INFORMATIZZ. DURANTE

Ancora in questo TESTO SETTECENTESCO (tomo I, p.4) Antonio Valsecchi sviluppa la visione antiebraica della CHIESA ROMANA scrivendo:
"Ciò che però conoscer non vollero questi sciagurati, cui era troppo odiosa luce.
Quella Religione i di cui avanzamenti impedir non avea potuto la spada, di oscurare si argomentarono colle frodi e colla penna.
Primi gli EBREI dopo l'empietà orrenda usata contro di Cristo
[DEICIDIO - UCCISIONE DI DIO : su cui valgono però le revisioni della Chiesa moderna con la conciliaristica DICHIARAZIONE NOSTRA AETATE del 28 ottobre 1965: specificatamente il PARAGRAFO IV] e i di Lui Discepoli e dopo anche aver veduto il castigo del Cielo eseguito sulla loro Nazione dalla spada di Tito, si lusingarono di far rivivere il culto lor riprovato col rialzamento della Città [Gerusalemme] e del tempio mercè la possanza di un Apostata Imperadore.
Ed egli in fatti all'ardita impresa si accinse anche pel genio malvagio di smentire gli Oracoli de' Profeti e le predizioni di Cristo che prenunziata ne aveano una irreparabile rovina.
Ma che può la possanza e la frode terrena contro a' voleri di Dio?
Era distrutto quel tempio in cui solo eseguir si potea il culto dell'antica alleanza per dar luogo alla Religion del Vangelo: non dovea dunque quello più sorgere, perché dovea questa regnare.
Giuliano col far iscavare i fondamenti della distrutta Città, compie, nol sapendo, l'Oracolo del Salvatore che rimasta non sarebbevi pietra sopra pietra: ed il tremuto e gli orrendi globi di fuoco usciti replicatamente dalle fosse per quel nuovo lavoro aperte e lanciatisi con alto spavento e strge sovra degli operaj, avviliscono il furore di Cesare e deludono le speranze dell'imperversata Nazione [ebraica] che dispersa ed errante per ogni piaggia mostra in se stessa i segnali del suo castigo ed insieme il trionfo della nostra credenza".


















CRISTIANI ED EBREI
articolo di Armando Gargiulo s.j.
Nel presente articolo mi limito a presentare il pensiero attuale della della Chiesa circa l’accusa di "popolo deicida" rivolto agli ebrei, accusa profondamente radicata nella coscienza cristiana, come è stato esposto nel precedente articolo.
Per la verità, già a partire dagli inizi di questo secolo, Léon Bloy, con l'opera Le salut par les Juifs, ha aperto un’epoca nuova nella meditazione cristiana sul giudaismo. Ci sono poi Nicolas Berdjaev, Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, e specialmente Jacques Maritain, che costantemente si dedicò a meditare sul "Mistero di Israele", operando a favore del popolo ebreo, in quegli anni molto perseguitato.
Occorre poi almeno ricordare la famosa frase di Pio XI: "Noi siamo spiritualmente dei semiti" (6 settembre 1938), e la sua enciclica Mit brennender Sorge (1937), con la quale condannava quel razzismo che tanti lutti e distruzioni, specialmente nei riguardi degli ebrei, avrebbe causato nei cinque anni successivi.
Vogliamo ora esaminare il non piccolo travaglio con il quale la Chiesa ufficiale arrivò al famoso paragrafo 4 della Dichiarazione Nostra Aetate, nell'ambito del Concilio Ecumenico Vaticano II, e aggiungeremo altre ulteriori affermazioni sull’argomento, contenute in altri documenti e altri studiosi cristiani.
1. La dichiarazione del Concilio Vaticano II: Origine.
Tutto cominciò, si può dire, quel Venerdì Santo 1959 quando, "durante la liturgia solenne, papa Giovanni XXIII - senza preavviso - diede ordine di omettere, nella nota preghiera per gli ebrei, il penoso aggettivo "perfidi". Questo gesto commosse l’opinione pubblica ebraica e suscitò molte speranze" (1).
Fu proprio questa speranza che indusse Julies Isaan, anziano professore e funzionario di Stato ebreo - che aveva perduto moglie e figlie nei campi di concentramento, e dirigeva l'Associazione "Amicizia ebraico-cristiana" - a chiedere un’udienza a Papa Giovanni. L’udienza avvenne il 13 giugno 1960, e Julies Isaac consegnò un documento il cui contenuto si può così riassumere: nei rapporti con gli ebrei un certo "insegnamento del disprezzo" esiste ancora nella Chiesa! L’opinione cattolica è incerta fra due tendenze opposte... "È indispensabile perciò che si levi una voce dall’alto... la voce del Capo della Chiesa, per indicare a tutti la strada giusta, e condannare solennemente questo "insegnamento del disprezzo" che nella sua essenza è anticristiano".
