessillo per le riforme liberali in Francia e in Europa nel XIX secolo; tuttora sono parole-chiave della democrazia.
Storici revisionisti, tuttavia, attribuiscono alla rivoluzione gli effetti meno positivi dell'ascesa di un sistema altamente centralizzato e spesso totalitario, e della guerra applicata su larga scala a coinvolgere intere nazioni.
Altri tendono a sminuire la lotta di classe come elemento motore della rivoluzione, e a sottolineare l'importanza di fattori politici, culturali e ideologici (vedi: Introduzione alla filosofia - di Ernesto Riva).


JEAN JACQUES ROUSSEAU (1712-1778): il saggio che darà una certa notorietà a Rousseau fu il Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), che egli aveva scritto in seguito ad un concorso indetto dall’Accademia di Digione sul tema: "La rinascita della scienza e delle arti ha contribuito a corrompere o a purificare i costumi?".
Il breve scritto di Rousseau, che otterrà il primo premio, rivelò una personalità originale, con una forte determinazione ad andare al cuore dei problemi e desiderosa di rinnovamento e di rigenerazione radicale della società.
In apparenza, l’assunto del giovane Rousseau sembrava sostenere che le scienze e le arti non hanno contribuito al progresso bensì al regresso della civiltà, fiaccando gli animi e distogliendoli dal perseguimento delle più autentiche virtù civili e sociali.
In realtà, il Discorso non criticava né la cultura né il sapere in sé.
Li criticava solo nella misura in cui, tradendo la loro più vera missione, essi non operavano per il miglioramento dell’umanità, rendendosi talora persino complici del rammollimento dei costumi.
Non dimentichiamo le responsabilità politiche che scienze ed arti hanno avuto (ed hanno) nello sviluppo del dispotismo repressivo degli Stati moderni.
Rousseau vagheggia invece la polis dell’antichità, cioè è convinto che la mirabile armonia tra individuo e comunità, tra cultura e politica che fu un tempo di Atene e Sparta, dovrebbe essere il traguardo ambìto anche delle nazioni moderne.
Molto più controllato, anche se altrettanto radicale, è il Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (1754), che Rousseau scrisse per un altro concorso, sempre bandito dall’Accademia di Digione.
Egli esordisce dicendo che l’uomo di natura non è tanto un essere buono quanto un essere dotato di tendenze e istinti positivi.
Per natura l’uomo è solo aperto al rapporto intersoggettivo ed è solo sollecitato, dall’istinto di perfettibilità, al proprio perfezionamento.
Rousseau non confonde lo stato di natura con la mitica Età dell’Oro o col Paradiso Perduto; non crede che esso fosse il luogo o lo stato o la sorgente di tutti i beni e di tutti i valori.
E soprattutto per lui lo stato di natura "non esiste più, forse non è mai esistito e probabilmente non esisterà mai".
Esso è dunque piuttosto una ipotesi, un paradigma valutativo e non qualcosa di reale.
Riguardo poi l’origine della vita sociale, Rousseau non la identifica tanto con l’istituzione di un patto o di un contratto quanto con una rete assai più complessa di inclinazioni, bisogni, sentimenti.
L’essenza della socialità è dunque cosa positiva: ciò che non è certo è che il suo sviluppo sia altrettanto positivo.
Anzi fin dall’inizio l’egoismo, la brama di potere, il complicarsi delle relazioni generano il male e il conflitto sociale, che è anche conflitto umano.
Ma Rousseau vuole fare un discorso politico ed individuare una causa cui concretamente imputare l’origine del male di cui sopra.
Questa causa viene identificata con l’istituzione della proprietà privata.
La proprietà privata produce infatti una disuguaglianza economica che tende rapidamente a coincidere con una disuguaglianza sociale e politica.
Chi possiede, ha anche il potere.
Il potere, in una spirale perversa, genera altro potere.
L’élite dei proprietari è quella stessa che costituirà il sistema giuridico: un sistema iniquo perché finalizzato alla autoconservazione della forza e dell’autorità e alla perpetuazione della disuguaglianza.
Nel 1762 Rousseau pubblica il Contratto sociale.
In quest’opera si respira un’ansia di emancipazione per cui egli vorrebbe trasformare la realtà: creare una società libera ed egualitaria per rigenerare l’umanità.
Il problema più arduo è mediare tra due realtà che Rousseau ritiene assolutamente certe e oggettive: da un lato che l’uomo è e deve restare libero; dall’altro che la società implica un ordine e quindi delle rinunce.
Rousseau ritiene che sia possibile trovare una soluzione ripensando alla genesi della società.
