URBANO VIII. - Maffeo Virginio Romolo Barberini nacque, penultimo di sei fratelli, il 5 aprile 1568 a Firenze da Antonio e Camilla Barbadori; fu battezzato lo stesso giorno nel battistero del duomo di Firenze. I suoi avi, provenienti da Barberino di Val d'Elsa (di qui il cognome della famiglia che in origine si chiamava Tafani), avevano da generazioni conquistato e conservato a Firenze un più che modesto benessere da commercianti di lana, tessuti ed altre mercanzie; verso il 1540, fra l'altro a causa di risentimenti antimedicei, l'azienda familiare trasferì il centro delle sue attività ad Ancona, arricchendosi ed estendendo i commerci via mare e via terra anche ai paesi nordici e con il Vicino Oriente. Il padre si era ritrasferito da Ancona a Firenze nel 1561 per morire prematuramente nel 1571; l'educazione dei figli rimase affidata alla madre sotto la tutela del cognato Francesco Barberini, primo laureato e primo sacerdote, poi prelato che la famiglia poté vantare, allora attivo nella Curia romana in qualità di protonotario apostolico. Maffeo, della cui giovinezza s'ignora quasi tutto, svolse gli studi di umanità presso il collegio fiorentino dei Gesuiti. Nel 1584, il tanto severo e colto quanto parsimonioso zio Francesco fece venire il nipote a Roma per mandarlo al Collegio Romano a perfezionare gli studi. Due anni più tardi si recò all'Università di Pisa, dove, come lo zio, si addottorò, il 7 aprile 1588, "in utroque iure". Dopo il ritorno a Roma s'occupò sempre di più delle faccende familiari e dell'amministrazione dei beni e degli affari dello zio monsignore impegnato, evidentemente con molto successo, nel mercato di compravendita degli uffici vacabili. Lo stesso zio gli comprò, il 7 ottobre 1588, per 8.000 scudi d'oro, l'ufficio di abbreviatore di parco maggiore; questa spesa abbastanza ingente gli aprì le porte del servizio nella Curia pontificia, mentre il successivo acquisto, effettuato il 1° luglio 1589, di un ufficio di referendario "utriusque Signaturae" per 2.000 scudi d'oro, lo alzò al rango prelatizio. L'ulteriore acquisizione di un cavalierato di S. Pietro e di uno di S. Paolo al prezzo complessivo di 2.100 scudi d'oro, effettuata il 28 agosto 1591, equivaleva, invece, a un semplice investimento bancario. Il 15 febbraio 1592, l'appena eletto Clemente VIII, che già da cardinale aveva favorito la carriera di Barberini, lo nominò governatore di Fano, propria città natale. Durante i quattordici mesi della sua permanenza, Barberini dovette occuparsi, oltre che delle faccende amministrative, soprattutto del banditismo. Nella vicina Fossombrone gli vennero conferiti, il 24 giugno 1592, i quattro ordini minori, dopo aver ricevuto, il 7 aprile 1586, la prima tonsura a Roma, in S. Giovanni in Laterano: nel frattempo, la madre aveva pensato per lui al matrimonio e aveva a tal fine condotto trattative. Nell'ottobre 1593, lo zio Francesco rinunziò al suo ufficio di protonotario partecipante in favore di Maffeo, che ne prese possesso il 24 ottobre; il normale prezzo di vendita di questo prestigioso ufficio si aggirava allora attorno a 7.000 scudi d'oro. Alla fine del novembre 1595, Barberini non poté effettuare, a causa di una grave malattia dello zio, una missione in Ungheria, in qualità di commissario generale, per controllare l'impiego dei sussidi pontifici per la guerra contro i Turchi. Nel marzo 1597 riuscì, dopo lunghe trattative e con la forte spesa di 40.000 scudi d'oro circa, ad impossessarsi della carica di chierico di Camera, una delle più promettenti pedane di lancio per raggiungere il cardinalato; ricevette però il relativo privilegio di immunità fiscale solo il 15 maggio 1601. Negli anni seguenti gli fu affidata una serie di incarichi straordinari, che lo allontanarono spesso e per lunghi periodi dalla Curia romana. Alla fine del gennaio 1598 accompagnò il cardinale Pietro Aldobrandini a Ferrara, dove poi rimase, per molti mesi, al seguito di Clemente VIII. Verso la fine del 1599 si recò di nuovo nel Ferrarese per raccogliere informazioni sulle intenzioni dei Veneziani di effettuare un taglio sul Po lungo il nuovo confine dello Stato della Chiesa e per rendersi conto dei problemi idrogeologici che una tale impresa avrebbe creato per i paralleli progetti pontifici di bonifica delle piane paludose del Polesine e di rendere navigabile il braccio del Po che passava vicino a Ferrara. All'inizio dell'ottobre 1600, Barberini partecipò in Firenze, di nuovo al seguito del cardinal legato Pietro Aldobrandini, ai festeggiamenti in occasione dello sposalizio di Maria de' Medici con Enrico IV di Francia. Qualche mese più tardi, il 25 maggio 1601, fu incaricato, insieme ad Alessandro Ludovisi, il futuro Gregorio XV, ed al futuro cardinale Pietro Millini, di visitare la exclave pontificia di Benevento per rimediare ad alcune deficienze degli ultimi governatori e per risolvere varie controversie di confine con il viceré di Napoli e i baroni locali. Il 15 luglio 1602, infine, fu nominato commissario pontificio per affrontare una volta ancora problemi idrogeologici: questa volta al lago Trasimeno, dove le continue inondazioni avevano causato gravi danni. In conseguenza gli fu conferita, all'inizio del 1603, la carica camerale di presidente delle strade. Nel frattempo, il 28 maggio 1600, moriva lo zio Francesco, lasciando come unico erede fiduciario il nipote Maffeo. Barberini assegnò vitalizi, nonché tutto il patrimonio immobiliare fiorentino, ai tre fratelli celibi e piuttosto inetti (tutti e tre morirono a Firenze entro una dozzina di anni), mentre fece spostare a Roma la madre e, come suo agente ed amministratore, il fratello maggiore Carlo con la famiglia. L'eredità dello zio dev'essere stata ingente: almeno 100.000 scudi in valori mobili, cui andavano aggiunti una casa romana a Capodiferro e due casali nell'Agro romano. A Barberini appena trentenne questa eredità (ove erano confluiti pure i capitali realizzati con la liquidazione dell'azienda familiare ad Ancona) assicurava una ricchezza ed una disponibilità di mezzi finanziari difficilmente raggiungibili da qualsiasi altro prelato di Curia. In conseguenza, gli furono affidate da Clemente VIII missioni tanto dispendiose quanto prestigiose, che lo portarono fuori dai confini italiani e gli permisero di stabilire ottimi rapporti con la corte di Parigi e col mondo politico e culturale francese. Il 22 ottobre 1601, Barberini fu nominato nunzio straordinario per portare a Parigi, in occasione della nascita del delfino di Francia, il futuro re Luigi XIII, le lettere di congratulazioni, la benedizione ed i regali del papa: le fasce benedette ed una croce contenente delle reliquie. Alla fine del mese partì da Roma, accompagnato fra l'altro da due fratelli. Durante il viaggio fece visita prima, il 7 novembre, a Parma alla duchessa ed al cardinale Odoardo Farnese e poi, il 10 novembre, a Vercelli al duca Carlo Emanuele I di Savoia. Dal 19 al 25 novembre si fermò a Lione ed il 3 dicembre arrivò a Parigi, dove fu ospitato dal nunzio ordinario Innocenzo del Bufalo nella sua residenza all'Hôtel de Cluny e dove prese parte, per più di un mese, a tutte le attività della legazione. Ben tre volte fu ricevuto in udienza dai reali; in tali occasioni, non solo indirizzò loro solenni discorsi, ma intervenne anche, su commissione del papa, in alcune questioni correnti della Nunziatura. Poco prima di Natale, si recò a St-Germain per far visita anche al delfino. Il 7 gennaio 1602 lasciò Parigi, portandosi dietro i regali di congedo offertigli da Enrico IV: una ventina di pezzi d'argento del valore di 3.000 scudi. Rientrò a Roma a metà febbraio. Le tappe decisive dell'ascesa sociale ed ecclesiastica di Barberini si verificarono nell'autunno 1604: a trentasei anni egli venne promosso in Siena, fra il 19 ed il 26 settembre, agli ordini maggiori. Già un mese dopo, il 20 ottobre, ottenne la nomina ad arcivescovo titolare di Nazaret (si trattava, però, di un vescovado titolare sui generis, dato che era unito con la sede vescovile di Barletta e dotato di entrate annue di circa 1.300 scudi) con il privilegio di poter mantenere tutti gli uffici curiali ed i luoghi di Monte in suo possesso. Fu il patriarca di Gerusalemme Fabio Biondo, il 28 ottobre, a conferirgli in Roma la consacrazione episcopale. Il 27 novembre successivo venne resa pubblica la sua nomina a nunzio ordinario presso la corte di Francia, decisa da Clemente VIII già all'inizio di settembre. Varie circostanze erano destinate a facilitare i compiti del nuovo nunzio in Francia: prima della partenza Barberini poté incontrare a Roma il suo predecessore, che gli fornì informazioni molto più dettagliate ed utili di quelle contenute nelle tardive e poco circostanziate - anche se estese - istruzioni della Segreteria di Stato che lo raggiunsero a Parigi solo verso il 20 gennaio 1605. Alla Nunziatura inoltre il suo predecessore aveva lasciato, in qualità di incaricato d'affari, uno dei suoi segretari, che poi rimase a fianco di Barberini fino a metà marzo. Questa volta, Barberini prese la via del mare, partendo da Civitavecchia attorno al 10 dicembre, per sbarcare a Marsiglia; al suo seguito aveva una ventina di familiari quasi tutti di origine toscana, fra i quali, in funzione di segretario, il poeta pistoiese Francesco Bracciolini ed il marchese piemontese Francesco Adriano Ceva. A Parigi, Barberini arrivò all'inizio di gennaio del 1605. Tre mesi più tardi moriva Clemente VIII e veniva eletto Leone XI. Durante il brevissimo pontificato di quest'ultimo, Barberini rischiò di venir richiamato a Roma, ma il neoeletto Paolo V, nel maggio, lo confermò nella carica. In campo politico, compito primario di Barberini era il mantenimento ed il consolidamento della pace fra le potenze cattoliche. Per quanto riguarda i rapporti tra la Francia e la Savoia, la pace appena siglata nel 1601 a Lione, almeno per il momento, non sembrava in pericolo e perciò il nunzio poteva limitare i suoi interventi a quei casi in cui gli scambi territoriali stabiliti nel trattato di pace toccavano gli interessi della Chiesa; così egli doveva suggerire la sostituzione dei governatori ugonotti nei territori conquistati dalla Francia, come a Bourg-en-Bresse o a Casteldelfino, un avamposto dei Francesi, dove continuava l'esercizio calvinista. Molto più impegnativo, invece, risultò il consolidamento della pace di Vervins conclusa nel 1598 tra Francia e Spagna. Su ordine di Clemente VIII prima e di Paolo V dopo, Barberini doveva protestare contro i sussidi militari e finanziari che la Francia forniva ai "ribelli eretici" delle Provincie Unite nel loro conflitto armato contro gli Spagnoli. Enrico IV non negava d'aver prestato aiuti, accusava però la Spagna di sostenere gli ugonotti in Francia, com'era successo nell'accordo fra il re Cattolico ed il duca di Bouillon per impadronirsi di Narbona. Il nunzio, da parte sua, poté solo rispondere che il papa avrebbe continuato a cercare alla corte di Madrid una conciliazione degli interessi contrastanti delle due Corone, non lasciando alcun dubbio che Roma non avrebbe mai preso partito in favore di Madrid contro Parigi. Durante la sede vacante nella primavera del 1605, quando il nunzio rimase senza istruzioni della Segreteria di Stato, si sviluppò un'acuta crisi nelle relazioni tra le due Corone: venne scoperta una congiura che, con un colpo di mano, avrebbe dovuto consegnare Marsiglia alla Spagna. Nella congiura era coinvolto un segretario fiammingo dell'ambasciatore spagnolo a Parigi che fu arrestato ed accusato del crimine di lesa maestà. È da attribuire in buona parte all'intercessione di Barberini presso Enrico IV, che avrebbe voluto far immediatamente giustiziare il colpevole, se non s'arrivò a un grave conflitto giuridico e diplomatico. Le parole che il nunzio indirizzò in quest'emergenza al re nel tentativo di impedire che si arrivasse a una decisione affrettata ed irrimediabile - "i buoni consigli sono figlioli della tardanza" (P. Blet, Un futur pape, p. 207) - sembrano emblematiche per il futuro atteggiamento diplomatico di Barberini. Mentre sotto Paolo V il progetto, sostenuto da Clemente VIII, di una lega franco-spagnola contro i Turchi passava in seconda linea, Barberini portò avanti, per tutta la durata della sua nunziatura, progetti più concreti, anche se prematuri, per futuri matrimoni fra le case di Asburgo e Borbone. Il compito più arduo, in campo non solo politico, lo dovette affrontare nel corso del crescente inasprimento dei conflitti giurisdizionali tra Roma e Venezia, iniziati sotto Clemente VIII e acutizzatisi nel 1605. L'interdetto di Venezia, annunciato da Paolo V nell'aprile 1606, mise in imbarazzo Enrico IV perché la Repubblica veneta era un importante alleato della Francia. A Parigi si temeva che la Spagna, sotto il pretesto di difendere i diritti della Chiesa, intendesse intervenire militarmente nel conflitto; inoltre si giudicava esagerata ed ingiustificata la dura decisione presa da Paolo V. In questa congiuntura il nunzio cercò di convincere Enrico IV che il rigore opposto dal papa alle "novità" veneziane non avrebbe messo in discussione le libertà gallicane, visto che si trattava di privilegi riconosciuti già da tempi remoti alla Francia. Inoltre tentò di indurre il re a disapprovare apertamente il comportamento della Repubblica ed a schierarsi dalla parte del pontefice. Per lunghi mesi, Barberini fece valere le sue capacità diplomatiche in reiterati colloqui con Enrico IV che non voleva mettere a rischio