cultura barocca
ESORCISMO/ ESORCISTA

SATIRA E ANTISATIRA - FRANCESCO BUONINSEGNI - ARCANGELA TARABOTTI

SATIRA E ANTISATIRA
All’altezza Serenissima di
VITTORIA MEDICI DELLA ROVERE
Gran Duchessa di Toscana
Serenissima Altezza,
perch’egli è abuso e scopo finale della maggior parte degli uomini il vilipendere e oltraggiare in ogni lor discorso e con ogni lor azione le donne, benché da esse riconoscano l’essere e la vita, Vostra Altezza Serenissima, ch’è la gloria del sesso donnesco e ch’accoglie in sé qualità celesti, oltre all’esserne ossequiosamente da me supplicata, non isdegnerà, per Sua benignità, mi persuado, difendere il proprio sesso, né sprezzerà la povertà di questo dono, che per glorificare me stessa porto su l’altare di queste carte per vittima al gran Nume del Suo nome. Che, se la Vostra modestia, o benignissima compagna indivisibile della vera virtú e grandezza, si compiacesse piú di meritare che di ricevere gli altrui ossequi sotto titolo di sacrifici, restate almeno servita ch’io per nome di tutto il sesso Vi comparisca inanzi con le presenti diffese del merito feminile, come a principessa di cosí vasta potenza e dominio che valerrebbe a difendere la giustizia di questa causa non solo contro il sig. Buoninsegni, ma anche contro il mondo tutto. E, perché m’è noto il livore di molti degli uomini contro le donne, chiaramente da me conosciuto ne’ loro scritti, stavomi sospesa s’io dovessi affidar questo parto del mio debile ingegno sotto la protezione di verun di loro, quand’ecco che la fama con rimbombante voce, esclamando strepitosamente gli encomi delle semidivine qualità Vostre, m’ha fatta correr subito riverentissima a ricovrare all’ombra della Vostra famosissima rovere d’oro gl’imperfettissimi tratti della mia penna. Conosco la mia temerità, a diffesa di cui supplico che sottentri quella real gentilezza, la quale è da ogni lingua acclamata in Voi per inimitabile, tanto piú ch’ella è stata il Dedalo c’ha impennate l’ali all’Icaro dell’ardimento mio, onde non ho da dubitar precipizi, ma sperar glorie, se Voi, novella Ester (già ch’a lei non sète inferiore nella bellezza, nella grandezza, nella bontà), ricupererete col mezzo della Vostra auttorità dai pregiudizi non meritati tutto il vostro sesso, sí com’ella intercedé la vita a tutto il suo popolo. A Voi però ricorro, semidea della Toscana, anzi dell’universo tutto, perché mi siate scudo contro ai colpi delle maligne dentature de’ mordaci. E chi sarà quel temerario ch’ardisca di mordere, quando a prima vista se gli farà inanzi la grandezza di tal difesa? S’ammuttiranno gli Aristarchi, taceranno gl’ignoranti, condonneranno i sapienti, e l’intesso sig. Buoninsegni avrà per gloria delle sue fortune l’esser contrastato da chi non è stata audace di comparir in canapo senza il patrocinio di quella gran donna, di cui egli tiene a felicissima sorte l’esser nato suddito e servo. Io fra tanto, se li ossequi miei saranno da Voi felicitati con un sol guardo benigno, andrò fastosa d’aver in questa contesa ottenuto a mio favore una gloriosissima Vittoria. Non isdegnate, dunque, o generosissima, di compartir l’aura della Vostra protezione a difendere la causa universale di tutte le donne che meritano e di perdonar a me in particolare, ch’umilissimamente Ve ne prego, gli eccessi della mia presunzione. Ma forse V’offendo col diffidar eccessi di benignità e di grazie in Voi, che sète un ristretto, anzi, per meglio dire, un immenso oceano d’ogni grazia. In Voi ha collocato Iddio le maraviglie della Sua onnipotenza, avendoVi fatta un epilogo di tutte le perfezioni e arricchita dei pregi maggiori che siano usciti dalla Sua divina mano. Oltre all’esser del sesso piú gradito al Cielo, sète nata dal piú glorioso sangue ch’abbia giamai illustrato il mondo e sète accopiata in nodo di matrimonio col piú degno regnante che maneggi scettro. Ma queste sono picciole stille del vastissimo mare del Vostro merito e delle Vostre grandezze, ond’io, timida d’ingolfarmi in cosí profondo pelago col debil legnetto del mio rozo discorso, lascerò che per me esclami eternamente nelle bocche di tutti gli uomini la fama. E che saprebbe dire d’un’infinità di sovraumane condizioni una penna inerudita guidata da un intelletto confuso nelle maraviglie? Niente al certo, mentre questa sarebbe materia da stancar la lingua e il braccio de’ piú famosi oratori e de’ piú rinomati istorici ch’abbia avuto o la romana o la greca eloquenza. Dirò, dunque, solo che Voi sète degna moglie di quel Serenissimo dominante, il minor accidente del cui merito è il titolo di grande, e qui, supplicandoVi d’un sol raggio d’ombra protettrice, m’offero di sempre pregarVi da Dio, con incessanti benché indegne orazioni, tutte quelle prosperità e grandezze che si ponno godere qua giú in questa bassa terra, sopra alla quale, inchinata, umilissima bacio a Vostra Altezza Serenissima le vesti.
Venezia, li 30 giugno 1644.
Di Vostra Altissima Serenissima
umile e divotissima servitrice,
A. T.
Per l’Altezza Serenissima di
VITTORIA
MEDICI DELLA ROVERE
Gran Duchessa di Toscana
DEDICAZIONE D’OPERA
Regina d’Arno, il cui bel pregio altero
Cresce a la Tosca insegna un altro mondo,
Poiché, di meraviglie il sen fecondo,
Hai fra donne regal l’onor primiero.
Dei duo tiranni a lo spietato impero,
Tempo distruggitor e oblio profondo,
Mentre fra l’ombre di tua quercia ascondo,
Questo mio parto di sottrar io spero.
Se a Giove sacra con l’età contende
Quercia volgar, quanto aver die valore
Quella che in sette mondi i rami stende?
Ah, che ’l bel nome tuo già vincitore
Suona Vittoria e perché ’l mio diffende,
Torna il crine regal civico onore.
ALL’AUTRICE
Scesa quaggiú ben sei,
O del celeste Amor sposa ed ancella,
Poiché nome hai d’A[rcangela]e sembiante
De’ sempiterni Dei
Da le contrade sante.
Ma s’ogni detto tuo sembra una stella,
Cosí le carte, ove i tuoi detti accogli,
Sembran cieli e non fogli.
D. G. B. S.
LO STAMPATORE
AI LETTORI
Se appresso gli Spartani furono lodati quelli che sapeano occultare i furti loro, gran biasimo meritarei io, ch’invece d’ascondere quest’operetta, che già rubbai, la porto alla luce del mondo. L’autrice, che la compose è la signora A[rcangela] T[arabotti]. Parlo di quella A[rcangela] che non seppe compor opre senza formar paradisi. Ella scrisse quest’Antisatira per servire al genio d’alcune dame, le quali conobbero e di poter avvantaggiosamente rispondere alla Satira del Buoninsegni e anco avanzarsi sopra tutti gli uomini col far comparire in scena le perfezioni di questa sol donna. Nondimeno ella sprezza questa sua composizione, perché avendo un ingegno divino non può che abborrire quell’operazioni che sono fatte per necessità. Io procurai di persuaderla perché la concedesse alle mie stampe, ma sempre la negò, facendo al contrario dell’altre donne, perché dove l’altre per cattivar affetto a’ parti loro con l’arte abbelliscono la natura, questa per naturalezza della sua modestia deformava l’artificio del parto per levarmelo dall’affetto. Finalmente, non avendo potuto ottenerlo con la persuasiva, mi sono ingegnato di rubbarlo a chi per gran fortuna aveva sortito di poterlo veder manoscritto. Né mi biasmar, lettor mio, perché io sono d’opinione che gli antichi constituissero Mercurio nume della persuasiva e de’ furti insieme a fine di mostrare che queste doi professioni devono star unite per aiutarsi scambievolmente conforme al bisogno. So che quando vedrà alla luce quest’opera ella si sdegnerà grandemente, ma spero che tu mi diffenderai, già che il motivo di questo furto è stato egualmente il desiderio d’onorar le mie stampe e l’affetto di profittarti. Se sentirai ch’ella mi procuri male, dichiarisciti a favor mio, perché alla fine il mondo vive piú obligato a chi palesa i tesori che a colui che li nasconde. Ho risoluto di ristampare con quest’occasione anco la Satira, perché mal potresti esser giudice di questa tenzone nella qual si tratta di condannar il lusso donnesco se non vedessi insieme il placito e le diffese. Gradisci, dunque, da me quest’operetta e godila sin che si stampino anco le altre sue composizioni; ma credimi che fra questa e quelle non vi è altra differenza se non che questa è un miracolo in picciolo e quelle saranno maraviglie in grande. Vivi felice.
SATIRA MENIPPEA CONTRO ’L LUSSO DONNESCO
di Francesco Buoninsegni

Donne, e voi che le donne avete in pregio,
Per Dio non date a quest’istoria orecchia
disse con iscusa mendicata alla sua maledicenza il poeta ferrarese per ischivar l’odio delle donne che contro si concitava per l’istoria che sapete. Io, condennato alla pena di biasimare i superflui ornamenti delle donne, per sottrarmi all’odio de’ lor cuori ed agli strali delle lor lingue, varròmmi per mia scusa de’ medesimi versi,
Donne, e voi che le donne avete in pregio,
Per Dio non date a quest’istoria orecchia
Un sogno d’infermo, un delirio accademico, una lamentazione d’ammogliati, stimate che sia questo discorso conceputo e partorito fra i bollori del mosto, alla cui nascita ha fatto l’offizio di raccoglitrice, non Lucina, che aiuta a partorire le donne, ma Bacco, che aiuta a sconciare gl’ingegni.
Il peso di questo biasimo è stato accettato da me, non eletto, ma tralasciato da tutti, potendo un solo con pochissimo danno e con leggerissimo pericolo contro le donne favellare. Poco importa che un ingegno disutile al pericolo dell’iracondia donnesca si sottoponga. Per oggi ho da esser io la vittima consacrata allo sdegno di queste dame. E pure (ben lo sapete) non è sdegno che pareggi lo sdegno delle donne. Lo disse il gran savio che, impazzito per amore, per le donne idolatrò. Pure per loro servizio l’ho volentieri accettato. Qualsivoglia altro a questo carico eletto, avendo l’intendimento di me piú grande, averia detto e fatto peggio. Io, che ho picciolo l’ingegno, non farò molto male, e, se pure le ferirò, sappiano che le mie armi sono innocenti, sono come l’asta d’Achille, feriscono e risanano in un punto; perché i ferri degli accademici, che eternano con i loro detti i nomi altrui, riprendendo giovano e nell’atto medesimo che feriscono portano seco le chiare per ristagnare il sangue delle piaghe che fanno. Quelle donne che, per isperienza de’ propri mali compassionevoli dell’altrui, s’impiegano nelle onorate ambascerie d’amore, non hanno membro piú gagliardo, machina piú violenta per piegare il cuore delle giovani, che le gemme, l’oro, e le vesti. La favola di Cefalo e di Procri appresso Ovidio, la novella del vaso nell’Ariosto, e finalmente la nostra Rafaella non mi lassan mentire. Questa, ch’è stata la Sibilla degli amanti, i cui oracoli al pari di quelli della dea Temide sono anco dalle donne stimati, ammaestrando un giorno la sua Margherita alle piacevolezze d’amore, non seppe con argomento piú efficace invaghire il cuore di quella giovane che col persuaderle la vanità del vestire. Questa fu la prima lezione con la quale quella saggia maestra addottrinò l’animo inesperto di quella donna. Sotto le belle vesti le pose il dardo d’Amore e dentro questo calice d’oro le porse a bere le prime stille del suo veleno.
Io non dico che il lusso sia lussuria; ha bene osservato un sottil grammatico, facendo i latini per i participi, che la parola lusso è la metà della parola lussuria. Pure se il lusso non è rio, non è lussuria. Taccia la Rafaella. Taccia il grammatico. Questi, goffo pedante di Minerva, e quella, sciocca pedantesca di Venere, non se n’intendono. Amore vuol sodezza; la vanità è sua nemica capitale. L’ozio è padre d’Amore.
Ei nacque d’ozio, e di lascivia umana,
disse colui. E ’l maestro degli amori non disse anch’egli
Se togli l’ozio è senza strale Amore?
Mala nuova per gli amanti: le donne occupate un anno intero dietro una acconciatura di testa non hanno ozio di far l’amore.
Ma è vanità il credere di dissuadere alle donne la vanità del vestire, se prima non le spogliamo dell’ignoranza. S’adornano elleno le membra di questi lor superbissimi paludamenti, quasi tanti soli alla porta dell’Oriente,
Per accrescer adorne
Di celesti splendori
Lume al sol, gioia al mondo, e fiamme a’ cori
e non conoscono quale oscura nuvola d’ignoranza loro adombra l’intelletto.
Che pensate voi, leggiadrissime dame, sieno queste vesti pompose che tanto affascinandovi l’alma, vi lusingano gli occhi? Altro non sono che illustre testimonianza della vostra schiavitudine e meritata pena dell’antico peccato. La colpa che spogliò i nostri primi parenti della veste dell’innocenza aprí loro ancora gli occhi alla nudità delle membra. L’aria avvelenata dal fiato del dragone infernale incrudelí contro i trasgressori del divino comandamento. Quindi la vergogna della propria nudità e l’inclemenza del cielo indussero la necessità del vestire. Oggi il fasto femminile ha cangiata la necessità in superbia e la donna, gloriandosi nell’insegne del suo servaggio doppiamente colpevole, ha convertito in trionfo del suo lusso il gastigo del suo delitto.
