FERRANTE PALLAVICINO
IL CORRIERO SVALIGIATO

AL MOLTO ILLUSTRE ED ECCELLENT[ISSIMO] SIGNOR LELIO TALENTONI
Molto Illustre ed Eccellentissimo Signore.
Come servitore Osequioso a V.S. Molto Illustre ed Eccellentissima, ho sempre desiderata opportunità d'occasione per dimostrarmele, quale professo d'essere, divotissimo al suo merito. Essendo duplicato il mio obligo e per l'osservanza che devo alla sua singolar virtù e alla congiunzione del sangue: e tanto più ardente il mio affetto per la corrispondenza a tanto debito. Questa opera, che s'attende dall'universo con avidità, come fatica decantata gloriosa, parmi meritevole di portar in fronte il di lei nome, e di sostenere in conseguenza li segni del mio osequio. Riverente però la consacro a V.S. sperando che come godrà il libro un publico compiaccimento, così a me verrà l'acquisto della di lei grazia, come la desidero e ne la prego, mentre per fine me le rassegno
Devotissimo servitore
Ginifaccio Spironcini.
A CHI LEGGE
Non vi maravigliate, o Lettori, se giunge questo Corriero da parte onde meno era aspettato. È proprio de' Corrieri il far i viaggi improvisi contro ogni pensiero, poiché fa di mestieri regolarsi a chi commanda. Questo (massime che, prima svaligiato e poi anche perseguitato, risarcir doveva li danni patiti) era necessitato d'aggiustarsi alla necessità. Quindi ha trasferito in Germania il viaggio, ch'esser doveva in Italia. Capitò questi mal acconcio nelle mani del Signor Barone d'Hochenperg, Cavaliere conosciuto non solo quivi, ma in Italia ancora, dove ha consumati molti anni della sua gioventù; prattico però nella lingua Italiana al pari d'ogni altro che prenda l'idioma dalla nascita. Chi glielo raccommandò, inviandolo da Roma, pregollo ancora di procurarne ogni maggiore sollievo, per sodisfazzione universale. Ha però fatto sì ch'egli compare a publica luce, senza più temere chi gl'invidiava li vantaggi delle sue glorie. Dal primo suo autore non riconosce quasi altro che il solo nome, da cui ha ricevuta fama; variato per altro in conformità delle acque, le quali cangiano natura, secondo li luoghi per gli quali passano. Alcuni ingegni vivaci hanno aggiunto buon numero di lettere, supponendo che ciò lor permettesse la qualità del libro, e avvalendosi in ciò della incertezza dell'autore, come, nella composizione, della licenza del paese. Altro non m'occorre che aggiungere, fuori di ciò che leggeasi in una protesta dell'autore, la quale andava a capo del libro, ma s'è tralasciata per essere imperfetta. Per variare le materie in queste lettere è stato necessario l'introdurne alcune, poco convenevoli ma però singolarmente curiose. È un libro fatto per gioco, là dove si pretende che altri non debba prenderlo da dovero. Gli scherzi delle lassivie non avranno forza in giudicii maturi, né si commoverà per quelli chi ha buon capo, e buona virtù. Da' sciocchi non saranno penetrati, o se pure penetrati, non sarà gran cosa che facciano traballare chi senza sodezza alcuna è qual foglia al vento. Ne' luoghi Satirichi non ha luogo, se non chi è infetto de' vizi che si condannano. A' letterati non si riserba altro, dalla miseria de' secoli, che l'autorità d'essere giudici delle altrui azzioni, per premiarle con perpetua lode, o sentenziarle ad eterna infamia ne' loro scritti. È incorrotta la giustizia della penna, perché biasimando la tirannide de' Principi o le sceleratezze d'altro grado di persone, ferisce solo chi è colpevole. Ritornano contro gli scrittori que' vituperi, che si vibrano contro d'un innocente, o virtuoso. Chi non ha buona armatura, non s'accosti a questo libro; e chi ha piaghe s'allontani, poiché saranno troppo dolorosamente esacerbate. Chi altrimente è sicuro, venga pure, certo d'esser immune da ogni offesa. In questo quadro esposto a gli occhi del mondo, sarà lecito l'osservare le condizioni de' più Grandi, poiché quelli che s'irritaranno al vedere le quivi contrafatte sembianze, daranno a vedere di conoscer ivi effigiata la propria deformità. Chi in somma si risentirà, quasi ferito, mostrarà di non avere corrazza, la quale resista a' colpi, non che gli ribatta.