gli interessi francesi con una prematura presa di posizione. Solo alla fine del gennaio 1607, in un durissimo confronto con l'ambasciatore veneziano, il re mise in chiaro che avrebbe rifiutato ogni appoggio ai Veneziani che avevano sempre evitato di cercare un possibile accomodamento con Roma. In campo ecclesiastico, a parte l'incondizionato sostegno all'attività dei Gesuiti appena riammessi in Francia, il compito preminente del nunzio era quello di promuovere il riconoscimento del concilio di Trento. A Enrico IV era stato imposto nel 1593 l'obbligo di far pubblicare i decreti tridentini ed egli aveva solennemente promesso di procurare la loro accettazione in Francia. Barberini dovette ben presto rendersi conto che a far ciò non bastava la personale decisione di Enrico IV ed un suo corrispondente ordine formale: per acquistare valore legale in tutto il Regno, una ordinanza del re in questo senso sarebbe rimasta senza valore giuridico ed istituzionale in mancanza dell'approvazione e della registrazione da parte di tutti i Parlamenti francesi. A Roma s'era però sottovalutata la prevedibile opposizione dei Parlamenti di fronte a disposizioni che per loro costituivano una grave limitazione del tradizionale diritto di controllo anche sulla giurisdizione ecclesiastica. Pure rimasero deluse le speranze di Barberini di promuovere l'accettazione del concilio Tridentino - si trattava soprattutto dei decreti riguardanti la disciplina ecclesiastica, mentre questioni dogmatiche rimanevano assai marginali - in occasione dell'assemblea del clero francese che si riunì verso la fine del 1605; troppo forti risultarono, all'interno dell'assemblea, i conflitti d'interesse tra i vescovi ed i rappresentanti dei collegi capitolari. Alla fine, i ben ponderati interventi e le prudenti insistenze del nunzio rimasero senz'alcun risultato concreto, anche se i buoni rapporti tra la Corona e Roma ne avevano guadagnato. Data l'impossibilità di far accettare i decreti tridentini in toto, Barberini si vide costretto a rivolgersi caso per caso al re, quando si trattava di difendere i diritti della Chiesa, ed ai singoli vescovi, quando si trattava di promuovere la riforma ecclesiastica o di eliminare situazioni considerate scandalose. Le occasioni non mancarono, soprattutto nel campo della scelta e formazione del basso clero o delle nomine dei vescovi o anche in casi come quello del puntiglioso cardinale de Sourdis, arcivescovo di Bordeaux, che verso la fine del 1606 era stato condannato dal Parlamento della città perché aveva scomunicato un prete con motivazioni considerate insufficienti; ne seguì una lunga controversia che si protrasse per mesi anche davanti al tribunale del re. Barberini fece di tutto affinché venisse riparata l'offesa arrecata alla giurisdizione ecclesiastica; d'altra parte rimproverò apertamente l'azione troppo impulsiva del cardinale. In campo teologico, il nunzio intervenne, tra la fine del 1605 e l'inizio del 1606, nella controversia "de auxiliis" fra i Domenicani ed i Gesuiti; di fronte all'inestricabile questione della efficienza o sufficienza della grazia divina, Barberini consigliò al papa di non censurare le opinioni, ma di ammetterle tutte e due. L'11 settembre 1606, Paolo V promosse Barberini al cardinalato; poche settimane dopo, il 14 ottobre, a Fontainebleau Enrico IV pose il berretto rosso in testa al nuovo cardinale alla presenza della corte reale. Alla sua promozione alla porpora contribuì una serie di fattori, fra cui gli ottimi successi raggiunti nella sua carriera e la grande quantità di uffici e luoghi di Monte vacabili in suo possesso che, con l'ascesa al cardinalato, dovevano ricadere, a beneficio delle casse pontificie, Dataria e Camera apostolica; inoltre c'erano anche le sollecitazioni di Enrico IV che, all'inizio dell'anno, aveva progettato di chiedere a Paolo V, il quale aveva accettato di far da padrino al delfino in occasione del suo solenne battesimo, che Barberini fosse promosso al cardinalato per poter sostituire come legato il pontefice nel rito battesimale. In considerazione delle disposizioni pontificie che condannavano richieste di questo genere da parte dei sovrani, Barberini aveva fatto di tutto per sottrarsi a tale insolita proposta; infatti, al suo posto venne poi designato il cardinale de Joyeuse. Cardinale da quasi un anno, Barberini poté finalmente lasciare Parigi il 25 settembre 1607 e ritornare a Roma. Nei tre anni trascorsi in Francia, si era guadagnato alla Curia romana la stima dei "padroni" ed alla corte di Parigi la benevolenza di Enrico IV che, in una lettera del 18 settembre indirizzata a Paolo V, lodò i suoi "bons et vertueux deportemens" (Lettres de Henri IV, p. 128). Barberini portò con sé, oltre a cinquantacinque cofani e casse piene di mobili, arazzi, abiti, libri ed altri oggetti e a una quantità sorprendente di valori, parte in gioielli e preziosi, parte in monete d'oro e d'argento, anche uno splendido regalo fattogli dal re: una credenza di vasellame in argento dorato del peso di quasi 200 chili. Nel frattempo, aveva sostituito i tre tafani dello stemma dei Barberini con le più nobili api. Subito dopo il suo ritorno a Roma, il 30 ottobre 1607, Barberini ricevette il cappello cardinalizio; il 12 novembre gli fu assegnato il titolo di S. Pietro in Montorio che cambierà, il 5 maggio 1610, con quello di S. Onofrio. Non prese più residenza nella "casa grande" in via dei Giubbonari perché, nonostante ingrandimenti e ristrutturazioni (e questi ampliamenti, resi possibili con l'acquisto e l'incorporamento di case adiacenti, continueranno per i successivi quindici anni), il palazzo risultava sottodimensionato per le esigenze di un cardinale che, nel 1620, disponeva di una "famiglia" di quarantasei persone; e gli stretti vicoli di accesso non favorivano il passaggio delle carrozze. Preferiva perciò abitare altrove, quando si trovava a Roma, prendendo in affitto prima il palazzo Salviati in piazza del Collegio Romano, poi il palazzo Madruzzo in Borgo. Ancora nel 1607, gli fu affidata la protezione della Scozia, suo primo incarico cardinalizio. Subito dopo aver rassegnato l'arcivescovato di Nazaret, il 27 ottobre 1608 fu designato vescovo di Spoleto. La severità con cui Paolo V faceva rispettare l'obbligo di residenza costrinse Barberini a trasferirsi alla sede vescovile; però, lasciò Roma solo nel maggio 1610 in seguito alla sua nomina a prefetto della Segnatura di Giustizia, supremo tribunale della Curia romana, avvenuta l'8 gennaio. Ancora prima della partenza da Roma, Barberini aveva incaricato il suo vicario di inaugurare una visita pastorale della diocesi che iniziò il 6 ottobre 1609 con la città di Spoleto; dopo il trasferimento, egli visitò personalmente anche le regioni più impervie della diocesi. Attuando il programma delle riforme tridentine, s'adoperò per migliorare la condotta dei parroci e dei monaci e per disciplinare la vita e l'attività di predicatori e confessori; si prese cura del già esistente seminario vescovile di Spoleto, ne fondò due altri ed iniziò importanti restauri nel duomo romanico, il cui interno fece trasformare in stile barocco. Nel settembre 1615 indisse un sinodo diocesano le cui decisioni vennero pubblicate nel 1616. Il 31 agosto 1611, nel pieno delle attività pastorali a Spoleto, fu nominato legato di Bologna, secondo una decisione presa da Paolo V già due mesi prima. Il nuovo incarico assicurò a Barberini entrate supplementari attorno a 3.500 scudi annui, di cui circa 2.700 costituiti dalla provvisione di base e circa 700 dalla percentuale, goduta dal legato, sulle penalità imposte dal suo tribunale. Verso la fine di settembre, Barberini si trasferì a Bologna, passando per Firenze, per esercitare le facoltà quasi assolute concessegli sia "in temporalibus" sia "in spiritualibus". Assistito da suo cognato Lorenzo Magalotti che aveva scelto come vicelegato, fra l'altro realizzò una riforma monetaria, fece osservare con puntigliosità le regole tradizionali del cerimoniale, risolse controversie di confine con il Ducato di Modena e riuscì ad evitare che la guerra mossa nella primavera del 1614 dal duca di Savoia contro i Gonzaga di Mantova per il Marchesato del Monferrato avesse ripercussioni sulle terre della Legazione. Mentre i suoi interventi in campo amministrativo e politico sembra siano stati tanto efficienti quanto graditi sia a Bologna sia a Roma, meno fortunate risultarono, verso la fine del suo mandato, le sue decisioni in campo istituzionale e giuridico. In un primo contrasto, nato nel 1613, con i magistrati di Bologna sulle competenze del Tribunale della Grascia, il legato riuscì, in piena concordanza con gli interessi romani, ad imporre la propria autorità; nella primavera del 1614, però, il suo inflessibile ed anche discusso modo di procedere contro diversi membri dell'influente famiglia Pepoli, responsabili dell'assassinio del senatore Aurelio dall'Armi, sembra non sia stato approvato da Roma ed abbia perciò impedito un possibile prolungamento della legazione di Barberini oltre il solito triennio. Nel settembre 1614, egli tornò a Spoleto. Tre anni più tardi poté finalmente realizzare un progetto portato avanti sin dal 1612: il 17 luglio 1617 rassegnò la sua diocesi, facendosi assegnare dal suo successore Lorenzo Castrucci oltre a una pensione di 500 scudi anche un'abbazia che fruttava 1.500 scudi. Si trattava di un buon affare perché le entrate della mensa vescovile di Spoleto non superavano i 2.400 scudi e la rinuncia al vescovado rese possibile il suo ritorno alla Curia romana; infatti, si trasferì immediatamente a Roma dove, il 30 luglio, consacrò vescovo il suo successore. Negli anni seguenti, Barberini si dedicò ai suoi impegni curiali e, soprattutto, a quelli presso la Segnatura di Giustizia; inoltre, sin dal 1608, era membro della Congregazione della Fabbrica di S. Pietro, dove inizialmente s'era opposto al progetto di Carlo Maderno, sostenuto da Paolo V, di costruire la nuova basilica in forma di croce latina. Mancano notizie sull'eventuale appartenenza di Barberini, durante il pontificato di Paolo V, ad altre Congregazioni cardinalizie. Gregorio XV invece lo nominò successivamente membro non solo di diverse Congregazioni particolari (istituite nell'aprile e nel settembre 1621 su questioni giuridiche e fiscali in Francia e nel marzo 1623 sulle dispense necessarie per un matrimonio fra le case reali di Spagna e d'Inghilterra), ma il 14 gennaio 1622 lo inserì anche nella nuova Congregazione "de Propaganda Fide"; inoltre lo designò protettore del Collegio Greco e, il 9 gennaio 1623, gli conferì le competenze di camerario del Collegio cardinalizio. Verso il 1620, Barberini disponeva di ben oltre 7.000 scudi all'anno di sole entrate ecclesiastiche, di cui 3.500 provenivano da pensioni sui vescovadi di Cremona, Chieti, Arezzo e Spoleto, 2.000 da due abbazie commendatarie e circa 1.600 dal suo ufficio di prefetto della Segnatura di Giustizia. Non è, invece, quantificabile l'ammontare di una pensione sull'abbazia di St-Pierre de Clairac nella Guascogna, di cui beneficiò almeno sin dal maggio 1608; e niente si sa delle somme provenienti dal patrimonio familiare che gestiva insieme al fratello Carlo. Insieme i due spesero, nei soli anni 1621-1623, almeno 13.000 scudi per ulteriori ampliamenti del palazzo ai Giubbonari, che Maffeo donerà nel settembre 1623 a suo fratello. La cappella di famiglia che Barberini, sembra su proprio disegno, aveva fatto erigere, secondo lo stile "moderno" in marmi policromi, sin dal 1604 da Matteo Castelli nella chiesa di S. Andrea della Valle, allora ancora in corso di costruzione, fu consacrata l'8 dicembre 1616. Mentre la decorazione pittorica era stata affidata a Domenico Passignano, le sculture furono eseguite in parte da Cristoforo Stati (un busto dello zio Francesco nonché una Maria Maddalena), in parte da Pietro e Gian Lorenzo Bernini, che consegnò, fra il 1618 ed il 1620, i busti dei genitori di Barberini (più tardi sostituiti da semplici bassorilievi) e quattro cherubini. Con l'acquisto di queste opere si saldò il durevole rapporto di mecenatismo fra Barberini ed il giovane Bernini, iniziatosi nel 1617 con la commissione di un S. Sebastiano per la sua collezione d'arte in continua espansione, il cui primo acquisto era probabilmente costituito da un suo ritratto dipinto dal Caravaggio nel 1598. Nello stesso periodo, Barberini intensificò i rapporti, coltivati sin da giovane età, con gli ambienti della cultura affermata, diventando membro di diverse accademie di orientamento prevalentemente letterario: appena ventenne, era entrato nell'Accademia Fiorentina ed in seguito fece parte anche dell'Accademia degli Alterati di Firenze, degli Insensati di Perugia, degli Umoristi di Roma e dei Gelati di Bologna. Da ottimo allievo dei Gesuiti, già da giovane si era dilettato nel comporre epigrammi e poesie in italiano, ma soprattutto in latino ed anche in greco. Alcuni di questi "carmina", dedicati al suo "magister" Aurelio Orsi, poeta di corte dei Farnese, vennero pubblicati a Brescia nel 1595, altri nel 1606 a Perugia, mentre una raccolta maggiore di circa trenta poemi fu data alle stampe nel 1620 a Parigi su iniziativa di Nicolas-Claude Fabri de Peiresc. Fino al 1644, questi Poemata latini, commentati anche dal Campanella, vedranno quasi venti edizioni in Italia ed Oltralpe, di cui alcune illustrate dal Bernini e dal Rubens; il numero dei "carmina" raccolti nei Poemata continuò ad aumentare per arrivare, alla