Queste vesti sono intessute di seta, che altro al fin non è che vomito e sepolcro d’un verme. Lo disse il nostro poeta nel sonetto sopra il verme da seta:
Questo del fasto altrui gravido seme,
Animato tesoro, atomo vivo,
Di donzella gentil nel sen lascivo,
Dove folle altrui muor, nascer non teme.
Pasce al par sé di foglie e l’uom di speme,
Dorme e veglia talor de gli occhi privo,
Fabbrica la sua tomba e semivivo
Arricchisce l’essequie a l’ore estreme.
Pargoletta fenice al fin rinasce;
Quindi de le sue spoglie industre mano
Tesse serici ammanti e regie fasce.
Or perché tanto insuperbisce in vano
Ambizioso il cor, se solo nasce
Dal sepolcro d’un verme il fasto umano!
Quindi la donna altro non è che un verme che rode il cuore agli amanti, un vomito delicato della natura, ed un sepolcro indorato de’ cuori umani.
Queste sete tinte col sangue innocente degli animali sono tutte avvelenate. Sono la spoglia ricamata di Deianira, avvelenata col sangue del centauro. Questa sola è la differenza fra queste e quella, che quella avvelenava solamente chi con essa si copriva e queste non uccidono le donne che le portano (che saria manco male) ma i mariti che le fanno e gli amanti che le mirano. Quanti, fulminati piú dallo splendore de’ panni che da’ raggi degli occhi, si invaghiscono piú delle vesti che del volto delle lor dame? Le adorano nelle chiese, le seguitano per le strade, le corteggiano nelle piazze, le servono ne’ festini, fanno loro tutto il dí innanzi e indietro la carrozza il palafreniere, e poi, quando se n’entrano in casa per ispogliarsi le vesti (che pure allora il servirle fino in camera sarebbe il compimento della lor servitú), alla soglia della porta scortesissimi l’abbandonano. Querela spiegata eroicamente da una poetessa sdegnata in un suo leggiadrissimo madrigalone che dice
Contro gli uomini ognuna armi lo sdegno,
Che loro solo bramano
Veder le belle vesti e noi non amano:
Ad ispogliarne il guscio
Di queste belle vesti,
A la soglia de l’uscio
Fermati in un cantone,
Ci fanno un bel piantone.
Quest’è pur chiaro segno
Che, se sono cosí pronti a lasciarne,
Amano in noi le vesti e non la carne.
Or, che diremo della varietà di tanti colori? Veramente in questo le donne tradiscono lor medesime e la propria bellezza. Dice il proverbio
Il liscio de le donne è il color nero.
Come? Il simbolo della morte sarà la vita della bellezza? Signor sí, percioché il nero, che è congregativo della vista, abborrendo l’occhio di riguardare in quell’oggetto funesto, tutta l’unisce in rimirare il volto solo; dove che, disgregandosi la vista nella varietà degli altri colori, scapita il volto, che non ha tutto il tributo degli altrui sguardi. Se, dunque, la donna è piú bella vestita a bruno che di colore, saranno gli acquisti delle sue bellezze le perdite dell’altrui vita.
Ma si conceda alla donna, creata per ristoro de’ travagli dell’uomo, l’adornarsi lei sola da capo a’ piedi. A che conto con una donna di carne vestire ancora una mezza donna di legno? Io non biasimo la grandezza delle pianelle. Questo non è carico mio. Faccianle tanto grandi che siino principesse e meritino dell’Altezza. Poco importa. Ma non istà bene con tanta spesa vestire un legno insensato, che la metà meno di broccato vorrebbe il sarto se non vestisse se non la carne. Fate, fate che la coda delle vesti arrivi, ma non passi giú il capo delle pianelle, e poi fatele alte quanto una picca.
Sarà pure un spettacolo divino
Vedervi, alzate a mezza gamba un giorno,
Far, con le vesti di broccato intorno,
A due gambe di legno il baldachino.
Or qui sí, signori, che io dubito che la nave del mio ingegno non sia per rompersi e far naufragio, non nello stretto di Messina fra Scilla e Cariddi,
Ma nel mar de lo sdegno
Fra due scogli di legno.
Eh, che le donne sono piacevoli, non ci è pericolo di rottura. E poi la mia è la nave d’Ulisse; passerà sicura fra lo stretto di questo faro. Dubito, però, che, se io navico nella nave, queste signore non abbino alle orecchie la cera d’Ulisse. Hanno le orecchie di mercatante; sturiamogliele meglio, già che i gravissimi pendenti che portano non fanno a bastanza l’offizio loro, tirandogliele giú col peso, di tenergliele aperte. Delle pianellate io son sicuro, né temo di provare come sien sode, sapendo come son grandi; perché sono sí gravi che hanno piú vigore nelle gambe per istrascinarle che forza nelle braccia per avventarle.
Senz’altro che le donne si trasformeranno una volta tutte in alberi e ci sarà bisogno d’un nuovo Ovidio Nasone che le serva con una buona gionta alle Metamorfosi. Già il terzo del lor corpo è di legno. Tutte le metamorfosi di coloro che si sono in alberi trasformati hanno cominciato non dal capo ma dai piedi. Sentite fra l’altre la trasformazione di Driope:
E nel girar del corpo e de la testa
Sente che una radice il piè gli arresta.
D’alzar pur ella il piè si prova e sforza,
Ma comportar nol vuol l’avida terra;
Già il nuovo legno e l’importuna scorza
Le gambe in un troncon nasconde e serra.
Essendo a poco a poco cresciuta ed arrivata fin alla bocca la natura del legno, disse:
Dolce consorte mio, madre, e sorella,
Da me prendete l’ultimo saluto,
Che già mancar mi sento la favella
Per l’arbore che troppo è in me cresciuto.
Se ora avanti gli occhi vostri una di queste signore si trasformasse in albero con tante belle vesti, con tante collane, non parrebbe appunto il platano della Lidia col manto reale e col diadema d’oro pazzamente incoronato da Xerse? Se veramente ora si scorgesse una di queste metamorfosi, crediam noi che tutti i capelli che hanno in capo si cangiassero in frondi? Io per me non lo credo. Quante chiome posticce che non participarebbero dell’anima vegetativa! Venga in iscena il Satiro del Pastor fido con la chioma in mano, non di Corisca, ma d’un cadavero spogliato nel sepolcro; ed a chi non lo crede ne faccia fede! Ma il mio discorso a guisa di uccello è saltato tanto lestamente da’ piedi al capo, di palo in frasca su le cime degli alberi, che senza avvedermene gli ho lasciati con le pianelle scoperte. Si ricuoprino pure, si circondino con un baluardo d’oro e di seta questa fortezza di legno che, andando a spasso per le strade dove si giuoca alla palla, non intervenga a qualcheduna di queste signore la disgrazia del Colosso di Nabucodonosor, Re di Babilonia. Se bene, essendo queste pianelle d’oro e d’argento, si potria dire che le donne fussero quella statua a rovescio con i piedi d’oro e col capo di legno. Come col capo di legno? Quel mento d’avorio lavorato al tornio di Minerva? Quella bocca, trono del riso, che ne’ denti è un’armonia di Paradiso? Quel naso, che è la torre, non di Davide ma di Babel, nelle cui lodi si confondono le lingue de’ piú lodati oratori? Quelle guance di rose colorite, piú che dal piede di Venere, dal sangue di mille cuori? Quell’orecchie, che sono due laberinti d’Amore, ove si perdono le preghiere degli amanti? Quegli occhi, che sono un epilogo, una quinta essenza delle stelle distillate da Esculapio? Quelle ciglia, che sono due Iridi vestite a bruno per la morte della maraviglia lor madre? Quella chioma, che è la sfera del Sole filato per le mani delle Grazie? E, finalmente, quel volto tutto, che è una linea e una pennellata della Divinità? Queste cose di legno?
Queste cose di legno, signori, no; il capo della donna, signori, sí. Non è il capo della donna quello che se gli scorge sopra il collo. Il capo della donna è l’uomo, capo veramente di legno a comportare che l’oro e l’argento, scavato col dispendio di tante vite dall’umana avarizia fin dalle viscere dell’inferno, sia condannato sotto i piedi di una donna, sottoposto all’infortunio miserabile de’ vasi d’oro di quella gentildonna romana de’ quali chi avesse curiosità di saper la disgrazia la dimandi a Marziale, che gliela dirà in quel facetissimo distico che dice
Ventris onus misero (nec te pudet) excipis aero
Bassa . . . . . . . . . . . . .
Mi sono scordato dell’altro. Se alcuno di questi signori che mi ascoltano lo sa, faccia grazia di dirlo; ricompri per vita sua l’onore della mia memoria ed avanti queste signore, che volentieri l’ascolteranno, reciti di quel bellissimo distico il verso pentametro.
Ora scostiamoci da queste statue co’ piedi d’oro, che se rovinano non ci caschino adosso, e ritorniamo a riposarci sotto i nostri alberi. Se bene faranno poc’ombra per la scarsità delle frondi, nelle quali ho detto che non si sarebbero trasformati tutti i capelli. Ier mattina un gentiluomo mio amico, chiamando la cameriera, gli disse la moglie: "Lassatela stare. È in camera, che assetta il mio capo. Son invitata per domenica all’Accademia; voglio andarci con una acconciatura di testa nuova e bizzarra". "Andate pure" disse il marito, "almeno quegli accademici ve la lavassero". "Di questo" replicò ella, "non ci è pericolo, perché quegli accademici non san dire se non bene. In questo genere del dir male, i loro parti sono sconciature; lassano questo offizio a’ cortigiani, che hanno la maledicenza per lor quinto elemento". "È vero" disse il marito, "ma voi, signora consorte, ditemi per vita vostra, quanti capi avete voi? O voi siete la Idra d’Ercole o, stando meco, avete il capo altrove". Ed in questo dire, entrato in camera, trovò la cameriera che con una attrecciolatura di perle orientali stava fasciando alcuni cenci ed un legolo di canape. Attonito a quella vista, il marito, come se avesse veduto il capo di Medusa, "Veramente questo" disse, "ci mancava, che il prezzo di cento moggia di grano, che per mantenere le vostre vanità ho preso quest’anno a Checchi e a Marchi, che poi volendolo vendere fra il mio bisogno e l’abbondanza della città, l’abbiamo venduto a due miserabili carlini lo staio, che il prezzo, dico, di tanto grano sia malamente condotto a vestire quattro palmi di cenci!".
Catone, quel gran Censore delle pompe romane, allora stimò che Roma fusse vicina all’ultima rovina, quando intese che tanto si era venduto un pesce quanto un bue. Oh povero Catone! E che diresti se venissi in questi tempi e vedessi non una triglia, che pur si mangia, ma un’anguilla di cenci in testa della mia moglie valere il prezzo di cento bovi? In vero, che cotesto legolo di canape farebbe meglio l’offizio impostogli dalla natura che quello al quale voi l’astringete con l’arte, se servisse non per ornamento, ma per rimedio del vostro poco cervello.
Le perle e ’l sale nascono d’un medesimo padre: ambedue son figli del mare. Sta bene. Chi non ci ha sale ci mette perle; e chi non ha nel cervello cosa alcuna preziosa va rimediando di fuore al mancamento di dentro. Disse bene il nostro poeta a questo proposito:
I corpi delle donne
Che corrono alla festa
Con cosí ricche gonne,
Con tante gioie in testa,
Son cappanne di fieno,
Coperte con pazzissimo lavoro
Da tegole di perle e docci d’oro.
Il capo delle donne con tante belle figure mi sembra appunto un mazzo di carte da giuocare. Parallelo aggiustatissimo. Domandatene a questi signori che giuocano e vi diranno (massime quando perdono) che le carte (vi aggiungo io) e le donne hanno il cervello di cenci. Ed il vostro in particolare non sarà una di quelle figure che chiamano il Mondo e le Trombe, ma quella che si chiama il Matto de’ Tarocchi. Volete forse in questo mazzo di carte i quattro semi? I danari ci sono, ma spesi malamente in tante gioie. Le spade non ci mancano; ogni donna per somigliarsi a Pallade, dea della sapienza, che è armata, ci vuole la sua spadina d’argento. I bastoni li portano nascosti sotto i ciuffi, ma, se non gli veggono gli occhi, li provano le casse bastonate dalle lor vanità. Onde disse il poeta piacevole:
La donna muor se non ha sempre tutto
Del suo marito addosso il capitale,
Ond’è che questo e quello è mal condutto.
Cioè dalle bastonate che dà loro il capo duro delle mogli. Delle coppe poi alle donne non ne mancano. Altro non fanno che attaccar coppe alle borse de’ mariti per succhiar loro quel poco di sangue che ci hanno. E chi giuocasse con le carte francesi, miri in testa di queste dame quanti fiori, ma toccati dalle mani del Re Mida. I cuori ci stanno imprigionati a dozzine; ogni capello tiene impiccato il suo. Le picche ci sono, e lunghe bene. Quanti amanti se ne piccano e, perché sono le picche lunghe, non ci arrivano mai? De’ mattoni alle donne non ne mancano; tutte danno il mattone al marito. Le mosche e le donne non entravano a’ sacrifici nel tempio d’Ercole. Le mosche per istinto di natura; le donne per legge del Cielo. La cagione delle mosche non fa a nostro proposito, se non in quanto la natura medesima e ’l Cielo ci avvertiscono che è poca differenza fra le mosche e le donne e che il proverbio di pigliar le mosche per aria è proprio loro. La cagione delle donne è questa. Il simolacro di Ercole, giunto alla vista di Chio, non poté con tutte le funi dell’isola esser condotto nel porto. Interrogato di questa sua resistenza, rispose che voleva esser tirato con una fune tessuta di capelli di donne. Non avendo elleno l’usanza di queste chiome posticce, andando per le strade scapigliate per leggiadria, non glieli vollero dare. Cosí per mantenere la bellezza ricorsero all’impietà e stimarono piú un capello che un dio. Né furono fuor di ragione; il piú bello ornamento delle donne è il capello. Le ninfe, le dee non si pregiavan d’altro.