IL CORRIERO SVALIGIATO
Dubitò, sono alcuni mesi, un Prencipe d'Italia, che si negoziassero trattati a' suoi danni da' ministri di Spagna, avvezzi mai sempre al machinare sconvolgimenti nella felicità dell'altrui quiete. Volle però che fossero intercette le Lettere del Governatore di Milano, dirette a Roma, e a Napoli; sperando di poter con esse disingannare i propri sospetti, o porgli maggiormente in chiaro con la notizia che desiderava.
Questa fu la cagione dello svaligio del Corriero di Milano ch'allora seguì, ancorché in altra guisa siasi divisato, attribuendone la colpa a' malandrini, overo all'istesso Procaccio; come che di rado fallisce l'indovinio di furberie, in chi esercita questa professione. Poteva nondimeno ciascuno agevolmente figurarsi interessi d'alcun Grande, mentre nelle gemme, denari, e altra cosa di pregio, non fu compito il delitto. Era evidente la conseguenza, che solo principi erano complici in questo, là onde bastava quanto era concernente alla loro intenzione, per l'interesse di dominare. Eglino in ogetti di valsente non rubbano che molto, facendosi ladri di Cittadi, e di Regni, con pensiero che la grandezza del furto sia un manto alla colpa del patrocinio. Furono presentati a S.A. gli dispacci delle lettere, dalle quali trasse quelle sole che dal suddetto Governatore erano indrizzate al Vice Re di Napoli, e all'Ambasciatore di Spagna Residente in Roma.
Consegnò le altre a' Cavalieri della Camera, i quali disegnaronvi sopra un delizioso trattenimento.
Erano quattro gli principali, cioè a dire il Marchese di Salsas, il Baron di Moinpier, il Conte di Spineda, e il Cavalier Sinibaldi. Con vivacità propria di Cortegiano, pronta al cercare occasioni di mormorare, concertarono d'aprire le lettere, e sodisfare alla curiosità d'intendere gli fatti altrui, propria di chi vive in un ozio sonnacchioso all'ombra de' Grandi. Questa io rassomiglio a quella della noce; e come stimo proporzionato il paragone in una ampia estensione di grandezze, così lo conferma ragionevole la proprietà d'imbevere maligni umori, in chi sotto di lei riposa.
Principiarono il già stabilito gioco, e per prima carta n'ebbe il Cavaliere una alle mani, in cui così era scritto:
[I]
Illustrissimo Signore.
So che la mia Casa ha sempre riconosciuto ogni suo avanzamento su la base de' favori di V.S. Illustrissima. Quindi per non cangiar meta alle obbligazioni de' miei posteri, ho determinato ricorrere a lei, nell'occasione che mi si rappresenta d'avvantaggiare le mie fortune. Da uno sbirro mio amico, intendo qualmente costà s'attende la vacanza dell'ufficio del Carnefice publico, per una infermità pericolosa che trattiene in forse la vita del presente. Desidero d'essere sostituito in questa carica, né ho saputo prommettermi questo compiacimento con l'impiego d'altri che di V.S. Illustrissima, la di cui autorità conosco in eccesso abile al promovermi dove desidero, quando non manchino gli soliti effetti della sua gentilezza. Attenderò un tanto onore dalle sue mani, prontissimo a contracambiare la grazia col riservirla, conforme le mie forze, e con ciò facendo fine, riverente le baccio le mani.
"Se avesse scritto - disse il Marchese - di riservirlo secondo la sua professione, era una gentile promessa d'appiccarlo a prima occorrenza".
"Oh che felice incontro - dissero tutti sorridendo -. Per primo negozio abbiamo sortito lo scuoprire i traffichi d'una molto onorata ambizione".
"Non vi maravigliate - disse il Conte - perché simili dignitadi in Milano, dove è scritta questa lettera, truovano molti rivali. Sono alcuni anni che truovandomi colà io stesso, in occasione d'una simile vacanza, seppi che furono presentate in Senato diciotto suppliche di pretendenti".
"E come - ripigliò il Barone -, sono in quella tanti furbi, e ladri, che pure dovrebbero atterrirsi dalla quantità di questi, ch'aspirano ad un Magistrato così rigoroso per loro?".
"Anzi - rispose il Cavaliere - la quantità degli scelerati cagiona la moltitudine de' concorrenti. Nel procurarsi questo onorevole impiego sperano per esso di preservarsi dal meritato castigo".
Fu conchiuso questo motteggiare con un riso commune, a cui succedette la lettura d'altra lettera del seguente tenore:
[II]
Reverendissimo Signore.