fine, ad oltre centocinquanta. Nella composizione delle sue poesie, Barberini seguì, per quanto riguardava la metrica e lo stile, il modello classico dei carmi di Pindaro e delle odi di Orazio e Catullo, e per quanto riguardava le tematiche proposte, soprattutto l'esempio di Gabriello Chiabrera che aveva cercato di dar espressione, con solennità classica in veste barocchizzante, al messaggio della fede e della morale cattolica. Nelle sue poesie latine, Barberini trattò temi sacri e vite di santi accanto a questioni morali, elogiando le virtù cristiane di figure eroiche ed illustrando i pregi di opere d'arte ed i meriti o le sofferenze di padroni e principi, di amici poeti e di parenti. I propri Poemata costituivano sempre l'oggetto prediletto dei suoi colloqui e soleva ascoltarli cantati a tavola da quando J.H. Kapsberger, nel 1624 (più tardi seguito da D. Mazzocchi), li aveva musicati per voce e continuo nello stile tradizionale, preferito da Barberini anche in musica. Il grande successo, però, i Poemata lo raggiunsero grazie alla sovrana posizione dell'autore e certamente non per un loro valore poetico intrinseco. La critica moderna più esplicita li giudica eleganti sì, ma "meri esercizi di bravura [...] di una banalità insopportabile" (G. Spini, p. 43). Meno stimate dei Poemata erano invece dallo stesso Barberini le Poesie toscane, anche perché non tutte ispirate a temi nobili, che raccoglievano circa settantacinque sonetti, inni sacri e odi italiane e furono pubblicate in quattro edizioni fra il 1635 ed il 1642. Sin dall'inizio della sua carriera curiale, aveva raccolto attorno a sé numerosi letterati e latinisti, aggregandoli prima alla sua "familia" prelatizia, poi cardinalizia e più tardi alla Corte pontificia. Questo "sodalizio barberiniano", a cui appartenevano letterati illustri come A. Querengo, G. Ciampoli, L. Azzolini, C. dal Pozzo e molti altri, s'incentivò dal 1617 in poi grazie anche a frequenti villeggiature trascorse in compagnia al lago di Albano, dove Barberini risiedeva in una villa; nel 1626-1629, questa villa sarà trasformata nel palazzo pontificio di Castel Gandolfo che, dal 1626 al 1638, sarà due volte all'anno la sua dimora preferita. La produzione letteraria di questo circolo, sostenuto dall'autorità del cardinale, poi papa Barberini, portò alla formazione e, per decenni, al predominio non solo a Roma di una poetica moderato-barocca che si distinse per la scelta di soggetti spiritualmente e moralmente eccelsi e per lo stile grave del linguaggio. Il trionfo di questo ben disciplinato ed austero barocco poetico sarà segnato nel 1627 dalla messa all'indice dell'Adone di G. Marino, il capolavoro di un contrastante barocco esuberante, considerato "sregolato" sia per le libertà poetiche sia per il gioioso ricorso alla mitologia pagana. Il 19 luglio 1623, undici giorni dopo la morte di Gregorio XV, iniziò il conclave per l'elezione del nuovo pontefice, secondo le regole appena sancite da papa Ludovisi. L'elezione si delineò difficile perché dei cinquantacinque cardinali che parteciparono al conclave, una quindicina erano stimati papabili. Le tre fazioni in concorrenza, numericamente quasi uguali, erano caratterizzate molto di più dai rapporti di clientela che le legavano alla casa Aldobrandini o Borghese o Ludovisi, che non da appartenenze politiche filofrancesi o filospagnole. Dopo diciassette giorni di inutili scrutini e di continue sostituzioni o riproposizioni di candidature e mentre diventava insopportabile l'afa estiva accompagnata da una febbre infettiva che si diffuse fra i conclavisti, si rese finalmente possibile un compromesso fra le fazioni Borghese e Ludovisi, grazie soprattutto alla mediazione dei cardinali Antonio Caetani, Maurizio di Savoia ed Odoardo Farnese; così la mattina del 6 agosto s'arrivò alla quasi unanime elezione di Barberini con cinquanta voti su cinquantaquattro. Il successo era facilitato dal fatto che Barberini, pur essendo elevato al cardinalato da Paolo V, non era considerato strettamente dipendente dalla fazione borghesiana, perché i decisivi avanzamenti nella sua carriera datavano al pontificato di Clemente VIII, e non aveva avversari fra i relativamente pochi cardinali di Gregorio XV. Alla sua elezione, Barberini assunse il nome di Urbano. Rimane incerto se si decise in memoria di Urbano II, il papa della prima crociata (in concomitanza con le proprie inclinazioni sacro-retoriche per una guerra santa contro gli eretici ed infedeli) o per esprimere la predilezione per l'"Urbs Romae". Immediatamente dopo il conclave, U. fu colpito, per molte settimane, dalla stessa malattia infettiva di cui, di lì a poco, morirono quasi quaranta dei conclavisti. Perciò la sua incoronazione avvenne solo il 29 settembre a S. Pietro, mentre la cerimonia della "possessio" si svolse il 4 novembre al Laterano. I contemporanei si trovarono d'accordo sulle grandi qualità del nuovo pontefice, ma anche su certi tratti del suo carattere che lo rendevano difficile ed imprevedibile. U. era un uomo di bella presenza, dotato di una ferrea salute, un appassionato di equitazione, un esperto nel mondo delle arti e delle lettere, tanto da suscitare molte speranze in una generale rifioritura della cultura e delle scienze. Si sapeva che il neoeletto era solito mantenere uno stile di vita tanto ordinato quanto modesto e moralmente superiore ad ogni sospetto. Da ottimo conoscitore sia del cerimoniale di Corte sia del rituale e della liturgia della Chiesa, egli osservò (e fece osservare a tutti) con rigore le regole e le forme tradizionali. Ma questa severità sembra non lo abbia reso immune dal subire l'influenza di credenze magiche presenti anche nella Chiesa postridentina e diffuse nella società romana. Mentre da una parte U. celebrò nel 1629, sotto la guida di Tommaso Campanella, in una stanza sigillata del Quirinale riti magico-astrologici per scongiurare influssi astrali nefasti, d'altra parte mise sotto processo poco dopo Orazio Morandi, abate di S. Prassede, che aveva pronosticato la sua imminente morte; e con una bolla del 4 gennaio ed una costituzione del 1° aprile 1631 "contra astrologos", proibì, sotto pena di morte, gli oroscopi e le pratiche di negromanzia, con l'aggravante dell'accusa di "lesa maestà" se rivolte alla vita del pontefice o dei suoi parenti. In conformità fece condannare, nell'aprile 1635, i sette corresponsabili della "congiura Centini" che avevano cercato per anni di farlo morire per mezzo di riti magici. U. era molto apprezzato per la sua conversazione arguta e spiritosa, anche se tendeva a diventare brusco ed inflessibile in materie che toccavano l'autorità sua personale e quella della giurisdizione ecclesiastica. Veniva considerato molto circospetto, ma anche lento nel prendere posizione in questioni gravi; una volta che aveva deciso, però, nessuno riusciva più a fargli cambiare idea per la sua "gran persuasione di se stesso" e perché "conosce haver pochi pari nell'intelligenza del governo" (Le relazioni della corte di Roma, I, p. 149). Inoltre, i suoi interlocutori e collaboratori temevano certe sue reazioni rabbiose e le sue escandescenze in caso di contrarietà e contro chiunque osasse esprimere un parere differente dal suo; questo atteggiamento peggiorò nel corso degli anni, tanto che, nel 1635, un ambasciatore veneziano doveva constatare: "Se poi si ritrova incollerito, come ben spesso accade [...] impossibile affatto riesce il negotiar seco, niente a proposito respondendo, agitandosi, levandosi di sedia con parole e fatti più di forsennato che di principe" (ibid., p. 368). U. era un assiduo lavoratore che sapeva ben organizzare le molte ore del giorno dedicate, con preferenza la mattina, alle udienze, alla partecipazione alle Congregazioni cardinalizie, allo studio degli atti e alle istruzioni da impartire. Alle riunioni del Sant'Uffizio che, una volta la settimana, si svolgevano in sua presenza, intervenne quasi sempre fino agli ultimi anni di pontificato, mentre alle sedute della Congregazione "de Propaganda Fide", previste una volta al mese "coram Sanctissimo", egli partecipò sempre più raramente dopo il 1628 e, dal 1637 in poi, neanche quattro volte all'anno. Una conferma di questa riduzione del contributo personale al disbrigo degli affari la danno gli interventi di sua mano nelle corrispondenze con nunzi e legati: abbastanza frequenti - più di trecento interventi su un totale di circa trecentosettanta - nei primi cinque anni del pontificato (concentrati, in modo significativo, sugli atti delle nunziature e legazioni in Francia e in Italia nel 1628-1630), essi divennero molto rari per sparire quasi del tutto dopo il 1631. Sembra che U., anche di fronte alla mole di lavoro, crescente proprio in questi anni, dopo il 1628 si sia limitato a farsi riferire, nel rapporto giornaliero, dal segretario di Stato sugli affari correnti ed a dare, a voce, i suoi ordini. I quattro segretari di Stato attivi sotto U. erano tutti scelti personalmente dal papa e non dal cardinal nepote Francesco che, cinque giorni dopo la sua promozione cardinalizia, era stato nominato, secondo lo schema tradizionale, "sovrintendente generale e speciale" con la concessione di vastissime facoltà, ancora allargate nel febbraio 1632; questa delega quasi illimitata lo rese almeno nominalmente, anche se non di fatto, un alter ego dello zio papa e responsabile sia per gli affari politici ed amministrativi all'interno della Stato pontificio, sia per la politica estera. La situazione di concorrenza con il segretario di Stato che si creò in capo alla più importante istituzione del governo pontificio indusse Francesco ad organizzare, nel 1632, una sua parallela segreteria "in proprio", utile solo per tener nascoste certe informazioni al segretario di Stato Ceva e per favorire gli interessi del fratello Taddeo e di casa Barberini. Dopo l'elezione, uno dei primi impegni di U. fu la preparazione dell'imminente Anno santo del 1625. A poca distanza vennero indette, nel marzo ed aprile 1624, prima una visita apostolica della diocesi di Roma (completata solo nel 1632), che doveva epurare le deficienze disciplinari, pastorali e materiali esistenti, poi l'Anno santo che portò a Roma quasi seicentomila pellegrini, desiderosi di acquisire le molteplici indulgenze plenarie per la prima volta offerte, ma soprattutto bisognosi di accoglienza, di approvvigionamenti di viveri e di assistenza ospedaliera in caso di malattie. U. di persona visitò più volte le chiese giubilari, spesso impartì la sua benedizione e confessò i penitenti a S. Pietro; fece ricostruire chiese antiche (il battistero lateranense, S. Sebastiano al Palatino e S. Bibiana, il primo lavoro in architettura del Bernini) ed ordinò ai cardinali che restaurassero le loro chiese titolari. L'Anno santo fu segnato anche da una impressionante militarizzazione di Roma ove si concentrarono truppe per un costo di oltre 200.000 scudi, si rafforzarono mura e porte della città - ufficialmente per la minaccia di peste -, si formò una grande armeria all'interno del Vaticano e si effettuarono estesi lavori di fortificazione sia nel Quirinale che in Castel S. Angelo. Come nel caso dei nove giubilei straordinari indetti da U. fra il 1628 ed il 1638, sempre in concomitanza di guerre o epidemie, anche nel 1625 esistevano pericoli di conflitto. In primo luogo, per l'intricata questione valtellinese, rimasta in sospeso alla morte di Gregorio XV. Per tutelare gli interessi anche religiosi della popolazione cattolica della Valtellina e per evitare, data l'importanza strategica della valle, lo scoppio di un conflitto militare fra Spagna e Francia, papa Ludovisi s'era offerto da garante di pace, acconsentendo che, nella primavera 1623, quasi tremila soldati pontifici prendessero in consegna dagli Spagnoli le fortezze dislocate lungo la valle; tale custodia avrebbe dovuto durare fino al raggiungimento di un accordo definitivo tra le parti. U. già da cardinale aveva messo in dubbio l'opportunità dell'impegno preso da Gregorio XV, sottolineando i rischi che un coinvolgimento militare della Sede apostolica comportava, anche a causa della debolezza delle truppe pontificie, al prestigio del papa e alla sua posizione di equidistanza tra le due Corone cattoliche. Le trattative portate avanti a Roma da U. con gli ambasciatori francese e spagnolo, dal novembre 1623 al settembre 1624, non portarono a risultati utili perché da parte spagnola si richiese la completa libertà di transito, attraverso la valle, per truppe da spostare fra l'Italia e la Germania o i Paesi Bassi; da parte francese, invece, si insistette, anche nell'interesse degli alleati olandesi, in guerra con la Spagna, su un più o meno assoluto divieto di transito. Un accordo di compromesso raggiunto, nel febbraio 1624, grazie alla mediazione di U., fu respinto da Parigi. In dicembre, su ordine di Luigi XIII, il marchese di Coeuvres avanzò nella Valtellina. Le guarnigioni pontificie, già ridotte per abbassarne i costi, non resistettero all'invasione; nel gennaio 1625 caddero anche le fortezze di Bormio e Chiavenna. Nonostante l'offesa subita, U. non volle allearsi con la Spagna e mantenne la posizione neutrale di un "padre comune" tra le due Corone, cercando per vie diplomatiche una soluzione pacifica. Il 25 febbraio 1625, egli decise di inviare suo nipote Francesco come cardinal legato "de latere" in Francia; questi, per oltre tre mesi, s'affaticò per far accettare dal cardinale Richelieu le richieste di U. che si possono riassumere