Erano i bei crin d’oro a l’aura sparsi
disse colui. A che adulterarlo con tanti cenci, con tante ciance, benché preziose?
Carilao, bellissimo giovine ateniese, interrogato perché nutrisse la chioma (sentite ed imparate risposta da uomo, vano sí, ma di vanità giudiziosa): "Perché" disse, "questo è ornamento mio proprio che non mi costa". E voi, signore dame, avete gli ornamenti vostri propri, che non vi costano, e li guastate con la spesa?
Or, che diremo di quelle, che essendo vecchie ed avendoli bianchi, li tingono? Queste ingiuriano la vecchiezza, che almeno nel fin degli anni spiega loro nel crine l’insegne dell’innocenza. Pure queste candide insegne, facendo l’offizio di quegli stracci che si mettono nelle ficaie per spauracchio agli uccelli, scombuiano gli amanti
Ed a canuto e livido sembiante
Può ben tornar amor, ma non amante.
Oracolo di Corisca. E ’l nostro poeta, vedendo una mattina la sua dama, che per la fretta d’uscir di casa non si era tinta al suo solito i capelli, non la lassò dicendole:
Già sovra l’alpi del tuo bianco crine
De’ piú fredd’anni incanutisce il verno;
Già sparir primavera e già discerno
Languir le rose e irrigidir le spine.
Fa ’l tempo di tue glorie alte rapine,
Copre il mio grave incendio un gelo eterno;
Cosí per mio conforto e per tuo scherno
Qui del mio strazio e del tuo fasto è ’l fine.
Tempo già fu (ahi! che in pensarlo ancora
Sospira il cor) che idolatrò mia mente
Di tue bellezze alla nascente aurora.
Or su l’altar di questo seno ardente
Non piú vittime avrai che non adora,
Se non folle idolatra, il sol cadente.
Le donne, che conoscono questo loro disavantaggio con gli uomini, per tenere in fede gli amanti se gli tingono. E veramente con ingegno superiore all’umana condizione (alla barba degli alchimisti che soffiano tutto l’anno nel fuoco per incenerire l’ali al fugace Mercurio) con ingegnosissima alchimia fissano in oro ondeggiante l’argento vivo d’una chioma canuta.
Le vanità degli ornamenti donneschi (come tutte le altre di questo mondo) altro non sono che ombra. Il crescimento dell’ombra è indizio che ’l sole delle vostre bellezze, gentilissime dame, tramonta fra le ombre delle vostre pompe superflue:
Senz’ornamento è ’l sole,
Son semplici le stelle:
Le vostre vanità vi fan men belle.
E forse che gli sciocchi non istimano piú le vesti che l’animo? Le piú ben vestite son tenute le piú virtuose. Sciocca cosa dalla lunghezza dell’ombra fare argomento del valore d’un corpo. Signori, il discorso è finito senza aver data pure un’occhiata allo specchio ed al liscio, principali stromenti delle pompe donnesche. Segno evidente che ’l mio discorso non s’è lisciato né specchiato con il liscio dell’artificio allo specchio dell’eloquenza. Conveniva che il discorso contro le pompe comparisse senz’ornamento.
Quindi per avventura non averò persuaso. Non m’apporta ciò maraviglia; la causa è disperata. Il ventre non ha orecchie: proverbio antico contro la gola. Le vesti non hanno orecchie: proverbio nuovo contro le pompe. Bisognerebbe che io avesse la voce d’Orfeo per animare queste vesti insensate. Dubito bene che lo sdegno di queste dame farà che, se io con Orfeo non ho comune la voce, abbi comune la morte. Vorrei con loro far la pace percioché io mi reputo piú sicuro fra le furie infernali che in mezzo a due donne sdegnate:
Orfeo col proprio scempio
Me n’addita l’esempio.
Servito da sassi, onorato dalle piante, seguitato dalle fiere, ammirato da’ mostri, riverito dalle furie, scampato da Tesifone e da Megera (gran cosa!), fu lapidato dalle donne di Tracia. Le pietre, animate pur dianzi dal canto, nelle mani di quelle donne, ritornando alla propria natura ingratamente crudeli, diedero la morte a colui dal quale avevano poco prima ricevuta la vita. E quella voce, che ammutolí i latrati di Cerbero, che, esaudita nell’Inferno, contro le leggi delle Parche annodò il filo d’una vita già da esse troncato, che, cancellando la sentenza di morte de’ giudici severissimi dell’ombre, ammollí i cuori di Minosso e di Radamanto, indurando gli animi di quelle donne, morendo, fece al mondo eterna testimonianza esser piú placabile l’Inferno che un cuor di donna.
Or dove, se non per fuggir l’odio, che poco importa, almeno per assicurarmi dalle percosse ricovrarommi? Gli allori d’Apolline non son sicuri da questi fulmini. Anzi l’alloro, che fu già donna, per compiacere al suo sesso, presteragli i suoi rami per fabricarne gli strali.
Sia, dunque, Serenissimo Gran Duca, l’altare della vostra grazia il ricovero del mio ingegno, il refrigerio del mio discorso.
Da l’odio de le donne i nostri ingegni
Sotto i tuoi regi allori, o Sol toscano,
Si ricovrino a l’ombra e spenti siano
Nel mar de le tue grazie i loro sdegni.
IL FINE











ANTISATIRA
di Arcangela Tarabotti
in risposta al
LUSSO DONNESCO, SATIRA MENIPPEA
del signor Francesco Buoninsegni

LETTORE
Non mai, o di rado, o pur fuori di tempo, i curiosi componimenti degl’ingegni moderni capitano alle prigioni feminili, ond’è avenuto, che ’l Lusso donnesco satira del signor Francesco Buoninsegni, già cinque anni sono dato alla luce delle stampe, solo a’ giorni passati mi sia arrivato alle mani, resomi da alcune gentildonne, ch’instantissimamente mi pregarono a servirle della risposta. Io, come donna, che per genio e per debito nutrisco altri pensieri nel capo che risponder a satire o a componimenti profani, negai con la maggior resistenza possibile di farlo, oltre che ritennemi il dubbio o, per dir meglio, la certezza di dover incontrar nella derisione degli uomini, per aver ritardato un lustro intiero la risposta. Ma che? Bisognò infine ch’io mi dessi pur vinta e incontrassi con l’esecuzione i prieghi di chi dovea e potea commandarmi, non ostante che la mia mortificazione fosse grande. Cosí ottennuto quasi che inviolabil giuramento di queste illustrissime signore, che mai non avrian lasciata capitar sotto gli occhi di veruno del sesso maschile la presente mia composizione, fui necessitata a gettarmi dietro le spalle ogni rispetto e rincorar me stessa con quel detto comune e volgatissimo, piú tosto tardi, che mai. M’acerto che alcuni uomini non potranno, se non mendacemente, dire ch’io formi un Lusso virile, o una Contrasatira, per isdegnosa vendetta, mentre vivo lontana da servirmi di quelle pianelle, di quei lisci, e di quegli abbigliamenti che vengono da questo degno scrittore, piú con sentimento appassionato che con sincera verità, detestati e biasimati nelle donne. Oh, se tutti considerassero a quei travi che portano negli occhi, non additerrebbero con biasimi e disprezzi la festuca in quelli del loro fratello. Voglio inferire che, se questo bell’ingegno si fosse senza parzialità e con indifferenza applicato a rimirare i superflui adornamenti non meno del virile che del feminil sesso, non si sarebbe dato a far apparir numerosi i piccioli errori d’una parte e a diminuire i gravissimi eccessi dell’altra. So, oh lettore, che sei gentile e ornato d’intelletto, che sai conoscere, distinguere, riffiutare, e comprobare, e, perciò, pregoti, se sei uomo, a non interpretar sinistramente, se t’avenissi in qualche senso ch’avesse troppo del libero. Sappi ch’io sto, come si suol dire, sul pontiglio di rispondere che, se bene la Divina Legge ordina al buon cristiano che, ricevuta una guanciata, offerisca la gota non offesa alla seconda percossa, ad ogni modo in qual si sia occorrenza è sempre azion biasimevole l’esser primo ad offendere. Se ’l signor Buoninsegni si sentirà pungere, essendo gentiluomo prudentissimo, non doverebbe sdegnarsene, sapendo che ’l motivo viene da lui, né potrà giamai credere ch’io parli con livore per offenderlo, ma bensí con verità per diffendere il mio sesso a torto oltraggiato dalla sua penna per altro celebratissima. E io prima di rispondergli gliene chiedo perdono, cosí meritando le sue dignissime condizioni. Con prudenza grande gli Egizi per geroglifico dell’invidia esposero la coturnice, uccello c’ha per istinto naturale, d’allor che s’aviene a bevere di qualche acqua limpida e pura, adoprar ogni forza col rostro e coi piedi per intorbidarla acciò gli altri uccelli sian privi di gustarla. Cosí apunto questo signore, doppo aver abbeverato l’intelletto suo alla chiarissima fonte del merito delle donne e conosciute le pure e candide lor qualità, acciò che sia tolto agli altri uomini il disetarsi la mente nella considerazione d’onde cosí limpide, ha col rostro della lingua acuito e con piedi d’interessati concetti procurato di contaminare la purità delle prerogative loro. Tu non ascoltare i di lui detti, né credere ch’io, trasportata dalla forza d’alcun interesse o passione, mi sia data a rispondergli. T’è noto che i commandi de’ grandi ponno il tutto. Assicúrati, inoltre, che non professo altro sdegno contro gli uomini che quello che m’è stato svegliato nell’animo dall’aver letto nella Sacra Scrittura che delle prime parole ch’uscirono dalla bocca al primo di loro, benché poc’anzi fosse stato creato dalla mano di Dio, furono in accusa della donna. Da questo successo, argomento ciò che si possa credere degli altri, che del rimanente (lodata pure la misericordiosa e giustissima volontà divina) non mi trovo in istato di praticarli o d’isperimentare le loro malvagità. Molte cose mi sono state insegnate dalle relazioni dell’innumerabili tradite, assassinate, mal compatite, abbandonate, e posso dir, annegate, invece di maritate. Gli scrittori antichi, benché fossero uomini, ne lasciarono, anch’essi vivacissimi esempi, e ora le mie proprie orecchie, dalla bocca stessa di queste infelici legate in nodo di matrimonio, sentono le querelle e doglienze delle crudeltà, estorsioni, tirannie, impietà, e infedeltà de’ scelerati mariti, le quali impietosirebbero l’Inferno. Ti prometto, dunque, se le mie gravi indisposizioni lo permetteranno, di edificare in breve sui fondamenti delle rifferitemi infelicità di queste misere, il Purgatorio delle malmaritate, già ch’ho fornito l’Inferno monacale. Se fra tanto udissi mormorar di me, difendi la giustizia della mia causa, ché, oltre che farai ciò che devi, non te ne mancherà premio in Cielo da Dio.
ANTISATIRA
d[i] A[rcangela] T[arabotti]

Non potean già meglio l’Ariosto e ’l sig. Buoninsegni far conoscere chiaramente il rimorso delle loro conscienze nel biasimare il feminil sesso, quanto che l’uno, dando principio a quel suo mendacissimo canto, e l’altro alla sua Satira contro le donne, con quei versi,
Donne, e voi che le donne avete in pregio,
Per Dio, non date a questa istoria orecchia.