Con molta mia sodisfazzione le ultime di V.S. Reverendissima m'avvisano degl'interessi di costà, in materia di quelli ch'aspirano al Pontificato, e di quelli che attendono la promozione de' Cardinali. In ambedue li particolari una prolongata aspettazione terminarà nella morte di molti. Il vento dell'ambizione, trattenuto lungamente in costoro, fa di mestieri che per sventare la loro gonfiezza, gli faccia crepare. Questo Pontefice schernisce chi su'l suo morire fabrica la speranza delle proprie grandezze. Su'l feretro, che ha portati molti di questi alla tomba, ha veduto condursi trionfante la sua gloria, ch'invidiata, nuoce solo a chi non sa compatirla. Parmi bene, che con poca carità egli permetta che tanti col capo scoperto stiano attendendo il Capello, con pericolo che si raffreddino; e già si vede, che ciò in alcuni ha cagionata una tosse tanto rabbiosa, e una replezione di catarri, che fa sputar salso, e amaro. Mi rispose uno l'altro giorno in simile proposito, che il Papa aspettava che fossero vacanti i luoghi di quel Sacro Collegio fino al numero di ventiquattro, per poter vantarsi d'aver fatti Cardinali a dozina; quasi che quelli i quali già sospirano questa promozione, siano personaggi da mandar a dozina. Io ripresi il motteggiare di costui, dicendo che più tosto desiderava quel numero per mostrarsi quasi maggiore di Christo, il quale fece dodeci Apostoli soli, ed egli brama raddoppiarne la quantità, tali essendo per appunto questi cardini e sostentamenti della Chiesa. "Non in grazia! - replicò l'amico -: perché se in questa conformità dovrà moltiplicarsi ad ogni dodeci un Giuda, s'adunarà un Concistoro di ribaldi, e traditori". Lasciamo le burle. Con grande politica il Sommo Pontefice differisce all'ultimo della sua vita il riempire que' Sacri luoghi, per constituire in sua vece copia d'aderenti, e seguaci, a' nipoti. È molto bene fondato pensiero, mentre l'aversi egli acquistato l'odio di tutti gli Principi, gli lasciarà necessitosi d'appoggio, allor quando manchi il sostegno della sua autorità e grandezza. La copia degli denari accumulati a loro pro, non acqueta il timore di forse troppo istravagante rivolta delle loro fortune, perché esempi non molto lontani danno a vedere che i tesori di Christo non giovano che allor quando si dispergono nelle Indulgenze e ne' Sacramenti. V.S. Reverendissima m'intende. Non ho mai potuto aggiustare il credito a ciò che si disse ed ella pure m'accenna essere voce di publica fama, nel particolare dello Stato d'Urbino. Sarebbe stato colpo di gran conseguenza, ed egli solo avrebbe potuto gloriarsi d'avere stabilite per gli Nipoti quelle grandezze le quali non possono fermarsi, come incorporate nel sangue di Christo; il quale, con un corso quasi dissi precipitoso, s'incamina sempre al publico giovamento. Non giudico che la prudenza d'uomo sì saggio erri in figurarsi un corpo reale nell'ombra dell'impossibile. Credo ben sì, che come perfetto politico, permetta a publica notizia quegl'interessi soli, ne' quali meno colpiscono i suoi disegni. Io per me non oso di chimerizare tutti gli suoi capricci: conchiudendo, ch'egli lascia il tutto in enigma, come Christo compiva tutti gli discorsi in parabole. Non aggiungerò altro, per non abusarmi della gentilezza di V.S. Reverendissima alla quale m'offro svisceratissimo servitore; con assicurarla che tale mi truovaranno mai sempre i di lei commandi, quale mi dichiarano queste offerte; con che etc.
"Riserbo appresso di me questa lettera - disse il Conte - per consegnarla alle fiamme".
"Ciò dite forse - soggiunse il Marchese - perché sparla de' Cardinali, e del Pontefice? Ben si vede che, poco esperto negli studii della Metafisica, non avete cognizione degli astratti, coi quali può condannarsi l'imperfezzione di Ministro Sacro, senza offendere l'autorità e il grado, che devono mai sempre inchinarsi. D'Iddio solo, come infinitamente buono, non possono farsi astratti d'imperfezzione".
"Oh come facilmente - ripigliò il Barone - rappresentandocisi questi Porporati, abbiamo colpito nelle sottigliezze!". Interruppe i loro motti il Cavaliere con la proposta d'un'altra lettera in cui così era scritto:
[III]
Eminentiss[imo] Signore.
L'interesse di conservarmi nella grazia di V. Eminenza non permettendo che decada la memoria della mia servitù, mi commanda l'essere importuno in riverirla. Quanto più frequenti sono gli attestati della mia devozione, tanto più sono osequiose l'espressioni della mia osservanza. Co' desideri vado mai sempre accelerando le occasioni di servirla; così prego V. Eminenza ad affrettare i suoi commandi, accioché l'onore di questi m'assicuri delle solite pruove della sua singolare gentilezza; con che ricordandole i miei interessi, faccio fine, bacciando riverentemente la Sacra Porpora.