in due punti essenziali: la salvaguardia della reputazione della Sede apostolica, lesa dall'offensiva francese, e la piena autonomia politico-amministrativa della Valtellina, che non avrebbe mai più dovuto ritornare sotto la sovranità dei Grigioni protestanti, perché i cattolici in nessun modo dovevano sottostare agli eretici. I Francesi, invece, rimasero fermi nel difendere la loro alleanza con i Grigioni e nel chiedere il controllo esclusivo dei passi alpini. Quando il legato, verso la metà di novembre, s'imbarcò a Tolone per tornare a Roma, portò con sé l'esperienza traumatica della sua impotenza diplomatica, che era un riflesso dell'impotenza politica dello stesso U.: il prevalere degli interessi politici particolari e contrastanti delle Corone cattoliche difficilmente si poteva conciliare con l'universalismo romano e con il ruolo di padre comune che il papa s'era ascritto. A metà marzo 1626, quando il legato sbarcò a Barcellona, gli Spagnoli ed i Francesi avevano già raggiunto, il 5 marzo a Monzón, un accordo senza la partecipazione di Roma. Il trattato, poi ratificato il 3 maggio, stabilì l'esclusivo esercizio del culto cattolico nella Valtellina; ed anche se era prevista la restituzione della valle ai Grigioni, i Valtellinesi conservarono una quasi totale autonomia in campo amministrativo e giuridico. Le fortificazioni dovevano essere riconsegnate alla Sede apostolica che ne avrebbe curato la distruzione. Nonostante l'esclusione della diplomazia pontificia dalle trattative, i cui risultati soddisfacevano solo parzialmente le rigide richieste politico-religiose di U., e benché il pontefice non avesse ricevuto alcuna riparazione per l'aggressione subita e per le ingenti spese sostenute (calcolate in più di 670.000 scudi), U. accettò senza protesta il trattato. All'inizio del 1627, i baluardi valtellinesi furono riconsegnati ai soldati pontifici e s'iniziò la loro demolizione; il 6 marzo, sia le truppe del papa sia quelle francesi lasciarono la valle. Le convenzioni in materia di religione, stabilite con molto pragmatismo fra le due Corone cattoliche, alla fine risultarono molto più efficaci delle massime canonico-politiche sostenute da Roma; esse rimasero in vigore anche in seguito ad altre tre occupazioni - imperiali, spagnole e francesi - della valle durante il suo pontificato. Una delle conseguenze che U. sembrò aver tratto dall'esperienza valtellinese, fu quella d'evitare con cura ogni futuro coinvolgimento materiale della Sede apostolica in conflitti tra le potenze cattoliche. I preparativi militari a Roma nel 1625 erano collegati anche a possibili complicazioni della devoluzione del Ducato di Urbino allo Stato pontificio. Benché l'ultimo duca, Francesco Maria della Rovere, rimasto senza eredi, avesse facilitato un futuro passaggio del Ducato allo Stato della Chiesa, che così avrebbe conquistato un territorio ricco di risorse e di porti su quel tratto d'Adriatico che univa la Marca alla Romagna, U. temeva eventuali contromisure anche militari, soprattutto da parte del granduca di Toscana. Il passaggio di proprietà si svolse, invece, senza problemi: nel 1625, l'anziano duca si ritirò a vita privata, sostituito da un governatore pontificio; dopo la morte del duca, avvenuta nell'aprile 1631, tutto il territorio fu integrato nello Stato della Chiesa. I primi due legati, preposti alla Legazione di Urbino ex novo costituita, erano i cardinal nepoti Antonio nel 1631, poi Francesco nel 1633. Nell'ex Ducato, U. fondò, nel 1636, una nuova diocesi, unendo Castel Durante, che ora prese il nome di Urbania, con la vicina città di S. Angelo in Vado. Quanto a Roma, il titolo onorifico di "prefetto" della città, prima spettante alla casa della Rovere, fu assegnato da U. al nipote Taddeo. In virtù di questo titolo, i Barberini pretesero per Taddeo la precedenza su tutti gli ambasciatori, causando interminabili difficoltà diplomatiche e protocollari e vari incidenti (i più gravi nel 1631, fra il prefetto e l'ambasciatore veneziano G. Pesaro e, nel 1638, con l'ambasciatore d'obbedienza imperiale). Un altro intervento di U. nel cerimoniale e nelle titolature, materia di estrema importanza a Roma in questo periodo, venne meglio accettato. Dopo oltre tre anni di discussioni nella Congregazione del Cerimoniale, il 10 giugno 1630 U. attribuì a tutti i cardinali il titolo di "Eminenza" per distinguere chiaramente i membri del Sacro Collegio da ogni altro gruppo gerarchico nella società e nella Chiesa. Solo i cardinali membri di case regnanti s'opposero per anni al decreto, chiedendo anche nel titolo cardinalizio un riconoscimento della loro superiorità principesca. Il periodo di distensione fra Francia e Spagna, seguito al trattato di Monzón e culminato nel progetto di una comune invasione dell'Inghilterra, che venne sostenuto insistentemente dalla diplomazia pontificia negli anni 1625-1626, trovò la sua brusca fine con l'inizio del conflitto per la successione nel Ducato di Mantova e nel Marchesato di Monferrato. Dopo la morte dell'ultimo duca di casa Gonzaga, da sempre alleata con gli Asburgo, la Spagna voleva impedire ad ogni costo l'insediamento del più legittimo erede, il duca di Nevers e pari di Francia. Già prima del conflitto militare che si delineava, U. era deciso sulla linea politica da seguire: usare tutti i mezzi a sua disposizione per ostacolare un ulteriore accrescimento del potere spagnolo in Italia, che minacciava, secondo il suo parere, di ridurre in servitù lo Stato della Chiesa e la Chiesa stessa; e nello stesso modo avrebbe contrastato anche la Francia se i Francesi avessero goduto in Italia di un predominio simile a quello che la casa d'Austria già possedeva. Probabilmente, ad una tale presa di posizione contribuirono anche i continui e, in questo momento specialmente, duri conflitti giurisdizionali di Roma con la Spagna e con Napoli. Rimane poco trasparente la tanto intensa quanto intricata attività svolta dalla diplomazia pontificia durante e dopo la guerra di Mantova e del Monferrato che scoppiò alla fine del 1627. Nella ricerca di accomodamenti ed armistizi fra le potenze belligeranti - l'imperatore, i re di Spagna e di Francia, il duca di Savoia ed il duca di Nevers-Gonzaga nonché Venezia - erano coinvolte quasi tutte le Nunziature; in più, nel novembre 1629 U. nominò suo nipote Antonio cardinal legato per la pace, con a fianco un nunzio straordinario e, per missioni speciali, anche il giovane Giulio Mazzarino. L'incessante lavoro dei rappresentanti diplomatici di U. non riuscì a rendere meno cruenta la guerra che si protrasse fino al 1631 e che trovò, nel luglio 1630, il suo culmine nella conquista e nel saccheggio di Mantova da parte di un esercito imperiale, chiamato in aiuto dagli Spagnoli. Da parte pontificia, il nunzio parigino favorì un primo intervento militare francese in Italia all'inizio del 1629 e promosse le trattative per una segreta alleanza difensiva tra Francia e Baviera che doveva indebolire il potere dell'imperatore Ferdinando II. U. facilitò un secondo intervento francese più decisivo all'inizio del 1630, non ostacolando minimamente, nonostante le insoddisfacenti condizioni in materia religiosa, i trattati di pace conclusi con gli ugonotti e con l'Inghilterra nell'aprile e giugno 1629; non protestò, nell'autunno 1629, contro le trattative in corso che dovevano garantire alle Provincie Unite nuovi aiuti francesi contro la Spagna e finse, in malafede, di ignorare l'alleanza offensiva conclusa, nel gennaio 1631, tra Francia e Svezia contro l'imperatore. Tutto indica che almeno negli anni 1628-1633 esistesse tra Roma e Parigi una intesa politica che inevitabilmente si opponeva agli interessi della pur cattolicissima casa d'Asburgo e che contrastava con il teorema dell'assoluta imparzialità pontificia, sostenuta da Urbano VIII. L'esito della guerra premiò gli obiettivi sia di Richelieu che di U.: la pace di Cherasco, firmata nell'aprile 1631 e limitata al solo conflitto italiano, assicurò al Nevers l'investitura imperiale di Mantova e, grazie ad accordi segreti, la Francia s'impadronì, con Pinerolo, di una porta d'accesso in Italia. La guerra non aveva toccato il territorio pontificio e lo Stato della Chiesa non aveva subìto la temuta invasione da parte dell'armata imperiale - temuta a Roma in ricordo del 1527. Intanto tale paura, totalmente infondata, aveva fatto spendere a U. la somma enorme di oltre 3 milioni e mezzo di scudi per armamenti (ancora nell'estate 1631 teneva sotto le armi quindicimila uomini) e per fortificazioni lungo il confine lombardo, dove fece costruire il Forte Urbano, e nella stessa Roma, mentre i costi delle mediazioni diplomatiche ammontarono a 100-200.000 scudi. La terribile peste degli anni 1629-1632 che, in conseguenza della guerra, colpì tutta l'Italia settentrionale, toccò solo marginalmente lo Stato pontificio grazie a rigorose misure di quarantena ed alla continua sorveglianza dei confini esterni ed interni. Della guerra dei Trent'anni, in corso al di là delle Alpi, U. s'occupò sino al 1632 soprattutto per quanto riguardava gli aspetti religiosi, controllando la ricattolicizzazione dei vasti territori riconquistati, negli anni Venti, dalle armate dell'imperatore e della Lega cattolica: da Roma si vigilava che, nella redistribuzione dei beni, delle istituzioni e dei diritti della Chiesa recuperati, si osservassero le norme canoniche, pur privilegiando, a detrimento dei vecchi Ordini religiosi, i più attivi Ordini nuovi come i Gesuiti ed i Cappuccini; inoltre si inviavano dei missionari e si sorvegliavano la disciplina ecclesiastica e l'osservanza delle norme tridentine. Ma a differenza dei suoi predecessori, U. s'era rifiutato di aiutare finanziariamente i principi cattolici in Germania, asserendo la totale mancanza di fondi. Solo all'inizio del 1632, quando l'avanzata delle armate di Gustavo Adolfo e dei suoi alleati tedeschi aveva ormai travolto quasi tutta la Germania e Praga stava per cadere in mano dell'esercito sassone, mentre gli Svedesi stavano per occupare la Renania e la Baviera, per la prima volta U. (che dava la colpa della disfatta delle truppe imperiali, quasi fosse una punizione divina, all'intervento militare di Ferdinando II in Italia) concesse sussidi all'imperatore ed alla Lega cattolica. La somma complessiva di questi sussidi, assegnati a intervalli irregolari fino all'estate 1634, ammontava a poco più di 477.000 scudi; i pagamenti venivano finanziati attraverso decime imposte al clero italiano e perciò non si trattava di donativi del papa. Nel Concistoro dell'8 marzo 1632 il cardinale Borja, facendosi portavoce del partito spagnolo nel Sacro Collegio, accusò U. di essere corresponsabile, per la sua indifferenza, della rovina del cattolicesimo in Germania. A questa protesta che, sotto certi aspetti, assomigliava a una congiura, U. reagì adottando misure disciplinari per allontanare da Roma i cardinali coinvolti, producendo false scritture che dovevano dimostrare l'infondatezza delle accuse rivoltegli e elaborando grandi gesti politici. Il 1° maggio 1632 nominò tre nunzi straordinari che dovevano promuovere alle corti di Madrid, Vienna e Parigi la composizione dei contrasti fra le Corone cattoliche ed unirle in una guerra comune contro gli Svedesi eretici. Sotto un tale segno, però, ogni mediazione pontificia era condannata a priori al fallimento, perché non teneva conto delle alleanze della Francia con taluni Stati protestanti. U. continuò a respingere ogni invito rivoltogli ad entrare in leghe politiche o militari e, nel 1634-1635, insistette invano per la convocazione di un congresso di pace a Roma o in un altro luogo neutrale; ma lentamente si stava dissimulando o persino ammettendo la possibilità che parallelamente, in un convegno subordinato, si svolgessero trattative separate fra cattolici e protestanti. Contro i risultati di queste, però, i nunzi avrebbero dovuto opporsi con forza, se avessero leso i diritti della Chiesa o comportato la perdita di beni ecclesiastici. L'aperta entrata in guerra della Francia, nel maggio 1635, rese ancora più difficile ogni mediazione pontificia. Dalla legazione del cardinale Marzio Ginetti nell'estate 1636, il quale per quattro anni attese invano a Colonia che si aprisse un pur concordato convegno di pace, fino alla missione, nel maggio 1639, di altri tre nunzi straordinari ed alle istruzioni impartite, nell'aprile 1644, a Fabio Chigi, nominato rappresentante pontificio alle trattative finalmente cominciate a Münster fra l'imperatore e la Francia, valsero le stesse invalicabili limitazioni per gli incessanti ed anche dispendiosi tentativi di mediazione della diplomazia pontificia: nessun coinvolgimento del pontefice, nelle negoziazioni in atto o nel futuro contratto di pace, in qualità di arbitro, garante o depositario; assoluta neutralità ed imparzialità da parte dei nunzi o legati, che dovevano astenersi da qualsiasi presa di posizione o propria iniziativa. In questo modo, però, la mediazione pontificia si riduceva a un rituale ripetitivo che poteva approdare solo a risultati formali più o meno marginali, mentre nel frattempo anche i rapporti con la Francia si erano deteriorati fino al punto da far temere, negli anni 1639-1640, una rottura delle relazioni diplomatiche. Le azioni belliche mantennero, per il resto del pontificato di U., il sopravvento sulle sue dichiarazioni ed intenzioni di pacificazione. Per pura coincidenza, al momento della protesta del cardinale Borja iniziò alla Curia romana un'altra crisi che segnò il pontificato di Urbano VIII.