Quegli fa sparlare un taverniere di costumi sempre eguali alla sua poco onorata professione, e per lo piú alterato dal vino, e questi di propria bocca confessa il suo Lusso donnesco esser un sconcio aborto generato dalla sua mente, nato fra i bollori del mosto, e raccolto da Bacco. S’argomenti se quel gran poeta e questo indeffesso nemico delle donne conoscano di meritare d’esser da tutti biasimati, mentre supplicano le medesime e chi professa di riverirle a non prestar udienza alle loro ciance. Io poco dilungandomi dal loro modo di principiare dirò
Donne, e voi che gli amanti avete in pregio,
Date vi prego a questa istoria orecchia,
Mi bisogna, però, sul bel principio confessare che ’l sig. Buoninsegni sia un ingegno quanto dotto, altretanto modesto, poiché, partorendo la sua composizione e conoscendola una sconciatura, subito le dà nome di delirio accademico, di sogno d’infermo, e di lamentazione d’ammogliato. Che nel presente secolo la maggior parte degli accademici ragionamenti meritino titolo di pazzie non che di deliri, non sapendo eglino discorrere di materia che vaglia se non offendono quel sesso ch’è la gloria del mondo, non v’ha chi dubiti. Gl’infermi non sognano che cose orribili. E qual accidente piú orribile può esser imaginato dall’intelletto nostro non che praticato dagli occhi, quanto che ’l sentir quell’uomo, che pure ha avuto la vita dalla donna, a biasimarla, e tacciarla sino nel vestire, non raccordevole che gli abusi del mondo sono in guisa ampliati e dilatati, ch’anche gli uomini sono arrivati a farsi lecite quelle vanità che del continuo spreggiano nel sesso donnesco, sí ch’a nostri giorni si può liberamente dire vanitas est omnis homo. I sogni, inoltre, hanno per padre il Sonno e per madre la Notte, fra l’ombre a punto della quale Esiodo finge che nascesse il maledico Momo, ch’ha suggerito al signor Buoninsegni questi sentimenti contro il merito del sesso feminile. Non essendo poi altro le lamentazioni degli ammogliati che follie, anzi sceleragini di coloro che, doppo aver con studiati mezzi procurata una ricca dote, si dolgono poi di dover far le spese necessarie per quelle c’hanno fatto loro conoscere d’esser cosa preziosa, portando seco quantità di tesori; se prima ch’arrivassero ad ottenerle in mogli si professavano di loro ardenti e amanti, ora vorrebbero ch’elle vestissero all’uso della nostra prima madre, per piú agiatamente poter scialacquare in adornar le meretrici, da che nascono quei lamenti che cosí sovente assordano l’aria in detestazione degli abiti e pompe donnesche. Orsú, signor Francesco, sin qui siamo d’accordo e, se proseguirete a non allontanarvi dalla verità piú di quello ch’abbiate fatto in confessar il vostro discorso per un delirio accademico, per un sogno d’infermo e per una lamentazione d’ammogliato, invece di meritarvi i titoli di bugiardo e maledico v’acquistarete quelli di giusto e veridico. Che del rimanente poi, s’accetaste il peso di biasimar le donne e non l’elegeste, escusatemi, vi faceste conoscere per un ingegno di soverchio flessibile, col far simile azione a sodisfazion d’altri, forse contro il vostro proprio genio. In questo vostro discorso, però, a cui date nome di delirio accademico, non v’è mancato tanto di saggia cognizione che non abbiate previsto il pericolo a cui v’esponete, ché, se fosse stato altrimenti, la vostra prudenza si sarebbe sottrata dall’esponervisi, com’anche vi sète avveduto dell’ingiustizia delle vostre ragioni, confessando che poco o nulla ponno pregiudicare a chi ha ottennute tutte le grazie desiderabili da Dio e dalla Natura. Il pericolo è poco, anch’io il conosco, perché gli animi grandi e nobili, come sono i feminili, deridono, non vendicano i disprezzi di chi li offende. Il pericolo è poco perché non sdegnoso, come asserite, una benignissimo e indulgente fu e sarà sempre il sesso feminile. Il pericolo finalmente è poco, poiché le donne dalla malignità degli uomini sono state private dell’armi e delle lettere con le quali potrebbero giustamente vendicarsi. Non vi dubitate, no, signor accademico delirante, di dover esser la vittima consacrata allo sdegno delle dame, se non conoscete, però, d’esser olocausto a proposito da offerirsi alla deità della bellezza, a cui si sacrificavano le colombe. Non dubitate, no, vi torno a replicare, che le donne, da voi confessate degne d’altari, non ambiscono vittima che, pregiudicando alla loro modestia e bontà, detesta, non ch’altro, le loro vesti, le quali non servono alla beltà feminile se non come un velo alle cose sacre per fomentare il decoro di lei e l’altrui divozione. Non è maraviglia che Salomone amplificasse lo sdegno donnesco, poiché, avendo egli tante femine al suo piacere, quante vengono mentovate dalla Sacra Scrittura (Nonoginta sunt Reginae, et trecentum Concubinae), conoscendo esse di non poter esser niuna di loro perfettamente amate, giustamente inviperite gli dovean far provar i fulmini de’ loro ragionevolissimi sdegni. Se voi mo ambite di voler incontrar l’ire delle donne per farvi conoscer simile al sapientissimo degli uomini, guardate che vi mancheran poi le regine che vengano dall’estreme parti del mondo solo per vedervi. Ma, perché forse vi sète avveduto di non poter esser un perfetto Salomone, vi basta di palesarvi per un Achille, che invece dell’asta guerriera si serva della lingua, con cui asserite di poter ferire e sanar ad un punto. Ferite pure, ch’ad ogni modo, com’ho detto, questi colpi poco si curano dalla fortezza feminile, ma guardatevi, che già che la vostra lingua è un’asta, non rimanga rintuzzata o spuntata nell’animo adamantino delle donne, o pur respinta non ritorni a riportar in voi stesso la ferita. Defixerunt linguas suas adversus se ipsos tamquam gladium fu detto di qualche mala lingua. L’apportar poi in prova dell’opinione sue che le ambasciatrici d’amore stimino ottimo mezzo a dirocar la fortezza della feminil pudicizia le vesti, l’oro e le gemme è un argomento indegno d’uscire dalla penna del secretario d’un principe, gli splendori del cui merito fanno parer orrori i lumi delle glorie degli Alessandri, e de’ Catoni, e de’ Cesari.
Quella ch’arriva a lasciarsi capitar inanzi una portatrice d’amorose ambasciate, come dice uno degli autori da voi citato,
O non è donna o, s’è pur donna, è sciocca.
Se poi lasciarà persuadersi da quattro cenci di seta, da una feccia della terra impallidita, da un ghiaccio indurito, anzi, da tutti i tesori che possano dispensare le piú preziose minere dell’India, non solo non piú merita il glorioso titolo di donna, ma deve chiamarsi il vilipendio e disonor delle donne. E voi, signor Buoninsegni, sète cosí, quasi ho detto audace, ch’osate di proferir simili improprietà alla presenza di dame nobilissime? Se n’usciste illeso date grazie a quell’Altezza Serenissima, che da voi invocata con l’ombre protettrici vi coperse. Ma lo sdegno de’ numi, doppo d’essere stato longamente sopito, alla fine poi fa sentirsi con fulmini.
Veramente a comprobar la vostra opinione portate in campo testi di filosofia, cioè, favolose novelle da raccontarsi alle piú vili genti del volgo. Quanto, oh quanto meglio operareste in esagerar contro i tradimenti e malvagità degli uomini cattivi. Rivolgete un poco la vostra colera non a biasimi degli ornamenti delle femine ma a detestazione dell’insidie diaboliche tese da molti uomini all’onestà donnesca e a vituperar gli abusi moderni degli abiti virili ridotti a maggior vanità che quelli delle donne, e con tanto piú scorno e scandalo quanto che, essendo improprie e inconvenienti all’uomo l’attilature soverchie, vengono a dar indizio d’un animo morbido e lascivo, anzi vile e osceno. Gli antichi filosofi e i veri virtuosi sprezzarono ne’ tempi caduti le pompe di vesti e abbigliamenti. Dice un cigno moderno:
Ma di vil canna inteste
Le case furo, onde con chiome incolte
I consoli di Roma uscir piú volte.
Attendevano alle speculazioni virtuose, alle moralità, al vivere accostumato né viziosi ed effeminati si davano a coltivar la chioma e nutrir la barba ? e pur dominavano e signoreggiavano il mondo, forse senza tante politiche e ragioni di stato quant’oggidí arrivano a nauseare fino il Cielo.
Ma torniamo al campion degli uomini, che, con certi termini grammaticali da me punto non intesi, vorrebbe inferire che ’l lusso e lussuria sia tutto una cosa; e io non glielo nego ma, non essendo il lusso feminile rio come ei dice, non è lussuria. Rio e scelerato può ben dirsi il lusso degli uomini, ma, non essendo lecito a me il discorrerne, lascerò alla loro conscienza il considerare a qual segno siano arrivati col lusso rio, quando che si sono resi degni di castigo, non solo appresso Dio e il mondo, ma appresso gli stessi elementi. Se facessero come gli antichi, invece di studiar nello specchio come vada compartita la chioma, studiarebbero come vada abbellita l’anima; né si darebbero a scriver sofismi e sostentar paradossi a pregiudizio delle donne, da loro artificiosamente tenute lontanissime dagli studi acciò alle occasioni non sappiano o vagliano a difendersi e appaiano esse le malvage e ree d’ogni colpa ed essi gl’innocentissimi.
Ma voglio passar questi miei veracissimi sentimenti da me discorsi piú diffusamente nella mia Tirannia Paterna, non trascurando perciò il rispondere all’eloquenza di chi, come riformatore degli umani costumi, fa sapere al mondo tutto che per far che le femine lascino le vanità bisogna prima spogliarle dell’ignoranza. Oh sentenza evangelica proferita da una bocca non sempre verace! Lodevolissimo e d’utilità grande risultarebbe all’universo tutto l’applicarle a quei studi che l’uomo assiduamente essercita; ché poi, tolte loro d’intorno l’ombre dell’ignoranza, ben vedreste, oh signor infermo sognante, s’elle riuscirebbero, ancorché involte fra le tenebre del poco sapere, apunto quali voi, al dispetto del comune genio virile, le confessate, cioè soli, perché veramente dagli splendori delle loro bellezze il mondo riceve tutti quei benefici che ’l sole difonde a’ mortali in questa bassa terra. S’elleno son soli, gli adornamenti in loro faran l’officio di raggi.
I bissi piú fini, l’oro piú puro, le piú candide perle, e le piú preziose gioie, e s’altro di piú vago ed eccellente qua giú si trova son giudicati degne di fregiare le vestimenta de’ sacri sacerdoti. Può dirsi la donna cosa sacra e di Dio per la bontà e pietà. Intercede, canta la Chiesa, pro devoto foemineo sexu. Una donna in Cielo è avocata della terra appresso Dio. Eia ergo advocata nostra, dicono pur anche gli uomini.
S’adorni dunque la feminil bellezza delle piú luminose, speziose e preziose suppelletili che possano esser comprate da’ profusi tesori, se non per altro per esser un raggio purissimo e vivo della Divinità e per esser la donna un esemplare d’ogni operazione giusta e santa. Ma oggidí, povera giustizia e santità feminile, anzi povere donne, poiché con tutta la vostra giustizia e santità sète escluse da ogni dignità, da ogni fonzione de’ fori e ogn’ora piú vilipese siam tenute prigioniere, perch’ogni giorno piú cresce la perfidia negli uomini e ben in questo particolare si verifica
Che noi mai sempre peggiorando andiamo,
Poiché degli avi i padri son men buoni,
E viziosi piú de’ padri i figli.
Oh scelerata e impervertida mente degli uomini ai quali, mancando forse il potersi impiegare in iscrivere fatti egregi e in racconti virtuosi, poiché al nostro secolo vi sono pochissimi di loro che operino azione degna d’immortalità, quasi tutti si danno con penna di corvo ad oltraggiare e sprezzare le nobili operazioni donnesche, pretendendo d’immortalarsi con quei scritti che li fanno conoscere per mostri d’ingratitudine! Odasi lo schernitor degli abiti feminili non dolersi con zelo che si trascuri il culto di Dio, non del tempo malamente perduto dalle donne in adornarsi, non del pericolo a che taluna espone la sua pudicizia perché inciampino nella rete quegli uccelli per i quali non è tesa, ma lagnarsi che la vanità sia nemica d’amore e che le donne impiegate in adobbarsi lascino l’ozio ch’è padre d’amore. Oh che crassa ipocrisia disprezzar l’apparenza del male perché impedisce la realtà d’un mal peggiore!
Oh che derisore degno di riso! Non sa in altra guisa pianger il danno cagionato dal liscio delle donne che con lagrime tolte in prestido dalla propria passione. Mala nuova, dice egli, per gli amanti, che le donne occupate un anno intiero in acconciar una testiera non abbiam tempo d’ascoltare le loro simulate chiarle.
Ma lasciamo questi sentimenti troppo veri e severi in risposta d’una vana ragione e rivoltiamoci a derider gli uomini già che promovono al riso col detestar quello stesso mancamento che vien da loro medesimi praticato. Forse che, invidiando alla bellezza delle femine, molti di loro a guisa di scimie non tentano d’imitarle in ogni azione? Altri non si vedono passeggiar le vie e profanar le chiese se non Adoni e Narcisi. Ma guàrdinosi di non tramutarsi in fiori, ché poi mancherano le ninfe e le dee che celebrino loro i funerali con lagrime e dolori. Oh quanti, oh quanti giovani di questo secolo vanno eccessivamente lisciati, attilati, profumati e lascivi; ond’io non so poi come gli uomini possano farsi cosí audaci che detestino ciò che da loro si pratica senza rossore e tema di doversi sentir rimproverare. Qui praedicas non furandum furaris. Medice cura te ipsum. Tutto ciò che ’ sig. Buoninsegni detesta a biasimo delle donne, tutto si vede a’ giorni nostri pontualmente effettuato ed esercitato dagli uomini.
A che dire che le vesti pompose siano testimoni della schiavitú, pena del peccato antico di cui eglino son stati gli auttori? Per unum hominem peccatun intravit in mundum; la Scrittura parla pur chiaro. Concedasi che la veste sia testimonio del peccato tanto dalle donne buone aborrito, che sarà anche testimonio della feminil modestia, già che la prima madre, vedendosi priva dell’innocenza per colpa d’Adamo, come nemica della reità corse immediatamente a coprirla, tenendo io per infallibile ch’ella fosse la prima che tulit folia ficus, et fecit sibi perizomata. La veste, dunque, nella donna è un argomento e una testimonianza della modestia sua e dell’odio con ch’ella deve e vuole aborrire la colpa e non del peccato di cui ella è innocentissima.
A che sprezzare ne’ donneschi arnesi la seta per esser un vomito di verme, s’apunto la donna se ne copre per aver di continuo inanzi agli occhi un oggetto da contemplare quali sian le vanità mondane? Forse che voi uomini, che pur sète vermi della terra, non vestite non pur le sete ma gli ori e i diamanti con una cosí indecente lascivia che amorba il mondo e il Cielo? Qual donna s’è giamai ritrovata che tanto esorbitatamente si sia data alle vanità degli ornamenti quanto faceva quel principe del Perú, ch’era in guisa vano ed effeminato, che doppo essersi ogni giorno ben unto con certo liquore odorifero si faceva trar sopra gran quantità d’oro tritolato in guisa che restava come una statua d’oro lavorata? Questi, questi cangiava la necessità in superbia, il bisogno in lusso, e faceva conoscere che, sí come il cuore dell’uomo si fa un paradiso dell’oro, nulla d’altra gloria curando, cosí il suo corpo è un inferno di peccati abellito, fregiato e lisciato con quel metallo in virtú del quale non v’ha sceleragine che da lui non si cometta, e poi finge di maravigliarsi che faccia qualche motivo nell’animo feminino.