"Ecco - disse il Marchese - il termine dell'adulazione con cui si lambiscono le porpore de' Grandi per riportarne l'ostro, se fosse possibile, al fregiare gli abiti della propria ambizione".
"A fé - soggiunse il Barone - che poco si guadagna con costoro, i quali, svenate le Murene per abbellire le vesti, vanno cercando mai sempre di smunger altri per arricchire loro stessi".
"Che volete - ripigliò il Conte -, costoro si vanno pavoneggiando almeno del riflesso di quelle pompe, che servono talvolta a cuoprire i loro disegni, come sempre ad ammantare sceleratezze. Sperano pur una fiata d'avere qualche straccio di porpora, quando sia corrosa, e farsene un guardastomaco, a fine di renderlo buono al digerire i disgusti, e gli affanni, che suol tolerare un ambizioso per giungere a' suoi fini".
"Credomi più tosto - replicò il Marchese - che se n'avvalerebbero per foderare le pianelle contro il rigore delle persecuzioni, a fine anche d'agevolarsi il conculcare quelle porpore che furono ad essi cagione di molti patimenti". "Orsù, finianla - disse il Cavaliere -. Io soglio chiamare questi tali tanti moccoli, i quali stanno vicini a queste fiamme ardenti nell'apparenza per accendersi, con intenzione di comparire quasi luminari doviziosi di luce. Ma si consumano e struggono senza avvertire che, quando ancora risplendessero, sarebbero quasi lanternoni, i quali servono al dar luce alle sale e alle anticamere di questi porporati".
Per impedire più longo discorso in questa materia, copiosa di tratti di maldicenza, propose egli stesso l'argine d'un'altra lettera in cui così era scritto:
[IV]
Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore.
Sì come, se il Sole non si vede, s'argomenta che sia coperto di nubi, o si conchiude essere tempo di notte, posciaché un Pianeta, fonte di luce, un luminare, originaria latebra di tutti gli splendori, una barra, che porta mai sempre non dico semiviva ma estinta l'oscurità, non può essere che manchi de' soliti pregi, decada dalle sue glorie, defraudi le ricchezze del Cielo, che della sua sfera pomposo se ne va, con passo benché veloce, riguardando se stesso nello spazioso specchio del mare, e raffigurando nuovo Narciso pare che dell'Imagine sua invaghito in quelle onde si formi sepolcro, là onde, con soverchio pregiudicio dell'universo, vedrebbesi inlanguidito, sovra un catafalco di tenebre, piangere celebrato il suo mortorio: così V.S. s'assicuri qualmente, se bene io non mi presento a lei sovente con dimostrazioni della mia servitù, non per questo resta che sia mancata l'osequiosa devozione de' miei affetti: e con questa certezza, obligando lei ancora a non privarmi della sua grazia, faccio fine, e le bacio le mani.
"Maledetto chi ha insegnato a costui il modo di scrivere - disse il Barone -: mi rassembra un Asino in Catedra, che su'l quinci e su'l quindi riformi la dettatura del Cieco d'Andria, o la scrittura del Zucchi".
"Avrà imparato - soggiunse il Conte - da alcun moderno, che pure fa professione di Secretario".
"Stimo più tosto - replicò l'altro - che con un centone di concetti rubbati, come usa chi scrive a' nostri tempi, egli abbia formato un miscuglio di spropositi. Sarà forse costui nel numero di quelli che non credendo alla propria ignoranza, stimano qualmente una carta vergata d'inchiostro faccia un letterato, come è costume ch'una toga faccia un Dottore".
"Non posso tacere un bel motto - disse il Cavaliere - di questi Dottoracci, i quali non avendo d'uomo saggio altro che l'abito, sta loro mal acconcia la toga. Soglio dire che mi raffigurano in un sacco, là onde può dirsi che sono in sacco, quasi convinti, prima anche di disputare, e con questa insegna rimuovono ogni questione che potesse loro proporsi".
"Può dunque - conchiuse il Marchese - appropriarsi a questi il proverbio di non comperar gatto in sacco, per avvertimento di non affidarsi alla dottrina posta in questi sacchi togati, la quale per ordinario non è che un inganno d'apparenza". Risero tutti, mentre il Conte richiamò la curiosità de' compagni accennando d'aver nelle mani una lettera scritta ad una dama. A prima faccia si ravvisò ch'era d'amante sdegnato.