È certo - per testimonianza di Mons. Capovilla, segretario del Papa - che fu quello il giorno in cui papa Giovanni XXIII decise che il Concilio si dovesse occupare della questione ebraica e dell’antisemitismo.
Per questo il Papa pregò il prof. Isaac di prendere subito contatto con il Card. Agostino Bea, di cui si fidava e nel quale confidava, e il 18 settembre 1960 il pontefice affidò formalmente al Card. Bea, come presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani, l’incarico riguardante le relazioni con il popolo ebraico, il popolo eletto dell’Antico Testamento.
Il Card. Agostino Bea, già per molti anni professore e anche Rettore del prestigioso Istituto Biblico, affidato da sempre ai Padri Gesuiti, diventa così, per disposizione divina, il vero protagonista non solo del Documento sull’unità dei cristiani (Unitatis redintegratio), ma soprattutto della Dichiarazione Nostra Aetate, riguardante i rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane, e - primo fra tutti, con il popolo e la religione ebraica (paragrafo 4 della Dichiarazione).
Sin dall’inizio il cardinale Bea si rese conto dell’importanza storica e anche politica della questione, manifestò la convinzione che sulle relazioni Chiesa-popolo ebreo "si esigeva un radicale cambiamento da parte della Chiesa, anche se il processo sarebbe stato difficile e lungo. Da parte sua, pur prevedendo una violenta opposizione da parte dei suoi colleghi di Curia, egli avrebbe fatto di tutto per indurre il Concilio a un nuovo e positivo atteggiamento".
Messosi subito all’opera, il Cardinale Bea - dopo ben due anni d’impegno - presentò uno Schema sulle relazioni Chiesa-popolo ebraico, che venne però scartato dalla Commissione che preparava l'agenda del Concilio.
A questa prima sconfitta se ne aggiunse una seconda, anch'essa grave, e cioè la richiesta - da parte del Cardinale Segretario di Stato - di non pubblicare lo studio che il card.Bea aveva preparato per la Civiltà Cattolica e altre riviste estere, dal titolo: Sono gli Ebrei un popolo ‘deicida’ e ‘maledetto da Dio’? (2).
Fu necessario un altro intervento di Papa Giovanni - il 13 dicembre 1962 - perché il problema fosse posto di nuovo all’ordine del giorno del Concilio. Ma anche nella seconda sessione del Concilio, sebbene i capitoli riguardanti l’unità dei cristiani venissero profondamente discussi sino all’approvazione definitiva (Decreto Unitatis redintegratio, promulgato il 21 novembre 1964), gli ultimi due capitoli, riguardanti gli ebrei e la libertà religiosa, non vennero discussi "per mancanza di tempo".
E vero che la principale causa di queste difficoltà era la forte opposizione degli Stati arabi e il timore di gravi ritorsioni contro i cristiani di quelle regioni, ma è vero pure che una forte pressione contraria veniva da una minoranza - ben agguerrita - dentro e fuori il Concilio, che faceva circolare vari scritti critici e tendenziosi circa la persona del Cardinale Bea e sullo Schema da lui distribuito ai membri del Concilio.
Nel frattempo, il Segretariato aveva rielaborato il testo, tenendo conto di varie osservazioni, e fu soppressa la menzione del "deicidio". Poi il testo sugli ebrei subì vari spostamenti. Sulla spinta data dal nuovo Pontefice Paolo VI (con l’Enciclica Ecclesiam suam), si finì col presentare ai Padri Conciliari, il 25 settembre 1964, uno Schema distinto di dichiarazione sulle religioni non cristiane, e in particolare sugli ebrei.
Trascorse ancora un anno, tra alterne vicende di incontri con rappresentanze di Stati arabi e opposizione della minoranza interna al Concilio, ma infine il 25 ottobre 1965 si giunse alla solenne promulgazione del testo.
Ma anche dopo la promulgazione solenne del documento, la minoranza contraria interna al Concilio non disarmò, tanto che in un articolo scritto per la Civiltà Cattolica (1965, IV, pp. 209-229), il Card. Bea si vide costretto a rispondere agli argomenti riportati negli scritti di Mons. Luigi Carli, Vescovo di Segni, riguardanti appunto la responsabilità collettiva del popolo ebraico per la morte di Gesù, con tutte le relative conseguenze.