Il filosofo inglese Hobbes aveva affermato che solo una cessione generale di tutti i poteri da parte di tutti gli individui garantiva la tutela dell’uguaglianza tra i membri della società.
Anche Rousseau parla di una alienazione totale, di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, alla comunità.
Egli pone però l’accento sul momento della comunità.
In altre parole, per Rousseau l’uomo è persona e la società è un corpo vivente; la salute della società dipende dall’essere dei singoli cittadini; si deve perciò puntare ad una integrazione cooperante tra uomini e società (da ciò deriva anche la strettissima connessione, nell’opera di Rousseau, tra la riflessione sociopolitica e quella psicologico-antropologico-pedagogica, come vedremo tra breve nell’Emilio).
Infatti solo individui opportunamente rigenerati permetteranno una radicale trasformazione della società.
Secondo Rousseau, i cittadini, pur alienando tutti i loro diritti alla comunità, che ne ricava un massimo di autorità, restano liberi.
E restano libri non solo in quanto acquistano uno stato di assoluta uguaglianza reciproca tutelata dalla legge, ma anche in quanto partecipano attivamente alla vita comunitaria, in quanto gestiscono direttamente il potere politico.
Rousseau ha compreso, con grande acume, che una delle possibili matrici della illibertà risiede proprio nella delega del potere da parte del complesso dei cittadini ad un gruppo di essi.
Tale delega appare a Rousseau comunque dannosa. La sovranità andrebbe attribuita invece al solo io comune del popolo.
Solo il popolo è il legittimo titolare del potere.
In più, il popolo può bensì affidare per motivi di convenienza pratica la gestione degli affari pubblici ad appositi deputati, ma costoro non devono essere considerati in alcun modo i depositari di una sorta di potere separato.
L’ideale politico delineato da Rousseau si incarna in una comunità di non grandi dimensioni, in cui il cittadino sia, insieme, governato e governante (dietro tutto ciò c’era forse il modello di Ginevra).
Ma un modello politico del genere è concretamente realizzabile? Rousseau risponde che l’uomo non è solo istinto, mera volizione egoistica e cieca; egli è anche ragione, coscienza, riflessione.
Perciò può riuscire a guardare al di là del proprio perimetro soggettivo, a cogliere valori più ampi, a partecipare ad istanze che lo trascendono, pur restando anche sue proprie istanze.
Questa capacità gli consente di ascoltare una volontà che non è la sua semplice volontà individuale, ma è la cosiddetta volontà generale.
Essa è la voce della collettività, l’espressione degli interessi socialmente costituiti, la prospettiva rivolta costantemente all’utilità generale.
Essa è un’espressione di noi stessi, del nostro essere uomini.
Obbedendo alla volontà generale, l’uomo obbedisce pertanto a se stesso, anzi, alla parte più razionale e morale di se stesso; per questo una tale obbedienza pone in essere la sola libertà degna di questo nome.
In breve, l’uomo è propriamente tale solo in quanto è cittadino che coglie ed accetta le esigenze profonde e razionali della società.
Nello stesso anno in cui è pubblicato il Contratto sociale, esce anche l’Emilio, e non a caso.
L’opera delinea infatti un modello di uomo senza il quale il modello di società delineato nel Contratto sociale non poteva neppure essere pensato.
L’educazione si configura per Rousseau come quell’intervento attraverso cui si può plasmare un’umanità capace di vivere, anzi di convivere, secondo i dettami della giustizia e della ragione.
Prima che all’istruzione di un fanciullo e alla preparazione di un adulto o, meglio, di un cittadino, Rousseau punta alla formazione di un uomo: "Vivere è il mestiere che gli voglio insegnare. Uscendo dalle mie mani, egli … sarà prima di tutto un uomo: tutto quello che un uomo dev’essere, egli saprà esserlo, all’occorrenza, al pari di chiunque: e per quanto la fortuna possa fargli cambiare condizione, egli si troverà sempre nella sua" (cfr. Emilio, libro 1°).
Il principio-guida dell’opera di Rousseau è costituito da una libertà ben guidata, non da una libertà capricciosa e disordinata.
A tale scopo l’itinerario e l’ideale educativo deve essere graduale e rispettoso dei vari stadi di sviluppo.
In primo luogo, il precettore non deve considerare il fanciullo come un adulto in miniatura : "La natura vuole che i fanciulli siano fanciulli prima di essere uomini. L’infanzia ha certi modi di vedere, di pensare, di sentire del tutto speciali; niente è più sciocco che voler sostituire ad essi i nostri".
Rispettando tale sviluppo, dalla nascita ai dodici anni, bisogna badare all’esercizio intelligente dei sensi.