"Avrà - dissero - ingegno chi scrive, se non fintamente sarà irritato contra una donna". Così diceva:
[V]
Ingrata.
Non mi bastano i rimproveri, i quali ti lasciai per ultimi saluti nel mio partire, perché uno giusto furore non così facilmente s'appaga. Inviai contra te la lingua, foriera de' miei affetti, che t'annunziavano i sentimenti del cuore sdegnato. Ero inquieto in me stesso, se alle proprie vendette non permettevo il concorso anche delle mani. E perché è viltà l'impiegarle in ferire o offendere una donna, è stato di mestieri compiacere a me stesso coll'usarle in lacerarti con la penna; se pure sei capace di scissura, fatta tutta cenci d'infamie e dissipate reliquie di vituperio. So che ti beffi di questo mio sdegno: come che la femina mai non si duole se non piange con stille di sangue, e già le ordinarie lagrime sono liquore d'inganno e trattenimento della simulazione. Godrò nondimeno di publicarti sola cagione onde, fatto appresso di me abominevole il tuo sesso, m'ha necessitato al decantare una palinodia d'ignominie, quale vedrai descritta in questo foglio, quando tu non sia insensata come sei irragionevole. Dalla tua ingratitudine, fatta ultimo limite di pessimi costumi, ho appreso che la donna altro non ha d'umano che il volto, per mentire anche non parlando, e per avvertire qualmente non devono attendersi che frodi da chi inganna a primo aspetto. Communica nel genere con l'uomo, appropriandosi anzi tutta la bestialità che può seguire l'esser animale. Ma in ragione di differenza essa non ha punto di ragione, perché, senza senno, opera quasi bruto, non quasi ragionevole. Non conviene in somma con l'uomo che nella declinazione dell'hic et haec, in contrasegno che voi femine siete a noi congiunte solo per avvilire le nostre grandezze, e far declinare la nostra felicità.
Altrimente, se si ricercano Sfingi, Pantere, Tigri e altre fiere o mostri, basta una donna per offerirci, unite in un supposto, le più crude belve e le più bestiali nature. Nel tuo sesso non ritruovasi per ordinario altra potenza ragionevole che la volontà, dominata talmente dalle passioni ch'è fatto infallibile asioma il dire la donna essere senza giudicio. Quindi o sfrenata nella libidine, o sregolata ne' furori, non ha mezo termine, in vigore di cui segua conclusione d'umanità. Allor quando con miti sembianze, con teneri vezzi, con gentili maniere, dà a credere d'aver furato alcun saggio d'essere umano, dicasi pure che, rapite alla Sirena le lusinghe, usurpate d'altra fiera le frodi, veste abiti d'inganni per compire tradimenti. Qual Polpo che si cangia in iscoglio per facilitarsi la preda, si tramuta quella con apparenze d'uomo per agevolarsi il mentire.
E quale è la ragione per cui gli amanti, nelle loro operazioni, hanno imposta necessità di circonscrivere il proprio essere con termini che dinotano privazione d'intelletto? D'onde procede in essi il vivere senza legge, perché sono senza ragione, fatti però meritevoli di vedersi condonato ogni fallo, come a' mentecatti e privi di senno? Non altronde, al sicuro, che dall'aver inserti ne' loro petti, per forza d'amorosa trasformazione, i cuori delle donne amate. E in qual modo, avendo cuori non collegati con vita intellettuale, potranno vivere in atti ragionevoli? Misero quell'uomo che, facendo sua anima una femina, fa sua essenza affetti di bestialità, ed effetti di pazzia. Deve credersi ch'ella, sin dal nascimento pratticando la proprietà d'appigliarsi al peggio, delle due urne poste al soglio di Giove, nell'uscire dalle sue mani, prenda quella del male, e tutto l'assorba. Quindi con l'ostinazione variando la dipendenza dell'intelletto e della volontà, mentre questa, dominante per i suoi disordinati costumi, s'apprende al male, fa di mestieri che quello pure appruovi ciò solo ch'è contro ragione.
I semi della prudenza infusi nelle umane menti, come diceva quel saggio, quando s'inseriscono nella donna, sono investiti d'una natura tanto corrotta, che producono frutti molto dissomiglianti dall'origine. Che se il vero uomo, cioè a dire il perfetto sapiente, ha per trono una pietra quadrata a fine d'accennare i pregi d'una immutabile constanza, invariabile base dell'eternità dovuta al suo merito, non potranno queste glorie aver seggio nel tuo sesso, tanto volubile e inconstante che la fortuna, unico vento da cui si sconvolge il Mondo morale, per sembianze d'inequietudine, fu vestita di spoglie feminili.