Non mancano essempi infiniti d’uomini vani, lascivi, dediti alle capigliature, ai belletti, agli odori, ai profumi e a tutte quelle cose biasimate con tanta detestazione nelle donne dal nostro gentilissimo satirico. Senza fine abbondano nel viril sesso gli effeminati, molli e indegni. Lisicrate non stava meno a streggiarsi i capelli di quello ch’oggidí facciano le donne a componere una perucca, e tramutandoli di bianchi in neri faceva conoscere ch’anch’egli meritava d’esser annoverato da Ovidio fra i miracoli di quei dei che tramutavano gli uomini in bestie. Abrone non lasciò atto o movimento non che conciatura o liscio di che si servono le donne. Che non operarono Stratone, Aristodemo e altri con l’effeminate vanità?
Che ve ne pare, signor censuratore degli abiti donneschi? Non sarebbe meglio impiegata la vostra ammirabile eloquenza in biasimo del virile che del feminil lusso? Ma voi altri scrittori invece di dir la verità strapazzate le povere femine e con adulazione aderite a coloro che son del vostro sesso. Nasce di qui che Mecenate sia stato scopo alle lodi d’ogni antico cigno, e pur Augusto, scrivendogli, lo biasima di troppo lascivo, di tutto vano, e d’inventor di delicate morbidezze; ma quel che fu peggio in lui fu il viversi tale sino alla decrepità. Cosí di lui si scrive: Maecenas, mel gentium ebur Etruriae, lasar Aretinum, Tiberinum margaritum, Cilenorum smaragde, iaspis Figulorum, berille et carbunculum Porsenae.
Ma non vi paia, signor Buoninsegni, che per essermi levata un poco giú di strada, io mi sia scordata di rispondervi. Perché la donna veste di seta voi dite ch’ella è un verme? Questa è una conseguenza indegna del vostro bellissimo intelletto e che dovrebbe comperarvi lo sdegno d’ogni dama; ma perch’io son di quel sesso, ch’è tutto benignità e placidezza, non voglio assegnarvi altro castigo che invitar tutti gli accademici che v’udirono a far questo argomento a tenervi per dieci anni contumace dal buon concetto ch’hanno di voi. Perché le donne si vestono col sepolcro d’un verme adunque son vermi? Oh bella cosa! Vermi velenosissimi sono tutti quegli uomini che rodono l’onor alla donna e che le hanno in modo tarlata la libertà ch’ella niente piú ne possiede. Volesse pur Dio, come dite voi, che le vesti feminili facessero quell’effetto con gli uomini che fece la mandata da Deianira ad Ercole, ch’io consigliarei tutte le donne ad ispogliarsi e far degli abiti loro un dono liberale ai mariti, agli amanti, o ad altri, che forse per l’avvenire non sarebbero poi tanto tiranneggiate né buona parte di loro sepolte vive.
Coloro poi che, acciecati dallo splendore degli abbigliamenti delle loro dame, stimano piú gli accidenti che la sostanza, ben si fanno conoscere per babuassi indegni di mai posseder la grazia d’alcuna, poiché non gli abiti, non la bellezza corporale né la grazia, che sono oggetti della libidine non degli affetti umani, ma la bellezza dell’animo, la grazia della conversazione, il candore della modestia devono amarsi da chi professa d’esser vero e degno amante. Queste qualità, indizio d’un’anima bella e pura, lodavano Platone nella sua Stella e il Petrarca in Laura, anzi questi, vedendo nella sua diletta la bellezza e l’onestà congiunte insieme, esclama: Oh de le donne altero e raro mostro. I di costoro affetti non erano indrizzati a’ fini indiretti e indecenti, né le lor amate si lagnavano di rimaner abbandonate su la soglia dell’uscio, perché degli uni e dell’altre erano onesti gli ardori e purissime le fiamme.
Chi addimandasse a me s’io creda che quel madrigale,
Contro gli uomini ognuna armi lo sdegno,
sia dettato da ingegno feminile, mi dichiaro arditamente che non son mai per capitar in cosí eronea opinione; lo credo bene un’invenzione per dar forza a quelle ragioni che per la loro debolezza han bisogno d’esser corroborate. Ben saprebbero formar altro che sconcertati madrigali le donne contro li uomini, ma eglino si sono usurpato un gran vantaggio sovra d’esse, rare delle quali si possono dare al nobilissimo impiego dello scrivere, perché sono dalle virili tirannie tenute lontane dal poter apprendere a leggere non che dai lumi delle dottrine e belle lettere.
Perversità grande di costoro i quali, essendo sin dagli anni piú teneri allevati fra studi di grammatica e umanità (benché di questa non sia da loro né pur conosciuto il nome, conservandosi eglino sempre mostri di crudeltà), poi passano ad applicarsi alla retorica, logica, filosofia, e altre scienze; se doppo tanti sudori arrivano a saper segnar i fogli di quattro chiarle (qui non parlo con voi, signor Buoninsegni, poiché per relazione di testimoni degni di fede vi riverisco per gentiluomo quanto scientifico altretanto modesto e prudente) si credono e si vantano per gloriosi inventori di nuovi modi di scrivere. Costoro, dico, per parere protomaestri di tutto il mondo litterario, se per sorte vedono da una donna invece dell’ago adoprarsi la penna, con mille invenzioni contro quei scritti attestano come Evangelo che non può essere ch’una femina scriva, se non ricorre a pigliar in prestito dal perfettissimo lume de’ loro begl’intelletti un picciolo lumicino, nonostante che di ciò appariscano i raggi della verità piú puri di quello che risplenda il sole sul meriggio in serenissimo cielo. Perciò è avvenuto che molti maligni o ignoranti asseriscano che ’l Paradiso Monacale non possa esser dettame dell’ingegno mio, o volo della mia penna, o pur, che, essendo, sia anche necessità ch’abbia ricevuto ornamento, fregi, e ricchezze di tratti di filosofia e teologia da spiriti elevati e intelligenti. Altro a ciò non saprei che rispondere, se non supplicare questi cosí giudiziosi e speculativi intelletti, i quali, per far pompa d’un ingegno piú che ordinario, liberamente affermano per verissime quelle cose le quali solamente congetturano, che tentino ogni modo di risapere chi sia stato quel filosofo, teologo o altro c’ha posto le mani nell’abbellimento del mio Paradiso, o pur, se da loro m’è stato conferito questo favore, liberamente il palesino ch’io me ne contento. Gracchino pur a lor voglia questi gran letterati, ma però sappiano ch’io non mi glorio d’altra buona qualità di questo mio libro, se non solo ch’uomini non gli abbiano posto dentro mano, anzi, che s’allora che i miei congionti volsero contra mia voglia darlo alla publica luce del mondo, fossi stata consapevole, com’ora sono, che in questa città si ritrovasse una stamparia non da altri esercitata che da sole donne, io non averci sofferto che per mano virile ei fosse stato impresso sotto le stampe, stimando indegni molti degli uomini d’aver parte veruna nel Paradiso. Ma se non fossero capi sventati e ignoranti additarebbero nell’opere mie quei mancamenti che in realtà ci sono e non mendicarebbero invenzione per opprimere quella poca di buona fama ch’io posso attendere, se non da altro almeno dall’ardimento con cui ho intrapreso, quasi strepitosa cicala, a stridere fra l’armonioso suono delle soavi voci di tanti cigni moderni, i quali benignissimi compatiscono alle mie imperfezioni. Conoscerebbero che quei termini di teologia de’ quali mi son servita non sono di materie cosí profonde che non possano esser capite da ogni ingegno di mediocre intelligenza, senza andarli mendicando dagli opulenti errari della loro scienza, e che i tratti di filosofia sono di quelli che piú tosto s’imparano ai raggi del solo lume naturale ch’agli splendori della loro dottrina che non è forse altrettanto conspicua in altro quanto nella maledicenza. Dicano (se però il conoscono) ch’io non scrivo con quell’arte e ordine che si doverebbe, che lo confesso anch’io, e che apporto sentenze latine, non già perch’io sia versata in lingua tale, ma perché la mia memoria ne conserva quantità grande per la cotidiana recitazione dell’Officio divino, nel quale si contiene buona parte della Sacra Scrittura. Dicano che ’l maggior fondamento ch’io abbia sia una dilettazione non ordinaria di sempre legger libri buoni, spirituali e profani, latini e volgari, mediante la quale, benché rozamente, senza maestri, ho in qualche parte limata la ruvidezza dell’intelletto mio e che, aggiunta questa ad una disposizione naturale concessami da Sua D[ivina] M[aestà], mi son resa ardita piú di quel ch’io dovrei. Ma gracchino pure, dicendo ciò che piú loro aggrada, ch’ad ogni modo derido le loro false attestazioni, gloriandomi che la purità del mio stile abbia similitudine con quella dello stato in cui mi trovo. Se poi i periodi non sono cosí agiustati e la disposizione delle cose non ordinate conforme ai precetti della retorica, poco me ne curo, perch’io non scrivo con altre regole che con quelle del mio capriccio. Ne’ miei scritti non troverai quei quinci e quindi che sono nell’opere d’alcuni moderni scrittori, perché se ben stimo queste buone voci toscane e molto confacentisi alla natura degli uomini, che, non mai fermi con la persona e col cuore in un sito, vanno apunto sempre variamente or quinci or quindi gloriandosi
Che in questo mondo instabile e leggiero
Costanza è spesso il variar pensiero,
nondimeno, di queste non mi vaglio, come colei che per sempre m’ho eletto di vivere in un loco, dove non meno con le operazioni che con le parole detesto affatto l’instabilità, altretanto effettivamente praticata dagli uomini quanto da essi bugiardamente addittata nelle donne. La somma è questa: io conosco e non piego l’eccessiva imperfezione delle composizioni mie; anzi di gran maraviglia mi riesce che da taluno non sian conosciute per tali, onde non abbia da infrapor tante difficoltà ch’una donna sappia adoperare la penna senza che le sia mossa da mano virile. Ma molti di voi sète all’opposto de’ filosofi antichi (me ne spiace), de’ quali, senza malignità veruna, comprobarono e lodorono altri gli scritti di Diotima, altri di Saffo; taluno commendò Ginevra Veronese, chi Cassandra Fedele, chi Alceste e Penelope, e altre infinite, senza supponer quei spropositi ch’alcuni intellettoni moderni vanno di me asserendo. Il faccino pure a lor grado e abbiam per articolo di fede cristiana che chi non crede nel Paradiso sarà condennato all’Inferno.
Ma dove sète, sig. Buoninsegni mio? Perdonatemi se per isfogar il mio genio contro la malignità d’alcuni m’ero scordata di voi, e con poca creanza v’ho finora lasciato in un canto, quasi ch’io non facessi conto della vostra persona tanto da me stimata. Voi, al vostro solito dicitor gentile ma appassionato, biasimate negli abiti donneschi la varietà de’ colori, né v’accorgete di riuscir biasimevole mostrando di non sapere che la varietà delle cose è quella che fa bello il mondo, oltre poi che di tutte quelle vanità che sprezzate e detestate in noi trovansi esempi d’uomini e regi insigni, che se ne sono indiferentemente compiacciuti. Creso, re di Lidia, compariva cosí pomposamente vestito e variamente adorno di colori e di fogge che Solone il confuse, cavandogli il pianto dagli occhi col farlo ravedere che ’l pavone, il papagalo e altri animali eran nelle piume non dissimili dall’abito suo, anzi, con decoro godevano dalla natura quel dono ch’egli, con vergogna lussureggiando, mendicava dall’arte.
Ch’alla donna fosse poi conveniente l’andar sempre vestita a bruno, io non lo niego, non già per ricever tutti gli sguardi degli amanti nel volto, poiché, s’apena, adorna di quei fregi che con la varietà de’ colori compartono variamente il diletto della vista agli occhi, può resistere con la sua eccellente modestia all’eccessiva sfacciatezza e dissolutezza virile, che farebbe l’infelice se tutti i guardi uniti e raccolti ferissero in lei? Sarebbe di bisogno d’una gran fortezza a quel sesso ch’è predicato dall’uomo per debolissimo. Ma ben bisognerebbe che gli abiti nostri fossero sempre di color nero in segno di quella mestizia che ne tiene oppresse per esser sottoposte alla tirannia degli uomini e ai loro indegni caprici. Veramente qualche volta, a confessarla giusta, il signor Buoninsegni è un gentiluomo che dice la verità, anzi, al dispetto marcio del viril talento la replica piú d’una volta. Dopo aver veridicamente asserito che meglio oprerebbe la donna andando sempre vestita a bruno che con diversità di colori, sovraggiunge ch’ella è stata creata da Dio per ristoro degli uomini, forse sapendo che
La donna a l’uomo è sol vero ristauro,
Dolce riposo, e opportuna aita.
Non credo, però, ch’egli si sia aveduto qual maggior lode conseguiti al mio sesso da questa sua proposizione; la quale essendo verissima, non si può negare che nelle donne non rissieda una gran porzione di divinità, mentre il ristorar chi patisse ne’ travagli è solo proprietà di Dio. Ed eccovi che, se voi sète nati a travagliare, elleno per disposizione divina son nate per vostra consolazione e sollievo.
Che se poi, quasi sopra d’un trono mobile, s’inalzano di continuo sopra un pezzo di legno reso adorno dalle vesti che fanno officio di tapezzerie, ciò è in grazia del lor merito, che non permette che vadano a piedi come gli animali, e voi, che, formati di terra, sète per vostra mortificazione destinati a calcarla. S’elle co’ pensieri van sempre sollevate dal suolo e tendono al cielo, non è maraviglia se poi quasi come immagini sacre stian posate su piedestalli coperti di preziosissimi drappi. Non mai troverai che le cose magnifiche e grandi stiano in terra, ma bensí esposte in altezza per oggetto dell’altrui stupore e riverenza.
Potrebbe anche dirsi che la donna deve per ogni rispetto andar inalzata dall’ordinarie bassezze terrene come apunto un miracolo della natura, poiché, essendo l’uomo formato di terra e la donna d’una costa di lui, è ragionevole ch’ella altretanto si porti alta su le pianelle quanta distanza è dal piede virile alla costa, già che la natura e Dio l’ha creata con questo privilegio. Aggiungasi di piú che, essendo i zoccoli accidental cagione della longhezza della veste feminile in cui sta espresso un vivo ritratto della modestia, si potrà ragionevolmente dire che siano un’invenzione modestissima e lodevole.