Nel marzo 1632 giunsero a Roma le prime copie del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei che un anno dopo (22 giugno 1633) il Sant'Uffizio mise all'Indice, mentre l'autore fu condannato per grave sospetto di eresia. Rimangono incerte le ragioni che indussero U., nel luglio-settembre 1632, a far sequestrare tutte le copie rintracciabili del Dialogo, a sottoporre ad un rigoroso riesame l'opera (alla cui stampa le autorità ecclesiastiche avevano pur dato il permesso) e, in seguito, a mandare Galileo davanti al Tribunale dell'Inquisizione per un processo le cui motivazioni - come anche certi procedimenti nel suo corso - erano di tipo extragiudiziale. Maffeo Barberini da cardinale era stato un ammiratore di Galileo sin dai primi incontri nel 1611 a Roma ed a Firenze. Negli anni seguenti, fra di loro s'era stabilito un contatto per corrispondenza e quando Galileo fu coinvolto, nel 1615-1616, nel procedimento promosso dalla Congregazione dell'Indice contro il copernicanesimo, Barberini cercò di proteggerlo; nel contesto della condanna, la quale dichiarò stolta e formalmente eretica la teoria della mobilità della terra perché contraria alle Sacre Scritture, a Galileo si intimò d'abbandonare la dottrina eliocentrica. Poco dopo, nel 1620, il cardinale scrisse e pubblicò in onore dello scienziato una poesia elogiativa delle sue scoperte astronomiche; e questi fece dedicare, nel 1623, il suo Saggiatore al neoeletto pontefice che provava gran gusto nel leggere le arguzie e le invettive toscane contenute nel polemico trattato. Nella primavera 1624, infine, U. ricevette Galileo ben sei volte in udienza; sembra che questi incontri abbiano incoraggiato lo scienziato a scrivere un'opera da tempo progettata che doveva mettere a raffronto, pur rispettando le prescrizioni ecclesiastiche e procedendo per pura e semplice ipotesi matematica, il sistema tolemaico-aristotelico e la teoria copernicana. Nel maggio 1631 Galileo, con il consenso del papa, consegnò il manoscritto ai censori romani che - dopo aver obbligato l'autore ad inserire un passo, proposto già anni prima da U., sull'onnipotenza divina, superiore a tutte le leggi apparenti della natura e dell'universo - diedero nel luglio 1631 la licenza per la stampa. La dura reazione di U. alla pubblicazione del Dialogo si può spiegare in diversi modi: o il papa giudicava lesa la sua autorità da certe impostazioni del testo, o si era lasciato convincere che l'opera intendesse solo propugnare la validità della condannata dottrina eliocentrica, o si dovette accorgere - grazie anche a un documento non autentico o almeno giuridicamente non valido, che si era trovato negli atti del 1616 - che a Galileo era stato assolutamente vietato di occuparsi in qualsiasi modo delle teorie copernicane. In ogni caso, la condanna di Galileo - promossa dallo stesso U. che, da cardinale, si era ancora dimostrato probabilista - esautorò la "nuova scienza" galileiana e convalidò ulteriormente la corrente rigorosamente tradizionalista da tempo dominante nella Chiesa cattolica postridentina in campo teologico e filosofico. Non mancano casi analoghi in cui U., dopo aver inizialmente sostenuto o almeno tollerato iniziative innovatrici all'interno della Chiesa, in seguito all'intervento dei canonisti e delle rispettive Congregazioni si sia deciso a stroncarle. Uno dei tanti esempi, e forse il più eclatante, fu, nel 1631, la definitiva sospensione degli istituti delle "Gesuitesse", diffusi in Italia e Oltralpe, che a somiglianza dell'Ordine dei Gesuiti, miravano a una grande libertà d'azione missionaria ed educativa (nessun obbligo di clausura!), sostenuta da una forte struttura organizzativa. Per la bolla di soppressione questo tentativo innovatore, nonostante i suoi accertati successi, costituiva un grave errore ed un pericolo per la Chiesa. Ad una persecuzione ed umiliazione altrettanto ingiustificate venne esposto dal Sant'Uffizio, nel 1642, l'anziano Giuseppe da Calasanzio, fondatore degli Scolopi, impegnati nell'educazione ed istruzione dei poveri. Le "novità" riformatrici introdotte da U. nella vita ecclesiastica sono da inserire in un processo di "disciplinamento" in atto da decenni, segnato dall'irrigidimento e dall'estensione di norme già in vigore nonché dal rafforzamento del potere centrale pontificio. Questo vale per il risalto dato più volte all'obbligo di residenza (1623-1626, 1634 e 1636, con l'istituzione di un'apposita Congregazione "super residentia Episcoporum"), per la revisione e l'uniformazione delle facoltà da concedere a nunzi e missionari (1632-1637, con la creazione, in seno a Propaganda Fide, di una Congregazione particolare "super facultatibus missionariorum") e per la riforma del breviario e del martirologio romano (1629-1631); fece parte di quest'ultima riforma pure la revisione degli antichi inni del breviario che subirono quasi mille correzioni per adeguarli allo stile ed alla metrica classici (il risultato definitivo fu imposto alla Chiesa universale nell'aprile 1643). Seguì l'approvazione di una riforma del messale (1634) nonché del pontificale (1643). Con una serie di decreti emanati dalle Congregazioni dell'Indice e dei Riti dal 1624 al 1634, U. vietò ogni forma di venerazione di servi di Dio non riconosciuti tali da Roma e stabilì le procedure da seguire nei ben distinti processi di beatificazione e di canonizzazione, riservati ora alla sola Sede apostolica e limitati a persone morte in odore di santità da almeno cinquanta anni. In conformità alle rigorose disposizioni, U. creò solo due nuovi santi - la regina Elisabetta di Portogallo nel 1625 e il carmelitano Andrea Corsini nel 1629 -, mentre procedette a numerose beatificazioni (trentotto in tutto, fra cui ventisei missionari, martiri in Giappone). Con una bolla del 22 dicembre 1642, eliminò dal calendario della Chiesa tre feste di precetto e dodici feste di devozione, riducendo così le feste di precetto, a parte le domeniche, a ventisette. Infine, in campo teologico, U. lasciò ai suoi successori una difficile eredità in conseguenza della condanna, con la bolla In eminenti del marzo 1642 (ma promulgata solo nel giugno 1643 e confermata un anno dopo), dell'Augustinus di Cornelius Jansenius; la condanna si basava su diversi decreti dei papi precedenti, riformulati da U. già negli anni 1625 e 1641, che vietavano qualsiasi pubblicazione la quale trattasse, senza esplicito permesso dell'Inquisizione, la tematica della grazia divina. Sotto U. la Congregazione "de Propaganda Fide" divenne un centro di potere, sia per la vastità di giurisdizione di cui la rivestì, sia per la mole degli affari svolti dal segretario Francesco Ingoli. Nel novembre 1633 la Congregazione stabilì la sua sede in un palazzo situato nella odierna piazza di Spagna, in cui venne sistemata anche una tipografia poliglotta. Nello stesso edificio U. eresse, nell'agosto 1627, il pontificio Collegio Urbano per la formazione di ecclesiastici secolari provenienti dalle terre di missione e destinati a tornarci. Grazie a donazioni di suo fratello, il cardinale Antonio, che finanziò anche la costruzione, all'interno di quel fabbricato, di una chiesa, progettata dal Bernini, nel 1637-1639 il Collegio - affidato nel 1641 alla direzione dei Teatini - poté ospitare fino a trentacinque alunni. La grande maggioranza dei futuri missionari venne, però, formata o nei molti collegi nazionali esistenti da tempo a Roma ed altrove nell'Europa cattolica (in buona parte sovvenzionati dalla Congregazione) o negli istituti degli Ordini religiosi. Le molte difficoltà che l'opera di incentivazione e di controllo, svolta dalla Congregazione "de Propaganda Fide", incontrò durante il pontificato di U. si possono riassumere in cinque categorie. In primo luogo, i patronati spagnolo e portoghese che ostacolavano - nonostante le ventuno costituzioni emanate da U. al riguardo (così, nel 1634, respinse esplicitamente ogni competenza spirituale connessa al preteso "vicariato reale" della Corona spagnola) ed i tentativi di nominare vicari apostolici dipendenti direttamente da Roma - gli interventi giuridici e missionari della Congregazione in America Latina ed in buona parte dell'Asia. Dopo la separazione del Portogallo dalla Spagna, nel 1640, U. cercò di contrastare il diritto di patronato, accettandolo solo per i paesi effettivamente colonizzati dalle Corone cattoliche e favorendo sempre di più l'impegno di missionari francesi, soprattutto dei Cappuccini, sia in Africa sia in America settentrionale. In secondo luogo, l'ineluttabile influenza che subirono le attività missionarie per i conflitti politico-militari in Europa, anche a causa dei legami esistenti fra i vari Ordini religiosi e le diverse Corone cattoliche in lotta; inoltre l'espansione coloniale degli Olandesi, dopo il 1636, escluse ogni intervento missionario della Congregazione nei territori asiatici una volta sotto il controllo portoghese. In terzo luogo, i continui ed anche devastanti conflitti e rivalità dei diversi Ordini religiosi fra loro e con il clero secolare. La situazione peggiorò ancora dopo l'ammissione, nel 1630-1633, di tutti gli Ordini alle iniziative missionarie in Estremo Oriente, dove fino allora i Gesuiti avevano goduto l'esclusiva; nacque così, nel 1641, per denunce dei Domenicani e dei Francescani, il grande contrasto teologico-pastorale sui riti praticati dai Gesuiti in adeguamento alla cultura cinese. In quarto luogo, la mancanza di un clero indigeno nelle Americhe, in Africa ed in Asia. L'insegnamento delle lingue nei collegi, richiesto dalla Congregazione, non bastava a preparare i missionari all'incontro con le etnie e le culture extraeuropee. In più, l'esiguo numero o la totale assenza di vescovi rendeva molto difficile un'attività completa e duratura in vastissime zone. I grandi successi, raggiunti proprio sotto U., nei paesi europei dove esisteva ancora o dove era sopravvissuto ad un decennale dominio protestante un minimo di strutture ecclesiali cattoliche - come in Dalmazia, Ungheria, Boemia, Moravia o Irlanda -, confermarono la decisiva importanza di una efficiente gerarchia ecclesiastica in loco. In quinto luogo, nell'Europa orientale, nei Balcani e dalla Grecia fino al Vicino Oriente, le somiglianze nel rituale e nella liturgia delle Chiese ortodosse con le Chiese orientali unite con Roma (ruteni, serbi, rumeni, melchiti, maroniti ecc.) crearono continui dubbi in campo teologico e fecero intervenire il Sant'Uffizio nelle decisioni della Congregazione "de Propaganda Fide"; per il caso di conversione di sacerdoti, vescovi o metropoliti ortodossi alla fede cattolica, U. formulò una speciale "professio fidei", che poi prese il suo nome. U. riformò, fino al 1642, molte Congregazioni cardinalizie e ne istituì sei nuove: nel 1624, in preparazione dell'Anno santo e con competenze limitate alla sola diocesi di Roma, fondò una speciale Congregazione della Visita apostolica; nel 1627 la Congregazione dei Confini per la salvaguardia dell'integrità territoriale (ed anche sanitaria) dello Stato della Chiesa e per la soluzione di controversie sui limiti territoriali delle diverse giurisdizioni all'interno dello Stato; nel novembre 1630, in occasione del dilagare della peste, la Congregazione di Sanità; nel maggio 1636, la Congregazione della Residenza dei vescovi ed all'inizio del 1641 la Congregazione di Portogallo, istituita ad hoc in occasione del distacco di questo reame dalla Corona di Spagna. Particolare importanza acquistò, per le ripercussioni delle sue decisioni in campo politico-diplomatico, la Congregazione dell'Immunità ecclesiastica, fondata nel 1626 ed in origine denominata in modo più appropriato "Congregatio controversiarium iurisdictionalium"; nelle sue vaste competenze entravano le controversie giurisdizionali precedenti o inerenti ai gravi conflitti che opposero la Sede apostolica a Venezia dal 1627 al 1638, al Viceregno della Sicilia dal 1629 in poi per la questione della Monarchia Sicula, alle Fiandre spagnole dal 1636 al 1642, al Portogallo dal 1636 al 1643 (con l'interdetto di Lisbona dall'agosto 1639 sino alla fine del 1640), alla Spagna (1638-1642) ed alla Repubblica di Lucca, che U. colpì con l'interdetto dal 2 aprile 1640 sino al 31 marzo 1643. U. creò settantaquattro cardinali (altri quattro, "reservati in pectore", erano prematuramente morti) in otto promozioni che, nel primo decennio del pontificato, si susseguirono a breve distanza, mentre dal 1633 ci fu un intervallo di otto anni, tanto che alla fine del 1641, prima della penultima creazione, vacarono ben ventisei posti nel Collegio cardinalizio. In deroga a tutte le contrastanti disposizioni in vigore, U. elevò al cardinalato tre suoi consanguinei: suo fratello Antonio, frate cappuccino (1624), ed i nipoti Francesco (1623) ed Antonio (1627-1628). Almeno altre otto delle "creature" di U. erano suoi parenti: Lorenzo Magalotti (1624), cognato di suo fratello Carlo; e la parentela Magalotti-Macchiavelli (la sorella di Lorenzo aveva sposato un Macchiavelli) aiutò sia Gregorio Nari (1629) sia Francesco Maria Macchiavelli (1641) a raggiungere il cardinalato. Nel 1627, il nipote Taddeo Barberini sposò Anna Colonna; grazie a questa unione Barberini-Colonna, erano parenti più o meno stretti di U. i cardinali Girolamo Colonna, fratello di Anna (1627-1628), Alessandro Cesarini (1627), Antonio Santacroce e Giovanni Francesco Guidi di Bagno (1629), nonché Rinaldo d'Este (1641). Nella