Ma pure il concedere nelle donne quell'intelletto, che non può negarsi, per avere elleno ancora anima individua della nostra specie, ci obliga al credere, secondo la dottrina di Pittagora, che l'intelletto sia il nostro Genio; sì che chiamar potremo la donna il Genio reo, in contraposizione del buono. E se il titolo di Genio reo s'appropria a' Demoni, destinati a rimuovere ogni nostro bene, fattici guida ma a' precipizii, non sarà che ben detto delle femine, per le quali, precipitando ogni ora, l'umanità rimira disperse le sue grandezze negli abbissi ne' quali terminano le sue cadute. E per non lasciare che traballi il discorso su fondamenti non assodati, dimmi, in qual tempo già mai, o in quale stato, non sono le femine un mobile Inferno, giurisdizzione pur troppo stabile delle disgrazie, per continuare contra l'uomo i tormenti e le pene? Nella gioventù, se sono amabili tormentano, se odiose annoiano, se amano tiranneggiano, se non amano uccidono. Se vivono da noi lontane angustiano i nostri desideri, se vicine si fanno sensibili con molti affanni. Ciò che le rende aggradite le fa altiere; se non hanno onde insuperbiscano, sono sprezzabili. Quando sono belle sono crudeli, quando diformi lascive; là onde chi le brama languisce, chi esse desiderano geme travagliato dall'importunità delle loro persecuzioni. Se mancano d'esser inumane, non lasciano già d'essere superbe e avare; e se non smungono le vene, svenano borse; e quando anche ricusino di vedersi a' piedi cadaveri giacenti, si gloriano d'avere prostrati supplichevoli.
Nella vecchiezza poi, con molto maggiore discapito della ragione, concertano la perversità de' costumi co' progressi del tempo, che nelle rughe va ristringendo a bell'agio que' lusinghieri apparati ch'ad alcuno incauto le persuasero un teatro della nostra felicità, e un campo fertile delle umane contentezze. Al crescere degli anni, o avanzando l'infamie della loro professione, o infamando d'avvantaggio i propri desideri, mostrano che s'è increscapata la deformità del volto, a fine di rinforzarsi in questa unione, onde s'impedisca un mentito riflesso delle qualitadi dell'animo nelle menzogne d'un vano e artificioso lustro. Fatte ambasciatrici d'amore, danno a vedere qual fosse il loro giudicio, che maturato dal tempo ha meritato così principale impiego nel Regno delle dissolutezze. Si scorge da qual abito invecchiato abbiano in quella età comperato l'argento della canizie, per ispenderlo in tributo delle disonestadi, come pure andarono dispergendo l'oro di bionda chioma. Ne' prestigii pur anche e nelle superstizioni, fatte ministre più intrinseche nel Regno de' Demonii, fanno apparire il merito ch'appresso tal regnante ha potuto avanzare tant'oltre cogli anni la loro condizione.
Quando con le bellezze degli anni giovenili hanno perduta l'autorità d'essere Fiere nel lacerare i cuori, divengono aderenti delle Furie, per concorrere con maggior forza a gli altrui danni. È pur vero che le Circi, le Medee, le Meduse, e le Megere, furono, se non vere femine, veri simolacri di quelle sembianze che seco porta la donna. Ciò ben connobbe la prudenza degli antichi Romani, i quali vedendo comparir nelle publiche piazze avanti i tribunali una femina s'atterrirono, quasi a vista d'infausto prodigio, e ricorsero per rimedio d'un tanto terrore all'Oracolo. Mercé ch'in pregiudicio dell'umanità, essendo pessime le donne più che i corvi, augurano non altro che affanni, e sciagure.
Ho lodato mai sempre il paragone della femina con la vite, come che quest'albero anch'egli è apprezzabile nel solo punto della fecondità, oltre di cui non ha altro privilegio che l'essere riserbato alle fiamme. Quindi, vivendo, non sa che piangere, forse in quelle acque preparando diluvi da' quali s'estinguano gli ardori che sa di meritare. Ed ecco l'attitudine del tuo sesso al lagrimare a fine di truovar varco alla simulazione, onde o naufraghi l'altrui durezza, o giungano in porto i suoi desideri. E in allusione cred'io a questa somiglianza, punivansi da' Romani i loro Cittadini con verghe di vite, seguendo forse i documenti del Cielo, ch'a gli uomini, Cittadini di questo Mondo, non si rappresenta in atto di castigo con più crudi flagelli che di questa vite animata; non avendo noi maggiore tormento che la congiunzione o simpatia con la donna. Né può negar costei d'essere vite, mentre come questa appunto avvitticchiandosi fatta tutta lacci e tutta funi, serve solo al legar l'uomo e ad imprigionarlo. È però compatibile in questi legami, mentre viene commandata dalla necessità di procurarsi sostegno, per non rimaner orfana d'ogni pregio e grandezza. Infelici donne se, non sostenute dall'uomo, non avessero questo appoggio alla propria fiacchezza, per non traboccare ad ogni momento, come cieche o pazze, in mille precipizii. Ciò intesero le donne Tartare, le quali usavano di non riconoscere su'l loro capo maggior addobbo, né più prezioso ornamento, che la forma d'un piede umano, per significare che la femina, essendo senza cervello, e priva d'ingegno, non ha gloria maggiore che la sogezzione all'uomo. Con segni di questa, in figura d'essere calpestate, onoravano la più nobile parte di loro stesse, non così sciocche come le altre, che la fregiano co' tesori d'un sepolcro depredato o l'aggravano con intrecciate catene, popolate di gemme.