Da qui l’esigenza di educare il fanciullo a sviluppare liberamente il bisogno di muoversi, di giocare, di conoscere il proprio corpo.
E’ il periodo della cosiddetta educazione negativa, la quale consiste "non già nell’insegnare la virtù e la verità, ma nel garantire il cuore dal vizio e la mente dall’errore".
Tale principio deriva dall’assunto che non vi è perversità nel cuore umano, che la deviazione e il vizio vengono dall’esterno.
I vizi presi nell’età della prima formazione, quella che va appunto dalla nascita ai dodici anni, non saranno più sradicati : occorre perciò proteggere in ogni modo Emilio dalle influenze negative dell’ambiente, favorendo invece lo sviluppo delle sue inclinazioni naturali.
L’educatore pianificherà ogni cosa affinché Emilio compia da sé le scoperte che costituiscono la sua conoscenza del mondo.
Anche l’obbedienza, in questo periodo, sarà ottenuta con la pura autorità, senza discussione : "Adoperate la forza con i fanciulli e la ragione con gli uomini".
Dai dodici ai quindici anni occorre sviluppare l’educazione intellettuale, orientando l’attenzione del ragazzo verso le scienze, dalla fisica alla geometria all’astronomia, attraverso un contatto diretto con le cose, allo scopo di cogliere le regolarità e le necessità della natura; si collegherà inoltre ogni conoscenza ad un’utilità riconoscibile dal ragazzo, che ricostruirà poi da sé i principi delle scienze.
Dai quindici ai ventidue anni è il momento dell’educazione morale, sociale e religiosa.
L’educazione alla virtù farà di Emilio un "uomo morale": e la moralità consisterà nel sapere disciplinare le passioni, seguendo il lume della ragione e la voce della coscienza.
Da ultimo, l’educazione politica preparerà Emilio alla vita sociale : imparerà a distinguere il giusto dall’ingiusto e agirà secondo l’accordo della sua volontà con quella generale della comunità.
Potrà così diventare un buon cittadino ed un buon marito e padre (conoscerà Sofia, la sua futura sposa).
L’ideale etico-religioso di Rousseau in quest’opera è esposto nel quarto libro, nella famosa Professione di fede del vicario savoiardo.
Le verità fondamentali in cui tutti credono sono due : l’esistenza di un essere supremo e l’immortalità dell’anima.
Rousseau dice di rifiutare la dottrina del peccato originale e la salvezza soprannaturale e propone invece una "professione di fede puramente civile, di cui spetta al sovrano fissare gli articoli".
Tali articoli sono le due verità dette prima con in più "la santità del contratto sociale e delle leggi", e l’aggiunta di un dogma negativo, l’intolleranza.
"Bisogna tollerare – sostiene Rousseau – tutte quelle religioni che a loro volta tollerano le altre, fintanto che i loro dogmi non contengano niente di contrario ai doveri del cittadino. Ma chiunque osi dire che fuori della Chiesa non c’è salvezza, dev’essere espulso dallo Stato".
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA Jean Jacques Rousseau nacque a Ginevra nel 1712 ed ebbe un’infanzia difficile: la madre morì di parto e il padre dovette ben presto lasciare la città. Il giovane Rousseau ricevette l’appoggio di Madame de Warens, una dama svizzera al servizio del re di Sardegna, che gli fece da matrigna e da amante. Durante questo periodo – in cui soggiornò ad Annecy (nella Savoia), Torino, varie località della Svizzera, Chambery – esercitò diversi mestieri e completò la sua formazione intellettuale con numerose letture. Separatosi da Madame de Warens, arrivò a Parigi ed entrò in contatto con gli Enciclopedisti. Scrisse parecchi articoli per la famosa Enciclopedia, tra cui alcuni di carattere musicale: si dilettava infatti anche di composizione, ed un suo melodramma fu persino rappresentato a Versailles, alla presenza del re. Nel 1757 interruppe i suoi rapporti con gli Enciclopedisti e si ritirò a Montmorency, dove scrisse La nuova Eloisa (1761), il Contratto sociale (1762), l’Emilio (1762). Poiché queste opere furono condannate sia dalle autorità parigine che ginevrine, si rifugiò a Neuchâtel, in un territorio svizzero ma soggetto al re di Prussia. Si trasferì per un po’ anche in Inghilterra, a Londra, su invito di , ma poco dopo i rapporti fra i due pensatori di guastarono e Rousseau se ne tornò in Francia. Si ritirò, a causa delle cattive condizioni di salute, ad Ermenonville, dove morì nel 1778, dopo aver scritto un’autobiografia, che intitolò Confessioni.