crescente crisi finanziaria, che segnò gli ultimi anni del pontificato, aumentarono ancora di più le numerose elevazioni al cardinalato di prelati di Camera (venticinque in tutto), il che dava la possibilità di rivendere i loro uffici vacabili: così, nelle ultime due creazioni del 1641 e 1643 di complessivamente ventinove cardinali, la nomina di otto dirigenti della Camera apostolica portò nelle casse pontificie oltre mezzo milione di scudi; nelle stesse due promozioni, ben quattro dei nuovi cardinali erano genovesi - e dalle banche genovesi dipendeva ormai la sopravvivenza economica della Sede apostolica. Se U. aveva pensato di assicurare, attraverso le nomine cardinalizie, alla sua casa una stabile maggioranza clientelare in seno al Sacro Collegio, tali intenzioni vennero disastrosamente deluse dall'esito degli scrutini nel conclave dell'estate 1644: a questo conclave parteciparono in tutto cinquantasei cardinali, di cui quasi cinquanta erano "creature" del defunto U., ma solo una esigua minoranza di cinque cardinali votò in favore di Giulio Sacchetti, il candidato della fazione barberiniana. Ovviamente le cause della defezione di tanti cardinali non sono da cercare solo nei disastri politico-militari e finanziari che contrassegnarono l'ultimo periodo del pontificato; è da presumere, invece, che nel Sacro Collegio fosse vivo un diffuso rancore contro i Barberini, perché il decennale, sconfinato nepotismo di U. (il termine stesso compare per la prima volta proprio nel suo pontificato, anche se il fenomeno esisteva da secoli) aveva danneggiato gli interessi personali di molti cardinali che erano rimasti esclusi dalle tradizionali fonti ecclesiastiche di ricchezza o di sostentamento, affluite in dismisura ai consanguinei del pontefice. Mancano studi complessivi sulle dimensioni effettive che raggiunse il sistema nepotistico sotto U.; calcoli globali non inattendibili arrivano, intanto, a circa 30 milioni di scudi concessi, in valori capitali o in rendite, da U. ai suoi parenti, di cui sembra avessero fatto parte anche semplici "escamerazioni", cioè diretti pagamenti della Camera apostolica, di almeno 1,7 milioni di scudi, accertati dai suoi successori. Disponiamo di relativamente poche indicazioni quantitative che possano dare un'impressione, anche se frammentaria, delle entrate della Chiesa e dello Stato assegnate, con tutte le regole, dal papa ai tre cardinali Barberini ed al nipote Taddeo, il prefetto di Roma, in forma di cariche, onorificenze redditizie, uffici venali, luoghi di Monte o delle somme liquide, delle sovvenzioni e degli oggetti preziosi che permisero ai tre fratelli di finanziare, tra l'altro, la costruzione del prestigioso palazzo Barberini alle Quattro Fontane, iniziata nel 1628. Per casa Barberini, U. costituì, con tre brevi degli anni 1627 e 1632, una primogenitura in forma di maggiorasco che assicurava la legittima successione anche di un discendente nato da un rapporto incestuoso, "etiam ex presbyteris et coniugatis". Dopo la morte di Ludovico Ludovisi, avvenuta nel novembre 1632, U. ridistribuì l'eredità ecclesiastica del cardinal nepote del suo predecessore: concesse quasi due terzi delle molte cariche e ricche prebende ai tre parenti cardinali che in quest'occasione s'assicurarono di un colpo entrate complementari di ben 58.500 scudi all'anno. Al solo nipote Antonio - nominato cardinale nel febbraio 1628 ed arciprete di S. Maria Maggiore nell'ottobre 1629, anche se ricevette gli ordini maggiori solo nel 1633 - toccarono quasi 22.000 scudi di entrate, mentre godeva già di almeno 8.500 scudi di pensioni ecclesiastiche e delle rendite (non quantificabili) di nove abbazie commendatarie che arrivarono, fino al 1643, al numero complessivo di diciotto, a cui s'aggiunsero sei precettorie nonché tre priorati e prepositure in commenda; con i proventi degli uffici venali in suo possesso e delle molte cariche curiali assegnategli (fra l'altro era prefetto della Segnatura di Giustizia dal 1628 e camerlengo della Chiesa dal 1638 nonché tre volte legato pontificio, membro di almeno otto Congregazioni cardinalizie e protettore non solo, con grandi ripercussioni politiche, della Francia dal 1636, ma anche di numerosi Ordini religiosi, monasteri, collegi e Confraternite), Antonio certamente arrivò alle asserite rendite annuali di oltre 100.000 scudi. Ancora meglio dotato era il nipote Taddeo che nel 1631 disponeva di entrate complessive di oltre 143.000 scudi, di cui circa 34.000 (nel 1644 ammonteranno a 10.500 scudi in più) provenivano dalle cariche camerali affidategli nominalmente, secondo l'inveterata tradizione curiale, ma anche da stanziamenti della Tesoreria segreta, sia in contanti sia in forma di viveri o foraggi, mentre a circa 27.500 ammontavano gli interessi di luoghi di Monte, di uffici venali e di cavalierati in suo possesso ed a circa 82.500 le rendite delle sue proprietà terriere. Sono poco esplorate le singole tappe che Taddeo percorse, comprando e vendendo terreni e feudi, nel tentativo di raggiungere anche in qualità di proprietario terriero i livelli della grande aristocrazia romana; e meno ancora si conoscono gli aiuti finanziari che il papa diede a suo nipote per sostenere gli acquisti di feudi sparsi per il Lazio a sud, ad est ed a nord-est di Roma. Certo è invece che nel 1632 U. fece erigere dalla Camera apostolica un Monte baronale "Barberini" del capitale di mezzo milione di scudi in favore di Taddeo per rendergli più facile la gestione dei suoi debiti e per fornirgli la liquidità necessaria per ulteriori acquisti; e certo è pure che, prima del 1640, U. spese 595.000 scudi "per comprare giurisdizioni e beni ai familiari ed accrescere la successione" (A. Menniti Ippolito, Il tramonto della Curia nepotista, p. 77) - il che era l'essenza stessa del nepotismo pontificio. Alla fine Taddeo possedeva oltre quindici feudi, fra i quali soprattutto Palestrina (che gli assicurava il titolo di principe e per cui suo padre aveva dovuto sborsare, nel 1630, ben 575.000 scudi ai Colonna), Valmontone e Montelanico, comprato dagli Sforza per 427.500 scudi nel 1634; nel 1644, quando con la crescente infermità del papa s'avvicinava sempre di più il momento in cui Taddeo avrebbe perso tutte le sue rimunerative cariche governative, egli fece un ultimo, ingente investimento in beni fondiari: per un milione e mezzo di scudi s'impegnò con gli Orsini di Sangemini nell'acquisto del cosiddetto Stato di Montelibretti (con i feudi di Monterotondo, Monteflavio, Montemaggiore, Nerola, Ponticelli ecc.) a sud di Farfa. Sembra, però, che questa volta l'affare sia andato a finir male, anche o soprattutto per la morte dello zio papa, che fino all'ultimo aveva cercato di privilegiare in tutti i modi ed anche nei minimi dettagli gli interessi di Taddeo; tanto che, con un "motu proprio" del 16 agosto 1641, assegnò in perpetuo al nipote le teste di tutti i pesci sopra un metro di lunghezza (molto apprezzate durante la Quaresima e nei giorni di astinenza), pescati nelle acque e nei litorali di suo dominio, che prima erano spettate ai conservatori dell'Urbe. Non si conoscono bene le ragioni che spinsero U. a convocare, fra l'autunno del 1638 ed il 1643, alcune commissioni di giuristi e teologi che dovevano esprimersi sulla liceità canonica della libera disponibilità personale da parte del papa delle entrate pontificie, anche e soprattutto in favore dei propri parenti: la reiterata decisione era causata da scrupoli di coscienza, emersi nel corso di gravi malattie, o dalla volontà di far convalidare la somma potestà pontificia pure in campo finanziario o si trattava di una reazione difensiva al sommerso, ma diffuso malcontento con le sempre più evidenti manifestazioni e conseguenze dell'eccessivo nepotismo? Nelle loro ampie prese di posizione, gli esperti curiali si sforzarono inutilmente di distinguere fra le ormai in buona parte indistinguibili entrate "temporali" e quelle "spirituali" che confluivano nelle casse pontificie; il problema loro sottoposto era difficile da affrontare anche perché le secolari norme del diritto canonico in questa materia, centrate sulla condanna della simonia, non erano più adeguate a misurare o a giudicare la realtà istituzionale e finanziaria del sistema attuale di governo pontificio e la quotidiana prassi nepotistica. I pareri pronunciati dai consultori - i quali nel corso del prolungato dibattito, che alla morte di U. ancora non era arrivato a una definitiva conclusione, diventarono sempre più restrittivi - in linea di massima non stabilirono limiti né morali né materiali che potessero consigliare e tanto meno imporre a U. un qualsiasi ripensamento o mutamento. Nel carattere sostanzialmente affermativo delle relazioni delle diverse commissioni si rispecchiava in pieno la "fondamentale motivazione giustificazionista" per i consulti: "gli interpellati dovevano legittimare la prassi e solo autorizzarne l'attuazione" (ibid., p. 75), precisamente come era successo anche nel caso di altri pareri legali, chiesti da U. in diverse occasioni ai suoi giuristi curiali. Ai nipoti Barberini, però, questi certificati d'innocenza non servirono a niente, quando dopo la morte dello zio papa si videro costretti a fuggire in Francia per sottrarsi alle accuse di un improprio accumulo di ricchezze, rivolte loro dal nuovo pontefice. Non esistono stime dei costi complessivi del mecenatismo artistico e delle iniziative di U. in campo architettonico ed urbanistico; disponiamo solo di numerose indicazioni e valutazioni parziali che non possono fornire un quadro completo. Gli interventi più spettacolari riguardarono l'abbellimento dell'interno della nuova basilica di S. Pietro, consacrata da U. il 18 novembre 1626. Nel marzo 1625 iniziarono i lavori per la costruzione dell'imponente baldacchino sopra la tomba di Pietro, capolavoro del Bernini, nella cui progettazione il papa cercò di far conciliare elementi del ciborio dell'antica basilica con le nuove ed anche stravaganti forme barocche. Il bronzo, necessario per la fusione delle quattro colonne tortili, del peso di 14 tonnellate ognuna, fu ricuperato con lo smantellamento delle travi romane del portico del Pantheon, e poi servì anche per realizzare ottanta cannoni per Castel S. Angelo. Finito il coronamento in legno dorato, alla cui esecuzione collaborò pure il Borromini, U. poté inaugurare, il 29 giugno 1633, l'opera carica delle insegne di casa Barberini: il sole, l'alloro e le tre api (un contemporaneo ne contò più di diecimila sparse per Roma); il costo complessivo viene indicato in 200.000 scudi. Seguì, negli anni 1629-1641, l'esecuzione delle grandi nicchie a due piani nei quattro pilastroni della cupola e delle quattro statue di santi da collocarvi. Nel sotterraneo U. fece costruire quattro altari, addossati alle fondamenta dei piloni, che vennero dotati, nell'ottobre 1631, di otto cappellanie di assoluto giuspatronato di casa Barberini che, in questo modo, s'impadronì, materialmente, giuridicamente e liturgicamente, della base e del centro della basilica. Nel corso del pontificato, U. innalzò in S. Pietro oltre due dozzine di altari e commissionò le relative pale, lasciando piena libertà stilistica ai diciannove pittori incaricati dell'esecuzione. Nella tribuna della basilica, in intenzionata simmetria con la tomba di Paolo III Farnese, troneggiò sin dall'agosto 1631 la statua bronzea per il monumento funebre che immortalò U. ancora in vita; l'opera fu completata dal Bernini solo dopo il 1638, con una spesa di 25.000 scudi, ed inaugurata nel 1647. Mentre di regola i lavori nella basilica erano diretti dalla Fabbrica di S. Pietro, U. riservò alla sua personale tutela il progetto di un monumento per Matilde di Canossa, le cui spoglie aveva fatto trasferire dall'abbazia di Polirone, nel Mantovano, a Roma; l'opera, realizzata nel 1634-1637 dal Bernini e dalla sua scuola, doveva commemorare la donazione dei possedimenti della contessa alla Chiesa, il conseguente rafforzamento del dominio temporale del papato ed anche l'umiliazione di un imperatore di fronte alla supremazia di un papa. Con scene affrescate della vita della stessa Matilde, cui aveva pure dedicato una sua poesia quasi divinatoria, U. fece inoltre decorare nel Vaticano da Gian Francesco Romanelli nel 1637-1642 la "galleriola", una sala-corridoio sopra il cortile di S. Damaso; dedicò due cappelle private, erette anch'esse nei Palazzi Vaticani - dove durante il suo pontificato furono eseguiti parecchi lavori decorativi e restauri di second'ordine - alla passione (Pietro da Cortona, 1635) ed alla nascita di Gesù (G.F. Romanelli, 1637). Nella città di Roma, U. ha lasciato relativamente poche tracce architettoniche. A parte il restauro di chiese antiche - fra l'altro di S. Salvatore ai Monti e, nella vicina via Urbana sistemata dal papa, di S. Lorenzo in Fonte (1630) nonché dei SS. Cosma e Damiano nel Foro (1632) e di S. Anastasia al Circo Massimo (1636) - e l'allargamento di qualche piazza, U. non intervenne quasi per niente nel contesto della città. Fra le imprese maggiori sono da elencare l'aggiunta del piano attico al palazzo della Sapienza (1628-1632) e l'inizio della costruzione della chiesa universitaria di S. Ivo, cominciata nel 1643 dal Borromini, nonché la sistemazione di tre fontane, commissionate al Bernini: la fontana della Barcaccia in piazza di Spagna (1627-1629), la fontana del Tritone in piazza Barberini (1640-1643), al cui angolo si trova oggi anche la piccola fontana delle Api (1644). L'iniziativa