Ma pur è vero ch'ingrate e tiranne, se non altronde lice loro prendere lo scettro sopra l'uomo, fondano un orgoglioso dominio su l'impero di fugace bellezza, per travagliarlo sotto il giogo d'un indiscreto commando. Volubili mai sempre, e inconstanti, strascinano dietro a' loro variabili voleri que' cuori che da maligno influsso ricevono in pena l'obligo d'assoggettirsi a' loro spietati rigori. Non è facile truovar meta a' rimproveri che merita la perversità feminile, tanto più empia quanto più, palliata sotto lusinghiere menzogne, con ipocrita sincerità tradisce gli affetti più fedeli. Dalla tua conversazione ho appreso qualmente, anche nel sommo de' vituperi, fa di mestieri confessare scarsezza di biasimi quando si condanna una donna. Non m'estendo più oltre, non perché bastevolmente sia sodisfatto il mio sdegno, ma perché non voglio più a longo mantenere ne' miei pensieri quel tumulto con cui sconvolge ogni mia quiete la memoria de' tuoi tradimenti. Ho descritti que' motivi da' quali può rendersi aborrito il tuo sesso, accioché t'assicuri d'una volontà totalmente pervertita in odiarti. Rimanti con quella pace ch'a me ha lasciata la tua ingratitudine, e siano perpetue le pene dalle quali ti si rinfaccino i miei benché brevi tormenti.
"E pur una volta - disse il Conte - è compito questo processo, ripieno di tante veritadi quante sono le accuse contra le femine".
"Tutti - disse il Cavaliere - accusano le donne, ma non ritruovasi chi le condanni. Può dirsi che vadano universalmente al paragone dell'adultera del Vangelo".
"La cagione di ciò è in pronto - soggiunse il Barone -. Hanno facile il far corrompere gli uomini, là onde come giudici corrotti falsificano la sentenza, favellando a proporzione di ciò che s'usa ne' tribunali".
"Questi tali - ripigliò il Marchese - rassomiglio a' gatti, che con tanta diligenza nascondono le proprie immondezze, per sepelirne il fetore. Non altrimente chi più ama le donne occulta, sotto sembianze di sdegno, il fallo di questi amori". "Quindi succede - replicò il Marchese - che gli uomini grandi e che si vantano di maggiore autorità e sapere, a fine di sfuggire l'obligo di rigoroso pentimento per simile errore, collocano gli affetti in altro sesso".
"Orsù - conchiuse il Cavaliere -, non entriamo in Roma, cioè a dire in amore al roverscio".
In questo mentre trascorse cogli occhi ad una lettera diretta alla Republica di San Marino. Fu commune l'applauso alla sodisfazzione che n'attendeva la loro curiosità. Lesse nel sovrascritto: "All'Illustrissima".
"Può far il mondo! - disse il Barone -. Ha errato costui su'l bel principio, dovendo scrivere: "Alla Serenissima", come a quella gran Principessa che si nomina sorella della Republica di Venezia".
"E che pensate? - rispose il Barone -. Stimate forse quella Republica superba al pari di quella di Genova? Forse que' Signori, interessati più nell'agricultura che nell'ambizione, ricusano Serenità, desiderosi di pioggia".
"Non beffate - soggiunse il Marchese - que' grandi, i quali nelle insegne pareggiano gli Dittatori de' Romani, da' quali si portavano le securi, che però le portano anch'essi per tagliare legni e alberi, secondo la necessità e l'occasione".
"E non vi ricordate - replicò il Conte - de' Regi di Babilonia, i quali nella sommità dello scettro portavano un aratro? In conformità di che ciascuno d'essi dovrà chiamarsi Re, guidando ogni giorno ne' campi l'aratro".