Al sacrificio dell’altare e ad ogn’altra fonzione sacra i sacerdoti vanno sempre coperti d’abiti longhi, com’anche fanno tutti i religiosi e facevano anticamente i sommi sacerdoti del Tempio non meno de’ cristiani che de’ gentili, sdegnando il Cielo che i suoi ministri vestano quegli abiti ristretti che sono un saggio e contrasegno della sfacciatagine e impurità degli uomini. Di ciò nasce che, senza dare un’evidente testimonianza d’animo poco ben affetto verso le donne, non potete negare ch’elle per propria natura vadano arricchite dal manto della religione, della pietà e bontà, mentre sino nelle vesti imitano i sacerdoti allora che nel stato della piú fervida divozione stanno offerendo a S[ua] D[ivina] M[aestà] sacrifici, voti, e preghiere.
Che dirà questo intelletto perspicace di questi miei sentimenti? Li deriderà forse o se ne sdegnerà? Se li deriderà io tornerò a deridere le sue derisioni, e se se ne sdegnerà a me non dà piú noia il suo sdegno di quello ch’a lui faccia l’ira di tutto il feminil stuolo da lui per ischerzo beffeggiato col mostrar di temer le pianelle, dicendo che non s’assicura di non esser per naufragare non fra Scilla o Cariddi,
Ma nel mar de lo sdegno
Fra due scogli di legno.
S’egli non teme lo sdegno delle donne perché sono piacevoli, io piú corraggiosamente mi dichiaro di non temer quel delli uomini benché sappia che siano fierissimi.
Non hanno, no, bisogno che siano loro sturate l’orecchie quelle che di propria volontà con nobilissimi pendenti le tengono aperte per meglio sentire le voci de’ predicatori e le cose appartenenti all’interesse dell’eterna salute dell’anima loro, onde poi dai mali trattamenti degli uomini innocentemente patiti qua giú in terra possano passarsene a ricever le meritate accoglienze degli angeli sú in Cielo. Ma qui m’aveggio ch’io parlo troppo seriamente contro un ingegno che forse piú per ischerzo che per verità discorre contro il sesso feminile.
Fatevi un poco inanzi alla prova, signore, e poi voi stesso siate il giudice se sia verità che le donne abbiano piú forza nelle gambe per istrascinar le pianelle che nelle braccia per aventarvele nel capo, non essendo bene l’affermar senza esperienza ciò che facilmente e ad ogni ora può provarsi. Ben a ragione temete ch’elle non si trasformino in alberi, perché avete paura che le braccia loro s’induriscano di soverchio. Se per esse sarà bisogno d’un nuovo Ovidio, per li uomini basterà il far rinascer un Luciano, o un Lucio Apuleio, mancando i quali, vi rinunzieranno quell’istesso Nasone, che voi bramate rinovato per loro, già ch’egli mostrò di saper fare cangiar forma a piú uomini che donne. Lo dica Ateone tramutato in cervo per colpa diversa da quella di Driope. Lo dica Batto cangiato nella pietra paragone per non aver saputo tacere ed esser mancato di parola; e dicalo il re di Tracia Tereo tramutato in upupa.
Quello poi che circa questo piú fa a proposito mio sia ch’alla maggior parte delle donne che rimasero trasformate ciò non avenne per colpe commesse da loro, ma perché potessero sottrarsi illese dalle libidinose mani o de’ dei o degli uomini, ai quali tutte le trasformazioni occorsero come castigo di gravi eccessi. Ma, quando poi anche vi mancasse Ovidio, non mancherete a voi stessi di tramutarvi a vostra posta, già che di piccioli sapete comparir grandi col sottoporvi alle scarpe un scagnello alto in guisa che sforzandovi a caminar in punta di piedi vi fa parer tanti cavalli ferrati; né v’arrossite di farvi apparir belle e grosse le gambe col fabricarvele la metà di bambage. Forse perché non vi par, o sciagurati, mentir a bastanza con le parole volete mentire anche con le operazioni e le apparenze, e per farlo con lascivia maggiore non si risparmia da voi dispendio, arte, o inganno, e tutto per comparire al pari di quelle donne, nelle quali poi vilipendete quell’attilatura e ornamento ch’è proprio e connaturale al loro sesso. Se voleste esser capace della verità, non cosí liberamente scherzereste burlando le femine per le capigliature posticce col portar l’esempio del Satiro di Corisca, quando che molti e molti degli uomini abusano di portar oggidí le zazere comprate a prezzo di danari contanti. Se nelle donne i capelli non partecipano dell’anima vegetativa, poco importa, ma non poco importarebbe che ne participassero negli uomini, ch’a questi tempi sono cosí dediti alle vanità e moli adornamenti, in particolare del capo, con arte innanelato, profumato e impolverizato alla francese, che, nutrendo umore d’esser tanti Absaloni, s’avenisse che restassero appesi a qualche albero, purtroppo rimarrebbero vivi, lasciando (quasi ho detto ad onta del Cielo) le povere chiome innocenti in loro vece appicate. Non vi vantate, no, effeminati e da poco, di queste vostre capigliature imbiondate e ricciate, per vituperio vostro rapite da interessata mano al cadavere di qualche bella donna, perché, se la fortezza di Sansone consisteva ne’ capelli che naturalmente erano suoi, in voi non potrà regnare, che tanta pusilanime debbolezza di forze e di senno quanto di robustezza e bravura perdé quel nazareno nel perdere il tesoro di quei crini che lo constituivano ammirabile fra gli altri.
Ognuno dello stuolo virile si finge nella mente d’esser un novello Aristotele, ma invece di procurar d’imitarlo nella sapienza che l’ha reso immortale, altro d’aristotelico non può vantare che la vanità praticata pur anche da quel gran filosofo, che del rimanente altro carattere non porta seco di tal imitazione, che per ostentar la sublimità dell’ingegno suo andar tutto il dí inventando sofisticarie contro il merito delle donne, da alcuno, però, piú per divina permissione che per elezione degli auttori, con encomi meritati descritto. Sentite un bell’intelletto de’ nostri tempi, che veridica e seriamente comproba ciò che ’l sig. Buoninsegni dice per ironia e scherzo del mento d’avorio e d’ogn’altra parte di bella donna:
Io dirò molto meno
Di quel che dir conviensi, ancor ch’io mostri
Che la donna del Ciel sia nobil dono:
E sia poco il chiamarla
Tesoro di natura, e poco il dire
Che d’oro il crin fiammeggi,
D’argento il seni biancheggi,
Sembri avorio la mano, ebano il ciglio,
Che sian gli occhi zafiri, ostro le guancie,
Corallo il labro e margarita il dente,
Le luci stelle e Paradiso il volto.
Poco sarà, se in lei stretto si mira,
Quasi in compendio il Cielo,
Se in lei spiega natura ogni sua pompa.
Or, che dite, inventori di biasimi donneschi? Parlo in generale a tutti quelli che scrivono, hanno scritto, e scriveranno contro il nobilissimo sesso feminile? La ragione n’insegna pure che molto piú veraci e da stimarsi sian quelle lodi che vengono date da quelli del sesso maschile al feminile, che quelle che voi uomini a vicenda tra di voi v’andate dispensando.
Qual maraviglia è che non si senta altro che sparlar delle donne con auttorità di filosofi, di leggisti, d’oratori, e poeti, e sino con stiracchiamenti della Sacra Scrittura, se quasi tutti coloro che scrivono e hanno scritto son uomini? Ah, s’alle femine non fosse dinegata l’aplicazione alle scienze, e fosse lor conceduto la metà, o la terza parte di quello studio, che da taluno è stato praticato, ben si sentirebbero concetti non sofistici e mendicati ma fondati e veridici, che farebbero arrossir di vergogna il sesso virile, il qual forse non anderebbe cosí superbo e pretendente dicendo male della donna, ch’è l’anima dell’umane delizie.
Uno di questi è il sig. Buoninsegni, che, volendo accennare una comparazione tra il Colosso (dice egli) di Nabucdonosor e la donna, esprime il suo pensiero con stiracchiatura indegna d’un gran letterato quale egli è. La rivolge co’ piedi a rovescio e poi vuole che ’l capo sia di legno, non s’accorgendo che nella statua da lui mentovata niuna dell’estremità era di legno, ma il capo d’oro e i piedi di terra. Cosí aviene, a chi vuol affettar paradossi e dir male di chi nol merita, il potersi far credere per un intelletto che non sappia distinguere la terra dal legno. E perché non avete voi detto che la bella e maravigliosa fabrica della donna inalzata sopra un piedestalo d’oro rassembra il bellissimo Colosso del Sole? Sapete perché? Perché sète di quel sesso del quale alcuni piú tosto che dire la verità e parlar bene s’elegge il dir la bugia e parlar, come si suol dire, fuori di squadro.
Ma ecco apunto che, essendovi aveduto d’aver parlato poco a proposito, volete correger l’errore e lo fate col proferire una bellissima e veracissima proposizione, dicendo che ’l marito è un capo di legno alla donna. Capo di legno in vero è il marito alla donna e non di legno forte, come sarebbe a dire di rovere o d’altro simile, ma del piú leggiero, del piú fragile e del piú disutile arbore che ritrovisi, malamente buono per servire d’alimento al fuoco. I frutti di questa pianta frascheggiante sono il dar cagione alla moglie con vane e indecenti attilatture e con soverchie lascivie d’imitarlo, ma la natural modestia feminile sottentra a ritrarla da quei costumi che dovrebbe cagionar in lei il mal essempio del marito. Non manca questo capo per la sua parte d’eccitar pensieri impudichi in colei che gli è stata assignata da S[ua] D[ivina] M[aestà] per dolce compagna, con poco timor di Dio, con nulla di riguardo all’onor proprio, e con libertà non dissimile all’usata da’ Turchi , dandosi in preda ad ogni illecito piacere, ed ella perciò non manca di ritenersi dentro i cancelli d’un’immacolata onestà, come colei ch’è nata d’un sesso il cui vero e proprio carattere è la pudicizia. E gli uomini ad imitazione dell’avaro Giuda determinano che sian malamente spesi quei quattro soldi che s’applicano a vestir le mogli, perché giudicano poi forse meglio che sian riserbati per comprar altri affetti. Questo è un dolersi che quell’unguento col quale Maddalena unse i piedi a Cristo non si venda e se n’applichi il prezzo ad altro. Oh esecrabili delitti, oh intelletti non sani!
Non lo diss’io poc’anzi che, essendo quasi tutti gli scrittori uomini, toccarebbe sempre alla donna esser biasimata e rimaner oppressa dalle loro dottrine, ch’appresso però di noi non risultano di niuna fede, anzi, anche appresso di voi, se la voleste confessar giusta; ma è vostra qualità il voler piú tosto morire con la conscienza macchiata che confessar la verità, benché sia da voi chiaramente conosciuta. Vuole questo signore detestar l’uso di quelle che portano i zoccoli d’oro o d’argento e subito compariste in campo con un distico di Marziale contro ad una gentildonna romana, che si volea prevalere di quelle ricchezze che le erano state concesse dal Cielo. Marziale era un uomo; tanto basti. Era mala lingua a paro di qualchedun altro, ed era nimico del sesso donnesco. In materia di biasimare il mio sesso, non che a Marziale ma né a Platone e ad Aristotele non mi tengo obligata prestar fede veruna se prima non lasciano d’esser uomini, i quali con arte s’hanno usurpata auttorità grande appresso gli altri uomini, che poi come interessati aderiscono loro e giungono a cosí esquisitamente dir male delle donne che, come ho di sopra detto, se qualcheduna di noi, ad onta de’ loro intelletti sforzati, ha tanto dono da Dio che vaglia a far pompa su le carte de’ tesori d’un ingegno elevato e spiritoso (ciò non dico per me), eglino velenosamente maligni asserriscono per impossibile che senza il loro aiuto una donna possa comporre con qualche buon stile naturale e spirito, quasi che Dio possa esser stato parziale in partecipar maggior porzione di ragionevolezza all’uomo che alla donna. Io ridomi di queste evidenti malignità e bugie, mentovando spesso contro il sesso maschile fra me stessa que’ versi che dall’Orsino furono cantati contro ad un maligno:
Verrà, non può tardar l’ora prescritta,
Che sia mercé del Ciel, da man [...]
L’empia tua spoglia lacera e traffitta.
Di ferro invece intanto io col mio stile
Premerò, ferirò con forza invitta
Tua fama infame, e ’l nome indegno e vile.
E voi, signore, fra tanto, se ben il fate per ischerzo, non vi dolete che vi sia mancata la memoria, perché chi si contenta che si possa credere ch’egli abbia perduto l’intelletto in non voler confessar il merito delle donne poco conto deve fare dell’altre due potenze dell’anima. Le donne sono statue con piedi d’oro, perché portano le pianelle indorate. Non è egli vero? S’argomenti dunque della preziosità del fondamento quella dell’edificio e quale possa esser il rimanente delle femine, mentre la piú vile e infima parte è d’oro? Oh s’ella fosse cosí, signor academico mio, quanti, oh quanti uomini ci correrebbero prostrati a’ piedi, piú, però, per avarizia che per ossequio!
Riposatevi pur lungi da queste statue mobili, se non volete che perdano quel decoro che non va mai disgiunto dalle statue sempre inalzate per iscopo dell’altrui ammirazione o adorazione. Lungi, lungi, profani, dalle statue feminili, alle quali non cosí tosto s’avicina un uomo che per esse sta in pronto il disonore e il pericolo. S’allontani la donna dall’uomo, benché fosse macchiata di mille colpe, sarà sempre onorata e stimata per integerrima ed innocente. Vicina a questo sordido mostro, eccola con l’onore perduto, macchiata nella pudicizia ed infamata nel nome. E da chi? Da quell’uomo ch’a lei è cagione di tanto pregiudicio ed a cui manca ingegno e discretezza per tacere e conoscere che questi biasimi rissultano in sua offesa. Se l’altrui passione non si sotisfa ch’io gli conceda che siamo statue, gli concedo di piú, che siamo arbori sfrondati. Se manchiamo di foglie, non manchiamo di frutti d’opere buone, e, se manchiamo di foglie vane e leggiere, non manchiamo, però, d’ombra ristoratrice e grata.