2. Il testo della dichiarazione Nostra Aetate sugli ebrei, circa la responsabilità del "deicidio"
Il testo definitivamente approvato risulta alquanto svigorito e piatto in confronto con le precedenti redazioni. Ma rimane un testo di una portata storica eccezionale (3).
Dopo aver affermato il vincolo spirituale che lega intrinsecamente la Chiesa cattolica e Israele, e dopo aver riconosciuto il "grande patrimonio spirituale comune ai cristiani e ad ebrei", il testo prosegue:
"E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo (Gv 19,6), tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo.
E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura.
Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della Parola di Dio non insegnino alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo...
In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo grande amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza"
(4).
3. Perché il popolo ebreo non deve essere detto "popolo deicida e maledetto"
Il Card. Bea, per tutto il tempo del Concilio e anche dopo, si è concentrato su questo problema, perché costituiva la base indispensabile della storica riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e per aprire nuove vie di ripensamento nell’esegesi, nella storia e nello stesso linguaggio teologico.
Ecco in forma sintetica il pensiero del Cardinale, attingendo ai suoi scritti. "Non v’è dubbio che la condanna e l’esecuzione di Cristo costituiscono in se stesse... un crimine di deicidio, perché Gesù è Uomo-Dio". Il problema, però, è la responsabilità soggettiva delle persone: i capi del sinedrio e parte del popolo - che chiesero la condanna - "avevano una tale chiara conoscenza?".
Qui il cardinale cita le parole che S. Pietro rivolse ai giudei di Gerusalemme: "Voi uccideste l’Autore della vita", e quasi subito aggiunge: "Ora, fratelli, io so che voi operaste per ignoranza, come anche i vostri capi" (At 3, l 5, l 7). A S. Pietro fa eco S. Paolo, nel discorso agli ebrei di Antiochia di Pisidia (At l 3,27). In questo modo i due apostoli non fanno che seguire l’esempio di mitezza datoci da Gesù stesso, che sulla croce pregava: "Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno" (Lc 23.34).
"Quanto alla colpa soggettiva - continua il cardinale - rimane sempre la questione di sapere fino a che punto gli ebrei di Gerusalemme abbiano pienamente capito e abbiano agito in piena libertà, e non accecati dalle passioni, dalle circostanze e dalle situazioni concrete". È vero che le affermazioni di Gesù intorno alla sua dignità di Figlio di Dio erano molto chiare ed esplicite. "Bisogna anche ammettere, però, che presso i suot contemporanei sussistevano grandissimi ostacoli, che costituivano, specialmente per i capi, un impedimento tale da non permettere loro di comprendere appieno le dichiarazioni di Gesù e la forza dimostrativa dei miracoli". Noi, educati da secoli nella fede cristiana, rischiamo di non renderci conto dell’incredibile difficoltà per un ebreo dei tempi di Gesù, educato al più rigido monoteismo, di capire che cosa volesse dire essere veramente "Figlio di Dio" e "una sola cosa col Padre", il Dio invisibile del Sinai in forma umana! Anche a Pietro "né carne né sangue" ma solo la rivelazione del Padre poteva renderlo comprensibile (Mt 16,17).
Sul piano storico, è certo che fu un piccolo gruppo a volere la condanna di Gesù: neppure tutti i membri del Sinedrio. E la folla che lanciò il grido brutale: "Ricada il suo sangue su noi e sopra i nostri figli" (Mt 27,25) era stata manipolata, come leggiamo nel Vangelo di Marco (Mc 15,11): "I sommi sacerdoti sobillarono la folla", quella folla che poi, seguendo Gesù al Calvario e vistolo morire, "ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava percuotendosi il petto" (Lc 23,27-48).
Non ha senso quindi attribuire responsabilità di colpa a tutti gli ebrei di Gerusalemme, e tanto meno agli ebrei di tutta la Palestina di quel tempo! Ed è ancor più assurdo il colpevolizzare gli ebrei di tutti i empi, in quanto "popolo ebreo".
Come interpretare allora le accuse, le gravi profezie di castighi, e perfino il pianto di Gesù sul destino che incombe su Gerusalemme? (Mt 21,43-46; 23,31-36; Lc 19, 43 ss.). "Senza il principio della responsabilità collettiva - scrive Mons. Carli - tutto ciò rimarrebbe un indecifrabile mistero!".