urbanistica più incisiva di U. consistette nella costruzione delle mura gianicolensi, che completarono la cinta difensiva della città verso il mare e racchiusero nella difesa muraria la via della Lungara ed il colle del Gianicolo, dove s'erano insediate molte nuove costruzioni e ville anche dei Barberini. Le misurazioni necessarie e le progettazioni cominciarono nel luglio 1641; con l'impiego di migliaia di operai, le fortificazioni, con dodici baluardi, furono erette in grande fretta e con ingenti spese nel 1642-1644. I lavori si estesero per oltre 3 km, su un difficile terreno, da porta Cavalleggeri, attraverso la restaurata porta S. Pancrazio, fino a scendere sulla riva del Tevere, inglobando il rione di Trastevere; qui, l'arretramento della cinta muraria di quasi 500 metri dietro le mura aureliane rese necessaria la sostituzione dell'antica porta Portuense con la nuova porta Portese nonché lo spostamento a monte del porto di Ripa Grande. Queste fortificazioni romane - precedute dal rafforzamento delle opere di difesa del porto di Civitavecchia ed accompagnate da estesi lavori nelle fortezze dello Stato - furono causate dall'inasprimento di un dissidio fra U. ed Odoardo Farnese, duca di Parma e Piacenza, che era anche feudatario del Ducato di Castro e Ronciglione, situato entro i confini dello Stato pontificio; tale Ducato, grazie alla ricca produzione granaria, era di primaria importanza per il rifornimento annonario della vicina città di Roma. I Barberini avevano manifestato sin dal 1635 il loro interesse per un eventuale acquisto del Ducato; le loro speranze erano favorite dal fatto che il Farnese era fortemente indebitato con la Camera apostolica: per due vecchi Monti baronali "Farnese" del valore complessivo di quasi un milione di scudi, eretti dai suoi avi nei primi anni del secolo con l'impegno di buona parte del Ducato di Castro, doveva pagare interessi annui di 50-60.000 scudi, senza calcolare ulteriori pagamenti per l'ammortamento del debito. La disastrosa situazione finanziaria, in cui il duca si trovava dopo la sua costosa e fallimentare partecipazione all'alleanza offensiva della Savoia e di Mantova con la Francia contro il Ducato spagnolo di Milano nel 1635-1636, lo costrinse ad indebitarsi ulteriormente, probabilmente attraverso la sottoscrizione di "aggiunte" di luoghi a Monti camerali preesistenti, tanto che nel 1641 i debiti camerali del Farnese furono indicati da U. in un milione e mezzo di scudi, corrispondenti a circa un decimo del debito pubblico allora accumulato nei Monti gestiti dalla Camera. Non è però possibile dare un giudizio netto sulle ragioni dell'acutizzarsi del conflitto d'interessi politico-finanziari e di prestigio sociale fra i Barberini ed il duca di Parma che sfociò, nell'autunno 1641, nella tanto inutile quanto devastante guerra di Castro, chiamata anche guerra Urbana dal nome proprio di quel pontefice che voleva entrare nella storia da grande pacificatore e padre comune di tutti i principi cattolici. Su invito di U., Odoardo Farnese venne a Roma nel novembre 1639 per tre mesi, durante i quali le trattative per una riduzione del tasso d'interesse dei debiti si mescolarono con scambi di cortesie e sgarbi nel cerimoniale; alla fine di febbraio 1640 il duca lasciò bruscamente Roma dopo aver respinto sia la proposta di un futuro matrimonio tra le case Barberini e Farnese, sia una nuova offerta di acquisto del Ducato di Castro da parte dei Barberini. In una manovra concertata, tutt'altro che trasparente, nel 1640-1641, i fratelli Giovanni ed Alessandro Siri - mercanti-banchieri savonesi in rapida ascesa finanziaria a Roma, dove erano attivi anche come banchieri di fiducia dei Barberini sin dal 1630 e, dal maggio 1639, depositari generali della Camera apostolica, nonché tesorieri segreti di U. in successione ai fratelli Sacchetti, insieme ai quali gli stessi Siri erano depositari dei vecchi Monti Farnese ed inoltre affittuari-appaltatori del Ducato di Castro - si rifiutarono, sotto pretesti giuridici, di adempiere il contratto d'affitto per Castro, stipulato con il Farnese sul principio del 1638 per un ammontare di quasi 100.000 scudi annui. In conseguenza, il duca smise di pagare gli interessi spettanti ai suoi creditori, titolari dei luoghi di Monte Farnese. Le proteste delle numerose istituzioni ecclesiastiche e delle persone danneggiate dall'insolvenza vera o provocata del duca erano atte a destabilizzare, date le dimensioni del caso, tutto il sistema "montistico" pontificio e rendere tanto difficile la vendita quanto rischioso l'acquisto di luoghi dei Monti gestiti dalla Camera apostolica; ma solo sul mercato dei Monti era possibile coprire le forti spese straordinarie e consolidare l'indebitamento velocemente crescente della Sede apostolica proprio in questi anni. Nel marzo 1641, il cardinale Antonio Barberini jr, camerlengo di Santa Chiesa, strinse il Farnese in una morsa, fra l'altro vietando ogni esportazione di cereali dal Ducato di Castro (mentre prima, per uno speciale privilegio, tali "tratte" erano sempre state concesse) e sequestrando un barcone carico di grano nel porto di Montalto. Odoardo Farnese, facendo la sua parte nell'assurdo gioco, fortificò la cittadella di Castro e rifornì il territorio di truppe e di munizioni. Poi, il 20 luglio, la Camera emanò, in nome dei creditori, un monitorio che imponeva al Farnese l'immediata restituzione dei debiti, minacciandolo dell'incameramento di beni di sua proprietà per il corrispondente valore; il 21 agosto seguì un secondo monitorio, con il quale U. ingiunse al suo "vasallo", sotto pena della scomunica e della perdita del feudo ducale, il licenziamento delle truppe e la demolizione delle fortificazioni. Il duca non reagì minimamente; ma da parte pontificia si diede inizio a forti armamenti e all'arruolamento di un esercito straordinariamente numeroso di dodicimila soldati e tremila cavalieri, ammassato a Viterbo, che il 28 settembre conquistò quasi senza combattimenti prima Montalto, poi gli altri luoghi fortificati del Ducato e finalmente, a metà ottobre, anche Castro. Nel gennaio 1642, U. dichiarò Odoardo scomunicato, reo di lesa maestà, decaduto da tutti i suoi feudi ed incorso nella confisca di tutti i suoi beni in territorio pontificio. In luglio, un'armata pontificia mosse da Ferrara verso Parma, occupando la neutrale Signoria di Mirandola. Per fronteggiare la destabilizzante politica belligerante dei Barberini, il 31 luglio 1642 la Toscana, Venezia e Modena conclusero un'alleanza difensiva, appoggiata dalla Francia, che da tempo si trovava in forte tensione con Roma, fornendo al duca di Parma sussidi di ben 25.000 scudi al mese, tanto da far dichiarare a U. a metà ottobre che i "francesi s'avanzano a pregiudicio della libertà d'Italia" (G. Demaria, p. 220). Senza che fosse esistito un comune piano strategico degli alleati, il Farnese in settembre entrò dal territorio modenese nello Stato della Chiesa con truppe molto mobili, composte da tremila uomini a cavallo e tremila a piedi; aggirando il Forte Urbano e l'inespugnabile Bologna e mettendo in fuga l'esercito pontificio, conquistò Imola, Faenza e Forlì, mentre a Roma si rafforzarono gli armamenti e U. si ritirò dal Quirinale al più sicuro Vaticano, ordinando che nelle chiese si recitassero tutti i giorni delle litanie "contro i ribelli e contumaci". Nell'ottobre, Odoardo Farnese stabilì il suo quartier generale sul lago Trasimeno ed avanzò fino ad Acquapendente vicino ad Orvieto, ma poi dovette ritirarsi anche per la scarsezza di viveri e foraggi, distrutti dalle truppe pontificie nella loro fuga. Mentre U. (o chi per lui) insisteva sulle richieste iniziali - esplicita domanda di perdono e di assoluzione da parte del Farnese, rinuncia a Castro e Montalto, pagamento dei debiti -, la ripresa delle ostilità nella primavera 1643 portò a successi alterni su tutti i fronti: il Farnese penetrò di nuovo nel territorio pontificio fino alle porte di Viterbo e in seguito impegnò le forze avversarie sul Po, le truppe toscane invasero l'Umbria fino quasi a Perugia, il rafforzato esercito pontificio invece si batté abbastanza bene nell'estate contro i Veneziani e gli Estensi nel Ducato di Modena, ma fallì, in ottobre, un colpo di mano contro Pistoia. Verso la fine del 1643, tutti i belligeranti erano esausti, le risorse militari e finanziarie della Sede apostolica erano esaurite. Dopo un'ultima, cruenta disfatta, subita a metà marzo del 1644 dall'esercito pontificio nei pressi di Ferrara, s'arrivò finalmente alla pace, ricercata da molti mesi con varie proposte da tutte le parti in causa. Con il decisivo intervento della Francia, che si prestò anche da garante degli accordi, furono sottoscritti a Venezia, il 31 marzo, due trattati di pace della Sede apostolica con gli alleati e, separatamente, con Odoardo Farnese. Tutto tornò allo status quo ante, e non solo per quanto riguardava la reciproca restituzione delle conquiste territoriali: U. concesse perdono ed assoluzione al duca di Parma, il quale dovette far demolire le nuove fortificazioni a Castro e Montalto che, in questo modo, venivano presentate come la vera ed unica causa della guerra, mentre i debiti farnesiani non vennero neanche menzionati. Per due anni e mezzo questa guerra aveva monopolizzato le energie e l'attenzione del governo pontificio ed anche provocato serie tensioni all'interno della famiglia Barberini. Rimangono difficilmente calcolabili le perdite del prestigio politico, militare e morale che la Sede apostolica subì in Italia ed in Europa per colpa dei Barberini in questo conflitto iniziato con esorbitante leggerezza e irresponsabilità. Sui costi materiali dell'assurda guerra contrastano le molte indicazioni dei contemporanei, che spaziano da un minimo di 5,6 o 7 milioni di scudi (probabilmente limitati alle spese di guerra sostenute dalla Camera apostolica solamente a Roma), fino a 12, 14 o persino 18 milioni, che comprendono forse anche i costi delle ingenti devastazioni, distruzioni e saccheggi avvenuti nei territori pontifici. Anche la stessa Roma rimase sconvolta dalla guerra; nel 1643-1644, la città fu messa a soqquadro più volte da tumulti, rapine e ferimenti da parte dei soldati ivi ammassati, che, alla fine, erano rimasti senza paga per lunghi mesi. Ma non era tanto questo clima di diffusa violenza (cui contribuirono frequenti scontri tra guardie pontificie e gente armata al soldo degli ambasciatori delle Corone nemiche), quanto la rapida crescita della pressione fiscale ed il conseguente rincaro della vita quotidiana che gravavano sempre di più sulla popolazione di Roma e dello Stato. Per coprire le spese in rapida ascesa, U. aumentò o impose ex novo fino a sessantatré imposte di consumo, in buona parte su beni di prima necessità, e s'acquistò l'epiteto di "papa gabella". I più forti aumenti avvennero negli anni 1625-1630 in concomitanza con le guerre in Valtellina e per Mantova e poi, nel 1640-1644, in occasione della guerra di Castro. Per fare qualche esempio: nel maggio 1630 U. aveva introdotto, per la prima volta, una "gabella del macinato" di 3 baiocchi (0:03 scudi) su ogni rubbio di grano (uguale a quasi 3 hl di volume o 200-210 kg di peso); nel maggio 1642 questa gabella fu alzata, con ritardo per la privilegiata città di Roma, a 5 baiocchi, nel febbraio e luglio 1643 a 10 baiocchi e nel dicembre a 120, il che equivaleva a un rincaro di quaranta volte, accompagnato però da un'indulgenza plenaria offerta per la festa di Natale. Negli stessi critici mesi, il peso della "pagnotta", garantita al popolo romano al prezzo invariato di 1 baiocco, calò da circa 250 a meno di 200 grammi. La già preesistente "gabella della carne" di 0:2 baiocchi fu raddoppiata nel luglio 1642, triplicata nel luglio 1644. La "gabella del sale" subì fra il 1625 ed il 1644 tre aumenti per arrivare, alla fine, al triplo della vecchia imposta; e triplicato fu anche il gettito della "tassa delle milizie". Con questa massa di imposte lo Stato pontificio pareva raggiungere il limite della sua capacità contributiva. U. invece andò anche oltre: con un editto del 12 giugno 1643 ordinò a chi possedeva argento per un valore sopra 100 scudi di consegnarlo a Castel S. Angelo per uso di monetazione. Il controvalore doveva essere rimborsato in luoghi del nuovo Monte del Sale, ed anche gli interessi su tutti i Monti non vennero più pagati ai creditori in contanti, ma in patenti sullo stesso deposito, i cui luoghi risultarono, del resto, quasi invendibili sul mercato: in fondo, si trattò dell'introduzione di una specie di cartamoneta. Poi, il 25 agosto, l'ordine di consegna fu esteso a tutto l'argento che superava il valore di 50 scudi e, l'11 settembre, tale ordine fu ancora inasprito con l'annuncio di perquisizioni casa per casa. Sembra però che non si sia arrivati alle misure annunciate di confisca, come anche per altri provvedimenti fiscali, messi in atto solo parzialmente. Verso la fine del 1643, i parroci furono incaricati di stendere degli elenchi per fornire informazioni sullo status economico dei loro parrocchiani in preparazione di una patrimoniale che avrebbe dovuto fruttare 600.000 scudi a Roma e 3 milioni in tutto lo Stato; ma le proteste e resistenze sociali e pure ecclesiastiche opposte a questa inaudita disposizione fecero cambiare alla Camera il modo di procedere. Alla fine, nel gennaio 1644, fu imposto, ma poi di fatto solo in parte riscosso, un semplice testatico che socialmente sarebbe stato ancora più