Guai a voi, uomini scelerati, dico, se vi mancasse l’ombra della verità, bontà, e santità feminile, che vi preserva dai flagelli del Cielo. Un poeta insigne de’ tempi moderni, che per esser uomo durava gran fatica a proferir la verità, pur finalmente combattuto dal rimorso della conscienza, tanto contrastò con la sua propria natura che disse:
Dillo, mia lingua, dillo,
Ch’a ragion è la donna,
Quando fede e pietade in lei si serra,
Diletta al Cielo e adorata in terra.
Non voglio darmi a rispondere a quella favola del marito e della cameriera, perché direi di bello. Dio sa a qual fine il gentiluomo chiamò quella servente. Povere gentildonne, arrivate ad isperimentar in voi stesse una strana metamorfosi di patrone diventando sovente serve! Voi non già sète l’Idra d’Ercole, ma ben nelle case vostre i mariti vi fanno esperimentare i miracoli dei capi dell’Idra, che, se per gelosia scacciate di casa vostra una damigella, suscitano mill’altre femine a farvi conoscere ch’eglino sono camaleonti che vestono i colori d’altrettanti affetti quante sono le diversità de’ volti che rimirano. Piangono il prezzo del grano applicato in adornarvi di quelle gemme, del cui valsente, che non mai deteriora, ponno ad ogni lor necessaria occorrenza prevalersi, e poi in comprar infami e indegni amori profonderanno liberalmente tesori de’ quali per sempre rimaranno impoveriti e spogliati, oltre ai pregiudizi dell’anima e dell’onore che loro ne risulta.
A gran ragione stimò vicina la perdita della romana libertà Catone allora ch’udí essersi venduto un pesce quanto un bue, ma diverso è lo spendere in adornamenti d’una moglie dallo spendere per sotisfazione della gola, e voi con fini diversi da lui detestate le pompe feminili. Egli bramava di veder conservato libero il popolo di Roma, e voi sète insidiatori della libertà donnesca. Non senza sdegno vedrebbe quel gran padre della sua patria la tirannide oggidí usata nell’imprigionar le donne. Sí che l’auttorità di Catone questa volta, signor Buoninsegni, rissulta contro di voi, com’anche il concetto delle perle e del sale.
Veramente ad un ingegno sottile non mancano arcigogole e stiracchiature per isfogar i suoi pruriti e far pompa su le carte del suo valore, Dulcis est homini panis mendacij, disse il gran savio. Che stravaganze sète andato a ritrovare, che le perle e ’l sale son figlie del mare e che chi non ha sale si serve delle perle. Queste son cose da ridere, sono sofismi e bugie mascherate, non verità. Il sapete ben ancor voi. Perché non dir piú tosto che, essendo la perla la piú preziosa, la piú pura e la piú candida fra le gioie, la donna se ne fregi come proportionata ai candori e purità dell’animo suo e delle sue divinissime qualità? Io voglio, nondimeno, aderire al vostro concetto, dicendo che gli uomini, perché professano d’aver sale e sono privi della perla, non hanno né perle né sale.
Quest’altra, però, non è meno stravagante e bizzara dell’antecedente, che ’l capo della donna sia simile ad un mazzo di carte. Se parlate del capo materiale e reale, questa è una vostra bella invenzione per far ridere la brigata, ma se del capo mistico, cioè, del marito che da voi è stato chiamato con nome tale, comprobo la vostra opinione per verissima e propriissima.
Mazzi di carte son la maggior parte di questi, perché, dediti al gioco, ad altro non sono intenti e ad altro non pensano, onde dal continuo pensiero che tengono fisso nelle carte si può dire ch’abbiano apunto il capo trasformato in un mazzo di carte. Qui non mancano i denari, se non veraci almeno cuniati sotto i replicati colpi d’un ardentissimo desiderio di possederne, per lo quale molti degli uomini si riducono ad azioni disonorate in modo che arrivano a vendere a prezzo vilissimo sin la vita e sangue del prossimo. Che ne’ medesimi ancorché vilissimi e codardi, se non per altro almeno per ornamento della persona, non si vedano in pronto le spade non sarà chi lo nieghi. Taluno vuol la spada dorata ed eccellente in paragone di quella d’Orlando, né considera d’aver un cuore e un braccio da Martano per maneggiarla. Mi sian poi testimoni contro questi valorosi cavalieri non solo i servitori ma le mogli medesime se manchi copia di bastoni, poiché non bastando alla loro indiscretezza di bussare la servitú, bastonano anche colei che Dio stesso ha data loro per compagna e adiutorium simile sibi, cioè, non per soggetta e inferiore, ma per eguale e puossi dir superiore. Bacco stesso sia poi quello che dicavi se questo mazzo di carte del capo della donna sia abbondante di coppe, quando col votarne le decine riempie talora se stesso di tanti fumi che se fosse il loro capo reale, come è immaginario, le misere mogli si sentirebbero ogni giorno aggravare dal vino.
Che se volete (e sia detto per seguitar le pedate del signor Buoninsegni) in queste carte le figure de’ tarocchi, alzate gli occhi in faccia a taluno che vedrete espressa la figura del Diavolo, dell’Appiccato, o del Bagatteliere e del Matto, e in molti d’essi non mancherà quella d’Amore, ma d’un amor apunto da tarocchi, dipinto, cioè, finto e non reale, col quale con fini interessati s’aggirano qualche volta intorno alle donne, confondendole in un mar di bugie e giurando loro un sviscerato affetto coll’attestarle ch’ogni lor crine è bastevole a tener legato indissolubilmente un cuore, concetto mendicato da quelle parole della Cantica: In uno crine colli tui vulnerasti cor meum. Ma doppo queste lusinghiere finzioni pare a costoro di porgere un sacrificio a Giove ogni qual volta che con le voci, con la penna, e con le operazioni biasimano, vilipendono, e maltrattano quelle che poc’anzi giuravano anime delle lor anime.
Cosí poi avviene che si leggono satire nelle quali, invece di detestar questi virili e abominevoli costumi, si maledice alle spese fatte da’ consorti intorno alle mogli, che con la profusione di dote preziosa e ricca averanno non solo consignate a’ mariti rendite bastevoli a ciò, ma averan sollevate le loro case da miserie e povertà, e con le doti dell’animo avran felicitata la quiete e assicurate le contentezze a coloro che per ricompensa di tanti benefici altro non sanno che seminar disprezzi contro quelle ch’essi dovriano, per cosí dire, idolatrare. Intendete, signor Buoninsegni? E voi di queste sète ardito di parlare con sí poco rispetto. Stupisco della vostra gentilezza, acclamata da ognuno per ammirabile e da me venerata come tale.
Ah uomini folli (parlo con cattivi) e insensati al vostro bene, già che v’ho fatto conoscere come sète un mazzo di carte, a che non rivolgere i denari nelle spese necessarie alle vostre famiglie e convenienti agli ornamenti delle vostre mogli, le spade in diffesa dell’onore e della patria, i bastoni in sostentamento non in detrimento altrui, e le coppe in abbeverar gli assetati, come vienvi commandato dalla Chiesa, che poi non si vedranno in voi le orride figure del diavolo e l’altre mentovate?
Le donne e le mosche non entravano ai sacrifici nel Tempio d’Ercole, né da ciò si può cavar quel mendicato e non ben formato argomento che poca differenza sia fra le mosche e le donne, le quali non son simili alle mosche che solo nel patir le persecuzioni d’ogn’uomo, onde può dirsi che voi altri, biasimando le donne, andiate a caccia di mosche e non siate in fine per aver guadagnato altro che ritrovarvi le mani piene di mosche. Si deve bene veridicamente asserire che le mosche, come voi dite, non v’entravano per istinto naturale e le donne ne rimanevano escluse perché, nelle loro bellezze vedendosi espresse le vergognose memorie della viltà di quel semideo che, doppo aver vinto tutti i mostri della terra, si lasciò vincere da un volto feminile in modo che non isdegnò di mutar la clava in una conocchia e assidersi filando fra le ancelle d’Iole, non s’intepidisse la divozione verso di lui. O pure, perch’egli, intimorito che da quei raggi di divinità che splendono nel volto alle donne l’adorazione degli astanti a lui destinata non fosse da esse con la divinità della sembianza e del merito usurpata, non volesse presenti a’ suoi sacrifici quelle che potean contendere seco di pretensione in qualità divine, e ben gli l’avean fatto conoscere col superarlo.
Siasi, però, come a voi aggrada, che la vera ragione sia che le femine di Chio, avendo dinegato di sterparsi la chioma perché dovesse servire ad introdur nel porto dell’isola il simulacro d’Alcide, restassero da quell’ora escluse da’ suoi sacrifici; che da ciò rissulta gloriosissima lode alle donne, quando i dei medesimi si mostravano ambiziosi d’esser introdotti ne’ luoghi prigioneri del feminil sesso. S’elle dinegarono il farlo non fu per mantener la bellezza col mezo dell’empietà, né perché stimassero piú un crine che una deità, ma perché non volsero che si potesse credere ch’elle di buona voglia fossero concorse all’introduzione della statua d’un eroe che pur qualche volta s’era dimostrato lascivo e impudico, e cosí fosse levata a’ maldicenti di quei tempi l’occasione di detraere alla loro riputazione. Se il simolacro fosse stato di Pallade o di Diana, dee castissime, non solo i crini del capo, ma il sangue delle vene elleno avrebbero applicato ad introdurlo nell’isola. Se l’idolo d’Ercole oggidí venisse per approdare a qualche lido, non volendo le donne prestargli i capelli, non gli mancarebbero funi di trecce d’uomini cosí effeminati ch’un nume istesso potrebbe restar ingannato e crederli chiome di donna. Esse anticamente negarono i crini per tirar nel porto di Chio la nave che portava il simolacro d’una falsa deità, e voi oggidí, piú tosto che privarvi di quelle zazzare che vi cagionano mille colpe mortali, negate d’introdur nell’anima propria il vero Dio di tutti i dei.
Voi già non potreste dir come Carilao che la capigliatura sia vostro ornamento proprio che non vi costa, quando una di queste moderne perrucche non vale prezzo minore di cinque o sei scudi. Oh vergogna de’ tempi nostri, oh vituperio degli uomini, ch’oggidí per portar la faccia infrascata di quattro chiocche d’aricciati capelli non han riguardo a spendere quel denaro che valerebbe a solevar per la metà d’un anno qualche infelice dall’oppressione della povertà, overo impiegarlo in lochi pii per sollievo dell’anime loro ingolfate in mille vizi e peccati. Almeno se le donne comprano vesti e gemme per adornarsi si può dire che cambiano oro in oro, o in gioie, ma voi pazzi spargete oro per comprar avanzi di teschi di morti e fracidume di sepolcri. L’abellirsi è cosí proprietà della donna come di voi dovrebbe esser la fortezza, ma voi, confondendo i termini degli usi, anzi, della natura stessa, trascurate l’adornamento dell’animo, né vi basta l’usurpar alle donne la superfluità degli abigliamenti, s’anche poi non le rimproverate di troppo pomposamente ornate e vane, quasi che siate tanti modestissimi e severi Catoni. Non cosí fecero, com’ho poc’anzi detto, gli antichi eroi. Dice un moderno scrittore:
Fugge con Teseo Fedra, e pur incolto
Egli ebbe il crine, e mal polito il volto.
A’ nostri tempi e apunto da questi che fanno professione d’eroi non si tralascia pompa, vanità, o lascivia che non s’esprima o nella foggia o nel lusso degli abiti, e quel ch’è peggio, anche taluno il fa nel liscio del volto e disposizione del crine. Hanno alterato sin il moto naturale ai mostachi, che, invece di cader pendenti sopra il labro ad impedir l’uscita all’oscenità delle parole virili, son forzati dal ferro e dal fuoco ad inalzarsi minacianti verso il cielo. E dagli uomini poi si nutre tanto ardimento nel petto di biasimare e detestar il lusso donnesco?
Arrivata la donna a quell’età che le imbianca il crine, si dà a tramutar l’argento vivo del crine in oro, perch’ella sdegna d’aver meno preziose l’apparenze che l’anima e vuol che tutti i candori se le racchiudano nel cuore non che si diffondano nell’esterno. Peggio fa l’uomo, che si rade, sterpa ed estirpa dal mento sin alla virilità quel pelo che lo distingue dalla femina, e poi, quando comincia ad incanutire, lascia spuntar la barba e allora che sarebbe tempo di cominciar a pensar alla morte, comincia a farsi conoscere per uomo. Ma quanto s’inganna lo stolto ricco d’anni e povero d’ingegno!
E se ben rade e cava
Il pel pungente e vecchio,
Però gli anni non scema, i dí non lava,
Né bugie gli può dir l’amico specchio.
Né l’ambra, né gli odor piú delicati
Pon far tornar indietro i giorni andati.
Se le vanità degli ornamenti donneschi son ombre, fra queste troveran gli uomini il loro riposo, quiete e ristoro. Ombre già non sono le virili, poiché non sono fugaci ma stabili, e, perché l’ombra suppone la luce, niuna cosa nell’uomo tristo si potrà dir ombra, mentre in lui non v’è pure una scintilla non che un raggio di luce di veruna buona qualità.
A ragione e forse non inconsideratamente nell’annoverare ogni capello non che ogni minucia delle pompe e vanità donnesche avete lasciato da parte lo specchio e ’l liscio, perché avete conosciuto che di vantaggio senza l’uno, cioè, il belletto, il vostro discorso può arrossirsi, e dell’altro, cioè, dello specchio, non deve servirsi quegli che non vuol riconoscere i diffetti del proprio sesso, né vuol tentarne l’emenda in altra guisa che adossando all’integrità feminile le inconvenienze de’ soverchi ornamenti virili.