Tutti i testi che si riferiscono ai rimproveri, alle minacce, ai castighi incombenti, vengono spiegati ampiamente dal Cardinale: riguardano la gravità oggettiva della mancata accoglienza dell’Inviato del Padre, annunziato dai Profeti. E' la rivelazione della severità del giudizio di Dio su tutte le forze del male, "l'impero delle tenebre", sul "mondo", nel senso più volte affermato da Giovanni. "Anche qui, perciò, non è il fatto dell’appartenenza al popolo che caratterizza il giudizio, bensì l’agire in opposizione a Dio, ai suoi profeti, soprattutto a Gesù. Inoltre è da tener presente la tipica prospettiva profetica, secondo cui il giudizio su Gerusalemme è insieme tipo e simbolo del giudizio universale sul male e sulle potenze nemiche di Dio... E questo spiega la sua terribile realtà storica molto meglio di una supposta responsabilità o colpevolezza collettiva di tutto il popolo d’Israele per la crocifissione di Gesù". All’espressione "responsabilità collettiva" il Cardinale sostituisce, per rimanere nella mentalità biblica, la "solidarietà sociale e collettiva" nel bene e nel male: "Il fatto che il giudizio colpisce tutto il popolo suppone l’esistenza di fattori e legami sociali per cui vi è tra i capi e i membri di un popolo la comunanza di sorte nel bene e nel male, ma non propriamente una colpevolezza del popolo come tale".
Il Catechismo della Chiesa cattolica, del 1992, ha un vasto blocco relativo agli ebrei e all’Ebraismo, i paragrafi 574-500. Sintetizza e ordina il meglio dei documenti ufficiali, nella linea di quanto affermato dal Concilio.
Agli "esperti" - forse - tutto questo sembrerà ovvio, e anche superato, a distanza, di 32 anni dall’approvazione della Dichiarazione conciliare. Ma è necessario fare conoscere a tutti e approfondire questo "punto di partenza", che costò tanto lavoro e tante sofferenze al Cardinale Bea.
Note:
1 - Stjepan Schmidt: Agostino Bea, il cardinale dell'unità, Città Nuova 1987, pp.351-352.
2 - L'articolo fu poi pubblicato da Civiltà Cattolica nel 1982, vol.I, pp.430-446.
3 - L.Sestrieri - G.Cereti: Le Chiese cristiane e l'Ebraismo, Marietti 1983. Il volume riporta anche diversi commenti di rappresentanti ebrei alle prese di posizione della Chiesa cattolica.
4 - Il testo della Dichiarazione Nostra Aetate, come pure altri documenti citati nell'articolo, si possono trovare nell'appendice al volume di M.Pesce, Il Cristianesimo e la sua radice ebraica, Dehoniane 1994.




















DICHIARAZIONE
NOSTRA AETATE
SULLE RELAZIONI DELLA CHIESA
CON LE RELIGIONI NON-CRISTIANE
[per una sua interpretazione critica vedi qui l'annesso SAGGIO]
Introduzione
1. Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l'interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l'unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino.
I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l'intero genere umano su tutta la faccia della terra hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce.
Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo.
Le diverse religioni
2. Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso.
Quanto alle religioni legate al progresso della cultura, esse si sforzano di rispondere alle stesse questioni con nozioni più raffinate e con un linguaggio più elaborato. Così, nell'induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza. Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l'aiuto venuto dall'alto. Ugualmente anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l'inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri.
La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.
Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è " via, verità e vita " (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose.
Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi.
La religione musulmana
3. La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l'unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno.
Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà.
La religione ebraica
4. Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.
La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.
Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso. Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell'apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua razza: " ai quali appartiene l'adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne" (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine.
Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo.
Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata; gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia secondo l'Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e " lo serviranno sotto uno stesso giogo " (Sof 3,9).
Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo. La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell'amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.
Fraternità universale
5. Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio. L'atteggiamento dell'uomo verso Dio Padre e quello dell'uomo verso gli altri uomini suoi fratelli sono talmente connessi che la Scrittura dice: " Chi non ama, non conosce Dio " (1 Gv 4,8). Viene dunque tolto il fondamento a ogni teoria o prassi che introduca tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, discriminazioni in ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne promanano. In conseguenza la Chiesa esecra, come contraria alla volontà di Cristo, qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione. E quindi il sacro Concilio, seguendo le tracce dei santi apostoli Pietro e Paolo, ardentemente scongiura i cristiani che, " mantenendo tra le genti una condotta impeccabile " (1 Pt 2,12), se è possibile, per quanto da loro dipende, stiano in pace con tutti gli uomini, affinché siano realmente figli del Padre che è nei cieli .
28 ottobre 1965