ingiusto. Si è affermato che il gettito degli aumenti tributari effettuati durante il pontificato di U. avesse reso capace la Camera apostolica di pagare gli interessi per complessivamente 14 milioni di debiti. Certo è che il provento delle gabelle così fortemente accresciute negli anni 1639-1644 fu in gran parte o del tutto usato per poter emettere sul mercato nuove aggiunte a vecchi Monti o a quelli eretti ex novo come il Monte del Sale o il Monte del Macinato; in questi casi, il tasso era molto alto perché si trattava di Monti vacabili all'8%, mentre per i Monti non vacabili il tasso fu ridotto, dopo il 1635, dal 5,5 sino al 4,5% (ed anche il debitore Odoardo Farnese ne fu avvantaggiato a detrimento dei suoi creditori). Un altro Monte vacabile era quello dell'Oro, fondato sui prelievi, effettuati da U. in più riprese dal settembre 1642 al dicembre 1643, dell'ammontare di circa 715-720.000 scudi d'oro (circa 1.080.000 scudi di moneta), dal tesoro di Sisto V a Castel S. Angelo. Non disponiamo di indicazioni sul valore capitale di questi nuovi Monti e delle aggiunte a quelli già esistenti negli ultimi anni del pontificato, ma è più o meno certo che sotto U. il debito pubblico consolidato nei Monti camerali salì da 12 a 25-26 milioni di scudi e che negli anni 1623-1644 l'indebitamento complessivo della Sede apostolica raddoppiò da circa 18-19 milioni a 36-40. Resta da chiarire se una parte di questo enorme debito consistesse in prestiti, concessi in moneta contante da banche e banchieri genovesi. Negli ultimi otto-dieci anni della sua vita, U. fu affetto da gravi infermità che lo debilitarono in modo progressivo. La storia della salute e delle malattie di questo pontefice sarebbe ancora tutta da scrivere. Da quanto si riesce ad indovinare dagli scarsi accenni contemporanei sui vari "accidenti" che colpirono il papa (lo stato di salute del papa apparteneva agli "arcana imperii", e peggio stava, minor conoscenza ne aveva il pubblico), si trattava di una serie di distanziati e gravi colpi apoplettici o apoplettiformi, causati probabilmente da trombosi vascolar-cerebrali e collegati a una ipertensione cronica. Un primo "accidente" di questo genere si manifestò il 1° aprile 1635, quando U. assistette in cappella al canto della Passione della Domenica delle palme. Sembra che se ne fosse ripreso abbastanza velocemente. In forma molto più seria, lo stesso malessere si ripeté due anni più tardi, il 27 aprile 1637, mentre U. era in partenza per Castel Gandolfo, dove poi si fece portare lo stesso il 5 maggio; questa doveva essere la sua ultima villeggiatura sul lago di Albano. Ancora alla fine di maggio si dubitava della sua possibilità di sopravvivenza e solo all'inizio di agosto egli sembrò pienamente ristabilito. In autunno, però, subì una ricaduta, dalla quale si riprese alquanto a metà novembre. Il 25 aprile 1638 si ripeté, in forma ancora più grave, lo stesso malessere che si protrasse fino all'estate. Negli anni seguenti, U. fu sempre più spesso assente alle cerimonie liturgiche e alle feste civili a cui era solito partecipare. Nel 1639 attese alla processione del Corpus Domini (22 giugno) per la prima volta non a piedi, ma portato sulla sedia gestatoria; dall'anno seguente (30 maggio) non vi partecipò mai più. I contemporanei, sebbene fossero testimoni del peggioramento delle sue condizioni di salute negli anni 1639-1643 - lo descrivono indebolito dalla vecchiaia, incurvato, dimagrito, ma alle volte ancora pieno del suo vigore originario -, affermano anche che le sue capacità intellettive erano illese. Nelle fasi critiche della sua infermità era però incapace di svolgere i compiti più semplici di un sovrano o di curarsi dei minimi affari di governo, tanto che già nell'autunno 1637 il nipote Antonio firmò per un po' in sua vece i brevi apostolici. Rimane quindi aperta la questione se e in quale misura U. fosse personalmente cosciente, partecipe o responsabile negli ultimi anni e, soprattutto, negli ultimi mesi della sua vita, delle decisioni prese dal governo pontificio in tutti i campi. Verso la fine del 1643 si verificò un altro, gravissimo episodio che costrinse il papa quasi ininterrottamente a letto; si fece vedere in pubblico solo il 27 marzo 1644, in occasione della benedizione pasquale che impartì da una finestra del Palazzo Vaticano. In giugno il suo stato peggiorò e U. cominciò a sproloquiare, alla fine lo vessarono forti disturbi intestinali. Il 22 luglio ricevette dal suo confessore, il gesuita Luigi Albrizzi, il viatico, tre o quattro giorni dopo l'olio santo. Morì verso le ore 7 di venerdì 29 luglio 1644, all'età di settantasei anni. La notizia della sua morte provocò immediate dimostrazioni di gioia e di odio: il popolo romano cercò di distruggere la statua di U., opera del Bernini, custodita dal 1640 nel Palazzo Capitolino; non riuscendoci, fece a pezzi un suo ritratto in stucco, collocato nel cortile-giardino del Collegio Romano. Dopo l'autopsia del cadavere, eseguita dal medico Giovanni Trullio, che non portò a risultati notevoli, la sua salma, già in progredita decomposizione, fu esposta a S. Pietro dal 31 luglio al 2 agosto e poi sepolta nell'ancora incompiuta sua tomba nell'abside della basilica. Sarebbe facile, ma sembra prematuro dare un giudizio piuttosto negativo sul pontificato di U. straordinariamente lungo e segnato da un finale disastroso. Della straordinaria massa di fonti d'archivio che potrebbero chiarire molti aspetti ancora inesplorati e servire a risolvere meglio tanti problemi appena toccati dagli storici, secondo criteri piuttosto eclettici, solo una parte è stata finora utilizzata e una quantità ancora minore è stata edita, e questo soprattutto per quanto riguarda i carteggi diplomatici. Le ricerche storiche si sono da ultimo estese, dal campo politico-diplomatico ed ecclesiastico, sempre di più nella sfera della storia dell'arte (dall'architettura alla musica), della cultura in generale, compreso il cerimoniale di Corte, e delle istituzioni. Sembra però che ancora sia quasi impossibile tirare le somme delle ricerche già fatte in tutti i campi, da quello liturgico o missionario a quello del fisco, della giustizia o dell'approvvigionamento. Trattandosi di fatti e di processi storici appartenenti a categorie difficilmente comparabili, sarebbe assurdo voler controbilanciare i milioni di scudi sprecati per la guerra di Castro con i 120.000 scudi impiegati dal papa negli stessi anni inutilmente per il sostegno dell'insurrezione dei cattolici in Irlanda, con le opere d'arte create grazie al largo mecenatismo di U. e di casa Barberini o con i grandi successi raggiunti dalla Chiesa negli anni Venti e Trenta in Boemia e Moravia in conseguenza della forzata ricattolicizzazione della popolazione, imposta da un re-imperatore fedelmente cattolico. Pure inutile sarebbe il tentativo di confrontare la soppressione delle innovative "Gesuitesse" con l'approvazione concessa da U. a tanti nuovi Ordini religiosi, come alla Congregazione della Missione - i cosiddetti Lazzaristi - nel 1632 ed alle Figlie della Carità nel 1634 (ambedue fondazioni di Vincenzo de' Paoli) o all'Ordine della Visitazione nel 1626 ed ai Carmelitani Scalzi Riformati nel 1631. Risulta chiaro l'assoluto predominio di tendenze tradizionaliste in U. che, da rigido giurista, giudicava tanto le iniziative riguardanti la vita ecclesiastica o toccanti gli interessi ed i diritti della Chiesa prese lontano da Roma, quanto le decisioni da prendere alla Curia romana, alla lettera delle norme del codice canonico; "novità" erano ammesse, caso mai, nella creazione artistica. Per quanto riguarda il mondo politico, è difficile individuare un qualsiasi programma di U. che andasse oltre l'intenzione di tutelare, consolidare e rafforzare lo Stato pontificio e di impedire un accrescimento della preponderanza spagnola in Italia. Nell'abbondante corrispondenza della Segreteria di Stato, gli ordini impartiti ai nunzi - a parte la quasi ritualizzata ripetizione delle formule retoriche di principio riguardanti il desiderio di pace, l'assoluta neutralità della Sede apostolica e la sofferenza del pontefice di fronte alle vittime cattoliche della guerra in atto in Europa - reagiscono semplicemente alle relazioni su persone, su singoli avvenimenti politici o militari e su ben circoscritti problemi ecclesiastici, disciplinari, giurisdizionali, mandate a Roma dalle diverse Nunziature; invano si cercano istruzioni che si possano ricondurre a un reale e realistico progetto generale per il presente o il futuro dell'Europa confessionalmente divisa e politicamente lacerata, su fronti trasversali, da una guerra cruenta. Conoscendo molto bene, per diretta esperienza personale, il mondo politico, ecclesiale e culturale della Francia, U. aveva puntato sulla vincente carta francese sin dall'inizio del pontificato e nonostante le amare delusioni subite nella guerra della Valtellina; sperava di tutelare al meglio, grazie all'appoggio francese, gli interessi del "suo" Stato della Chiesa, al cui servizio erano indirizzate anche le ripetute invocazioni retoriche alla "libertà d'Italia". Ma la stretta collaborazione segreta con Richelieu, negli anni decisivi 1628-1632 della guerra dei Trent'anni e della guerra per Mantova, da una parte non era rimasta nascosta alle Corone asburgiche e, dall'altra, espose la Sede apostolica al rischio di futuri ricatti francesi; U. se ne dovette rendere conto soprattutto da quando, nel 1642, il cardinale Jules Mazarin divenne primo ministro della Francia - lo stesso Giulio Mazzarino che una decina d'anni prima era stato uno dei protagonisti della diplomazia segreta pontificia e quindi conosceva fin troppo bene i punti deboli della politica di U. e le contraddizioni tra le dichiarazioni di principio della Sede apostolica e la realtà politica. Verso il mondo spagnolo, invece, U. nutriva evidentemente una profonda, insuperabile diffidenza ed il mondo germanico gli era e gli rimase quasi totalmente estraneo. Del resto, la prevalenza dell'impegno politico su quello religioso ed il prevalere dell'apparenza sulla sostanza, favorito dalla cultura barocca, si trovano riassunti nel giudizio critico di un osservatore contemporaneo su U.: "Princeps potius videri voluit quam pontifex, rector quam pastor" (A. Bastiaanse, p. 178). Nonostante le pesanti deficienze ed esagerazioni che segnarono il pontificato barberiniano, esso non solo non destabilizzò o danneggiò il sistema di governo pontificio in quanto tale, ma probabilmente lo rafforzò ulteriormente. Questo vale certamente per la lunga serie di misure legislative, istituzionali e disciplinari adottate nel pontificato di U. sia in campo ecclesiastico sia nell'amministrazione "statale", che strutturalmente favorirono il potere accentratore romano; a questo tipo di interventi apparteneva anche la fondazione di nuovi archivi centrali come, per esempio, nel 1625 l'Archivio Urbano per tutti gli atti notarili riguardanti, fra l'altro, procure e contratti commerciali. Al consolidamento del sistema esistente contribuì pure l'inserimento degli "arrivisti" Barberini nella nobiltà romana di vecchia data, che corroborò la comunità d'interessi economici e sociali fra i feudatari dello Stato ecclesiastico e la casa regnante. E questo sistema di dominio non fu intaccato neanche dall'esorbitante nepotismo di U. o dalla disastrosa guerra di Castro che portò, all'inizio del 1646, alla contumacia dei Barberini ed al sequestro dei loro beni; meno di due anni più tardi, per decisione di Innocenzo X, ai Barberini furono restituite in pieno le ricchezze accumulate sotto U. e, nuovamente immacolati, poterono riappropriarsi delle loro prestigiose posizioni nella società e nella Chiesa romana: un evidente segno che U. e i suoi nipoti, con tutti i danni di cui erano responsabili, non avevano messo in dubbio né la validità dei principi di governo, né l'autorità del sistema pontificio. Di nuovo, come ai tempi dei Carafa, anche se in circostanze diverse, il sistema si rivelò più forte dei regnanti che ne avevano abusato. Si è osservata una componente di megalomania nella personalità e nel pontificato di Urbano VIII. È altrettanto difficile contestare un tale giudizio quanto approvarlo, anche perché la tendenza alla divinizzazione della persona del monarca costituiva un fenomeno in via di generale diffusione; tanto più facilmente poteva così verificarsi l'autodivinizzazione o la divinizzazione adulatoria di un sovrano rivestito della duplice sovranità spirituale e secolare. Una testimonianza visiva della mania di grandezza, nella quale si confondevano mitologia e religione, è fornita dai grandiosi affreschi sui soffitti delle due maggiori sale di rappresentanza del palazzo Barberini: nel salone centrale, Pietro da Cortona dipinse, nel 1632-1639, il Trionfo della Divina Provvidenza, dove la stessa Provvidenza ordina all'Immortalità di investire le api barberiniane della tiara e delle chiavi di Pietro. Nella seconda sala, invece, Andrea Sacchi iniziò ad affrescare, alla fine del 1629, il soffitto con il Trionfo della Divina Sapienza; qui la Sapienza appare nelle vesti del sole, un altro emblema barberiniano, che raffigura in questo contesto lo stesso U., "cuius Sapientiam [...] Divinae proximam agnoscimus", secondo il commento di un contemporaneo (G. Teti, Aedes Barberinae ad Quirinalem descriptae, Romae 1642, p. 90). Come poteva umanamente fallire un prescelto dalle qualità di Urbano VIII?
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