Ora con buona grazia vostra, signor Buoninsegni, perché chiaro apparisca, se voi a ragione avete discorso, voglio far comparir in iscena agli occhi di tutto il mondo gli uomini vestiti all’uso moderno, e poi siate giudice voi se ’l vostro delirio academico, o vogliam dire sogno d’infermo o pur lamento d’ammogliato, sarebbe stato meglio impiegato in detestazione del virile che del feminil lusso. Immaginatevi di veder questi Polidori che, doppo aver stancata una meza dozina di pettini con la zazzera, altretanti ferri tepidi con la barba e cento altre frascherie, escano di casa a portar all’universo una pomposa vista delle loro bellezze e attillature. Eccoli con una capigliatura non riccia, ma arricciata, ogni crine della quale sta cosí studiosamente ordinato che meglio nol disporrebbe il pennello d’Apelle. La barba e i mostachi son stati in guisa domati col ferro e col fuoco c’ha bisognato che lascino i moti naturali. Quella e questi resi cosí lucidi dall’oglio di gelsomino, di cedro, o d’altro, che paiono finissima seta non peli. Qualcheduno ancora non s’arrossisce di farsi rosso, sterparsi e assottigliarsi le ciglia. Ma che arrossirsi? Come potranno temer la vergogna coloro che non temono Dio? Gli abiti sono tutti lascivia, vanità, e affettazione.
Se non basta che siano di felpe, veluti, damaschi, e altri piú sontuosi drappi, si coprono di merli e vi si sottopone una fodra, non men preziosa ma colorata, ch’apparisce in mille luoghi a farsi vedere e a testimoniare che, se vestono di nero, il fanno piú per conformarsi all’uso che perché la vanità del loro cervello non si compiacesse piú della leggerezza di mille colori che della sodezza del nero. Vogliono poi anche che si sappia c’hanno la camiscia di lino finissimo, e perciò ne fanno apparir la maggior parte scoperta da vari tagli a ciò destinati, perché si veda che la portano tutta adorna di punti fiamenghi e di lavorieri in aria. Non mancano le catenelle al collo e i manigli alle mani per contrasegno della loro pazzia. I collari e maneghetti vagliono tesori, ne’ quali per radoppiar la pompa e la spesa si radoppiano gli ordini di merli e s’elegono le piú fine tele che sappia intesser la Fiandra. Questi sí gran campioni hanno poi sempre seco un essercito di stringhe con pontali d’argento e d’oro, di gallani, annelli, raccordi, e mill’altre bizzarie varie e di tanti colori che tolgono il vanto alla coda del pavone. Anzi, apunto perché si conoscano tanti vanissimi pavoni, per non aver, come fa questo animale, a rimaner mortificati nel rimirarsi la deformità de’ piedi, se li coprono e vestono con esorbitanti dispendi. La gamba è involta in calze d’Inghilterra, forse perché i piedi non abbiano da invidiare l’insegna di Diana al capo di molti; e molti d’essi portano nell’estremità della scarpa la forma di meza luna, verace simbolo della leggera instabilità del loro cervello. Fra tanto l’infelice piede si duole di non poter far pompa della sua grandezza, perché, oltre l’esser angustiato e tormentato fra le strettezze, è coperto da una rosa cosí smisurata che, quand’anche ei fosse piú longo di due palmi, per la grandezza del paragone sovrapostogli par picciolissimo.
Siamo ai piedi e perciò mi persuadevo aver finito di descrivere il lusso e vanità virile, ma in modo lui soprabonda la materia ch’io non voglio tralasciar di scorrere alcune bagattelle che mi sovengono. Ben ho detto a dir bagattelle, perché apunto son fanciullagini e frascherie che fanno palesemente apparire che gli uomini, ancorché aggravati di moltiplicità d’anni, perché bamboleggiano e rimbambiscono nell’intelletto, vestono anche di puerili arnesi il corpo. Lasciamo andar l’accennate leggerezze, benché sian sufficienti a farli conoscere per tanti fanciulli d’ingegno, e consideriamo altri accidenti esterni. Vi dicano per me quelle fasce di che si cingono (le quali, ancorché riccamente recamate, son, però, fasce che li testimoniamo per tanti bambini, non d’innocenza ma di vanità) se questi tali sian uomini o pur fanciulli di mente. Quella brazzaruola, cosí chiamata nella mia patria, che s’addattano alle spalle per sostener le bracche, non è ella una invenzione tolta da’ piú piccioli bambollini? E quel pannicello, che sovente carico di gioie, piú che per diffesa dello stomaco per vana ambizione da loro si porta, non é un formalissimo bavaruolo da puttino lattante? Ma se patteggiano nella vanità degli abiti, almeno poi non ingigantissero nella quantità del dispendio o pur sotto alla bellezza e preziosità delle vesti e degli abbigliamenti si ricoprisse un corpo e un animo bello e prezioso. Il male è che, se la superficie dell’ornamento è sontuosa e vaga, l’anima e il corpo sono sozzi e difformi per mille colpe e vizi.
Questi non sono dispendi e vanità, no, signor censore delle pompe feminili? Sono al dispetto di chi non vuole ? condonnatemi se parlo troppo liberamente ? dispendi e vanità, tanto peggiori e piú detestabili nell’uomo che nella donna, quanto che in lei, ch’è nata per esser il diletto e lo splendore dell’umanità, queste cose si ponno dir proprietà e convenienze, ma in lui, che dovrebbe esser nato alla fortezza e alla temperanza, sono e saran sempre improprietà e indecenze. Voi nondimeno tacete degli uomini, sparlando delle donne. So ben’io perché. Perché avete paura di qualche fulmine, sapendo che gli dei furono sempre fautori del merito feminile!
Oh sareste il tristo predicatore per l’anime, già che il timore vi fa tacere quello di che dovreste gridar fin alle stelle! Anzi, il vostro modo di discorrere fa errar me, che, se finora ho parlato in generale degli uomini, mi dichiaro adesso per sempre in questo o altro mio scritto d’intenderne eccettuati quelli che, virtuosi e buoni, il meritano.
Ma fortunato voi, signor Buoninsegni, a cui è dato il godere dell’ombra protettrice e della patronanza d’uno de’ piú gloriosi prencipi che sian vissuti negli andati secoli e adornino i presenti. Ben in voi le influenze di benigne stelle si sono fuori del loro uso mostrate parziali del merito, mentre v’hanno introdotto a godere la felicità di servire ad un prencipe, i chiarissimi splendori del cui sangue, destinato agli scettri, alla potenza, e alle vittorie, sono i minori lumi delle sue glorie. Che se ben egli non combatte attualmente ne’ campi di Marte, non gli mancarebbero, però, animo e forze per farlo; e con le preghiere rivolte a Dio è partecipe di quelle gloriose vittorie che secondano l’armi toscane maneggiate dal poderoso braccio del principe Mattias in Italia, il qual ha sinora fatto conoscere come si vinca pugnando, anzi, come col solo aspetto s’atterrischino e s’atterrino gl’inimici, si superino le fortezze e s’acquistino vittoriosi trofei, com’anche è a parte di quei generosi progressi che in servigio della Maestà Catolica son praticati dal valore del gran Lorenzo.
M’immagino che con orecchio poco grato potrà aver sentito i biasimi delle donne quel semideo che, immacolato in ogni azione, m’acerto ch’all’occorrenza avrebbe pronta la penna non che la lingua a lode e protezione di quel sesso che merita d’esser diffeso dalle voci e dalle composizioni d’ogni eroe. Mostra ben egli, col portar scolpite nelle sue qualità e costumi le deità feminili, d’esser il nostro nume tutelare. Ha Venere Celeste nell’aspetto, Pallade nell’intelletto, Diana nella continenza, Minerva nella sapienza, le Grazie ne’ moti e nella benignità, ed è l’Apollo adorato da tutte le Muse. Egli a confusione della vanità d’altri uomini non si vede adorno d’abiti a lui piú sontuosi e cari quanto dell’ecclesiastica toga, forse perch’è abito non molto disimile al feminile. Quando poi sarà quel fortunatissimo giorno ch’egli passi a render adorna una porpora del Vaticano e dalla porpora ascenda al trono di Pietro, allora tornerà il tranquillissimo tempo dei sacrosanti Medici Leoni, né piú la misera Italia vedrassi svenata dal ferro de’ suoi figliuoli, inondar nel proprio sangue, ma il mondo cristiano riposerà all’ombra d’olivi fecondati e coltivati dal gran pastor Leopoldo, per quiete e sicurezza del caro gregge consignato a lui dalla divina mano. Ama egli fra tanto d’aver la chioma raccorcia e adorna di sacra beretta, non di lasciarla innanellata, come gli uomini vani, pazzi, scherzo de’ venti, e fia ch’egli, prima che d’altre gioie, ingemmi le vesti coi rubini preziosi del sangue di Cristo.
Se tutti gli uomini fossero di questa sorte, non sentirebbero dalla mia penna rimproveri alle loro vanità, né si leggerebbero satire in biasimo ma panegirici in esaltazione del lusso donnesco, tanto conveniente e necessario quanto son convenienti gli ornamenti alle cose sacre e necessarie le donne e la loro bellezza alla conservazione di quell’universalità che constituisce il mondo.
Se voi imitaste il vostro signore, non avereste a temere d’incontrar le fortune sfortunate d’Orfeo. Ma io tengo questo per un tratto piú dell’ambizione che del timore, poiché fate, come si suol dire, in un viaggio due servigi: fate comparir le donne per piú crudeli delle Furie d’Inferno e fate comparazione di voi stesso con Orfeo, che malamente, s’egli oggidí vivesse, sarebbero degni gli uomini di corrergli dietro ad ascoltarlo con le altre cose insensate. Quella delle Baccanti è favola, e poi gli abusi di quei tempi concedevano, anzi, onoravano questi eccessi furiosi e pazzi, come sacrifici fatti a Bacco, sí che può dirsi che le donne di Tracia si mostrassero piú tosto pie che empie e crudeli in dar la morte meritata a quel profano cantore, a cui, voi signor, sète simile, non meno nella soavità del canto che nell’aborrire il sesso donnesco. Ma ben le antiche e le moderne carte sono segnate di mille istorie funeste che fan conoscere l’uomo iniquo per lo piú crudele e efferrato animale che viva. Vivono purtroppo anche al presente i Neroni e i Masenzi. Quante, oh quante feritadi, ingiustizie, e iniquità si praticano oggidí. L’un fratello ammazza l’altro, non per altro che per non perdere l’eredità. Gli uomini uccidono le donne per impadronirsi d’un poco d’oro, impietadi non inferiori dall’esercitate anticamente in Anasarco, pestato in un mortaio, e in Perillo, inventor di machine tormentose.
Ben fate a procurarvi altro ricovero dai fulmini feminili che gli allori, de’ quali Dafne sarebbe piú tosto obligata a darvi il tronco intorno le spalle che le foglie intorno le tempie. E voi, come cavaliere gentile, mentre gli ne date evidente l’occasione, dovreste piú godere di quelle percosse che delli pregi piú sublimi che vi dispensi Apollo.
Chi ha commesso un delitto grave s’ingegna di provedersi d’una protezione proporzionata. Voi ch’avete offesa la donna, ch’è la piú bella e piú meritevole creatura che sia uscita dalle mani di Dio, implorate a protegervi il piú glorioso e meritevol principe che da Dio sia stato destinato alle corone e agli scettri. La protezione, se l’ottennerete, non potrebbe esser né piú sicura né piú fortunata per voi, poiché valerebbe a diffendervi dai fulmini di Giove non che delle donne; ma temo del contrario, perché il gran Ferdinando, avezzo e dedito a proteggere la virtú, non vorrà compartir l’aura del suo benigno patrocinio ad una penna e ad una lingua che procura d’impiegarsi ne’ biasimi di quel sesso che, generando sudditi ai principi, non può esser loro se non caro e gradito
. Io bensí, non indarno, implorerò la di lui giustizia onde mi faccio ardita di citarvi inanzi al tribunal del suo sdegno, come che, osando di detestare il merito delle donne, né pur una escludendone, vi sète reso reo di lesa maestà appresso la Sua Serenissima moglie, le condizioni di cui dovrebbero bastar a ritrar ogni piú ardito ingegno dal biasimar le donne, quando che in lei sola stanno raccolte qualità tali che bastano a render glorioso il sesso tutto. Che se ben le prencipesse sue pari, come semidee, devono esser segregate dal numero dell’altre donne, questo è un accidente del lor merito non una sostanza della loro natura, com’anche è particolar effetto della bontà di cotesta Serenissima (non essendole stato in queste italiche turbolenze concesso il portarsi fra le battaglie con la spada e l’usbergo) impugnar l’armi di sante orazioni ed esercizi spirituali, che forse son quelli c’hanno chiamati falange ed essercizi d’angeli alla protezione dell’armi toscane.
Ma forse di soverchio avrò osato intentar che la mia bassa penna voli a quell’Altezze che si devono piú riverire che lodare. Mi taccio, dunque, signor Buoninsegni, lasciandovi fra i tormentosi rimproveri della vostra propria conscienza per aver offesa la verità, rendendovi consapevole che le donne innocenti e buone, conscie a se stesse del proprio merito, nulla stima fanno degli altrui bugiardi concetti, non valevoli con la negrezza degli inchiostri a macchiar i purissimi candori dei gloriosissimi vanti feminili, poiché
Nube, che col favor di fieri venti
Al sol fa velo e ’l mondo discolora,
Non toglie al sole i raggi suoi lucenti,
Né perde il pregio suo, benché talora
Noiosi esprima e mal temprati accenti
Tocca da rozza man, cetra canora.
IL FINE