FRANCOIS MARIE AROUET, anagrammato in VOLTAIRE da Arouet le Jeune, ultimo dei 5 figli di un notaio, nacque a Parigi nel 1694.
A 7 anni gli morì la madre e a 10 anni fu mandato a studiare dai gesuiti, presso i quali si distinse per la sua notevole intelligenza.
Nel 1711 ci fu il suo ingresso in società, dove si fece notare grazie allo spirito sagace e brillante.
Ma questo 'successo' mondano non piacque al padre, un uomo dalle idee piuttosto conservatrici, e fu per tale motivo che il giovane François fu avviato all'avvocatura ed alla carriera diplomatica.
Tornato in Francia dall'Aia, dove aveva intrecciato una relazione amorosa malvista dal padre, venne prima condannato al soggiorno forzato presso i castelli di influenti protettori e poi fu detenuto alla Bastiglia a causa di certi versi satirici diretti contro Filippo d'Orléans.
Rilasciato, negli anni successivi si procurò sia diverse e potenti inimicizie, sia pensioni e protezioni a causa delle sue simpatie nei confronti del Protestantesimo, evidenti nel poema La Lega, del 1723.
Nel 1726 fu condotto di nuovo entro le mura della Bastiglia in seguito ad uno screzio con il cavaliere di Rohan e fu liberato solo a patto che si recasse in esilio in Inghilterra, dove rimase fino al 1728.
Il contatto con la cultura inglese si rivelò quanto mai benefico per la formazione di Voltaire, che frequentò tanto filosofi come Berkley e Clarke quanto scrittori come Swift e Pope, e che respirò a pieni polmoni l'aria di libertà politica ed intellettuale vigente nel paese.
Il frutto più diretto di queste esperienze furono le Lettere Filosofiche o Lettere sugli inglesi (edizione inglese del 1733; edizione francese del 1734), che sconvolsero la Francia dell'Assolutismo monarchico e della filosofia cartesiana (di Cartesio Voltaire aveva detto: "Fece della filosofia come si fa un buon romanzo: tutto parve verosimile e niente era vero").
Tornato in Francia, Voltaire si stabilì a Cirey presso la sua amante, marchesa du Chatelet; questi anni e quelli immediatamente successivi costituirono il periodo più fecondo della sua attività filosofica e letteraria, che si concretizzò in poemi, opere storiografiche, tragedie e saggi.
Anche i suoi rapporti con la Corona migliorarono e, nel 1746, fu accolto tra gli 'immortali' dell'Accademia.
Ma la morte della marchesa du Chatelet ed il legame non solidissimo che intratteneva col re, lo indussero, nel 1750, ad accettare l'invito di Federico II di Prussia e si recò presso la sua corte, dove rimase, nonostante l'incompatibilità di carattere col sovrano, fino al '53.
Nel 1755 si stabilì a Ginevra, di cui apprezzava l'atmosfera tollerante e razionale, e vi risiedette finché non difese le posizioni di Miguel Servet, un dissidente religioso che Calvino aveva condannato al rogo.
Questo episodio lo rese inviso al 'tollerante' protestantesimo svizzero, costringendolo a tornare in Francia, dove visse gli ultimi suoi 20 anni circondato da una piccola corte personale.
In questo lasso di tempo l'attività intellettuale e politica di Voltaire divenne sempre più intensa e culminò con le opere Trattato sulla tolleranza (1763) e Dizionario filosofico (1764), nonché con la pubblicazione di libelli contro l'intolleranza religiosa della Chiesa cattolica, di satire, di opere teatrali e di racconti filosofici.
Chiamato a Parigi nel 1778 per la rappresentazione della tragedia Irene, vi morì tra il frastuono dell'accoglienza trionfale che la Francia gli andava tributando (Note biografiche a cura di Maria Agostinelli).

MONTESQUIEU: filosofo e saggista politico francese (1689-1755), uno dei principali esponenti dell'Illuminismo francese.
Fino dalle Lettere persiane (1721), un'opera imperniata sulla critica della società della Reggenza, Montesquieu avviò lo studio delle leggi che regolano la vita sociale.
Esso troverà una definitiva trattazione nella sua opera maggiore, Lo spirito delle leggi (1748), nella quale Montesquieu sostiene la corrispondenza tra forme di governo e forme legislative e, seguendo il modello della Costituzione inglese, afferma la necessità di una rigida distinzione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, affinché la libertà del cittadino sia assicurata.
Montesquieu si afferma come uno dei maggiori teorici del liberalismo settecentesco, attento ai pericoli rappresentati dal dispotismo e dalla perdita delle libertà politiche da parte del cittadino.