"Non posso tacere, in avanzamento delle grandezze di costoro - ripigliò il Cavaliere -, che gl'Imperatori antichi passavano dalla zappa allo scettro, e dall'agricoltura al commando, là dove tutti gli ministri di quella Republica devono riconoscersi come Imperatori, mentre è ordinario questo loro passaggio dalla zappa allo scettro".
Avrebbero longamente continuato questo discorso, se il fingersi trattato di rilievo in quella lettera non gli avesse sollecitati al leggerla; truovarono però che così diceva:
[VI]
Illustrissima, etc.
Sono fuori della patria, ma non sottratto alla protezzione delle Signorie loro Illustrissime. Il bisogno di proccacciarmi il vitto m'ha condotto fuori, dopo d'avere servito alla mia Republica nelle cariche più stimate. Godo almeno di questa sodisfazzione mentre, riconosciuto non totalmente inutile, sperarò d'aver alcun merito all'occorrenza. Saravvi forse tra le Signorie loro Illustrissime chi sarà stato mio collega nell'ordine senatorio, che però ricordandosi della mia fedeltà, e diligenza, dovrà procurare che io sia gratificato, o per il meno non male rimeritato. Intendo qualmente a' mesi passati Bernardino mio fratello, abitante costà, comperò su'l mercato un boccale. Portò la disgrazia ch'in questo eravi un mascherrone rappresentante l'effigie di Nicolo Pandolfino calzolaio, uno de' primi sogetti di cotesta Republica. Giudicossi in ciò affrontato con molto sdegno, machinando le vendette contro il suddetto mio fratello. Non cessa di perseguitarlo, fin all'aver operato ch'egli sia posto prigione, quanto ingiustamente lo sa il Cielo; mentre mai non dissegnò d'offendere alcuno, ed è di lignaggio fedele, e di ceppo i cui germogli hanno sempre inchinati i nostri maggiori. Ho risolto di rimemorare la mia servitù, e gl'impieghi co' quali la nostra famiglia ha sempre affaticata la mano e l'ingegno in beneficio della sua patria. Supplico le Signorie loro Illustrissime di giustizia in causa che facilmente può rissolversi. E per l'esperienza ch'io tengo nel governo, stimo che la strada ch'io accennarò loro sia quella per cui potranno incaminarsi alla decisione del litigio. Dovrà portarsi in giudicio il boccale, fondamento dell'accusa, e confrontarsi l'effigie, occasione della rissa, con il vivo originale che si reputa offeso. Quando non siavi la somiglianza di cui egli si duole, dovrà procedersi alla liberazione di mio fratello. Quando il Diavolo volesse ch'al confronto apparisse la verità della querela, non può condannarsi a maggior castigo che a romper il suddetto boccale; il che, quando debba succedere, pazienza. Ricordo però anche in questa occasione la clemenza, avendo riguardo al non fomentare le mine della nostra povera casa. Se in sodisfazzione dell'offeso potesse contrapesarsi la rottura del boccale con alcun altro castigo, il quale non sia di pregiudicio al nostro avere, le Signorie loro in grazia abbiano a cuore la pietà, in cui confidando, come pure nella loro prudenza, consolare me stesso coll'augurare fortunato esito a queste mie suppliche; con che per fine, etc.
"E che dite - esclamò il Barone - di questi gravi interessi che si trattano in quella Republica?".
"Sono pur troppo rilevanti - disse il Cavaliere -, se forse il giudice in quella è un ciavattino, là onde essendo la materia di questo giudicio una pittura, potrebbe ragionevolmente contradirsi col volgato detto di Appelle".
"Nel particolare di proferir sentenze - soggiunse il Marchese -, sono saggi perché le pronunziano entro le tine, calcando le uve, emulatori del gran Diogene, che fu sapientissimo entro una botte".
"Ed ecco - disse il Conte - nuovo argomento della grandezza di que' Signori che fanno parallelo con quel gran Filosofo, il quale nella sua botte, benché ristretto da angusto giro, gloriavasi maggiore d'Alessandro, non contento dell'ampiezza del Mondo".
Aperse in questo dire nuova lettera, e fissando gli occhi nella sottoscrizzione, fece attenti i compagni, rendendogli maggiormente curiosi, mentre dopo averla studiata alcun tempo: "Si richiede - disse - un Edippo per risolvere l'enigma di questi caratteri".
"Saranno d'alcun Grande - soggiunse il Marchese -, perché i Principi per non esser intesi, come parlano con cenni, così scrivono con cifre".
"Oh che bella prospettiva - ripigliò il Barone - farebbero questi letteroni sopra una scatola di Speciaria ".
"Forse a chi doveva ricevere questa carta ella fora stata una speziaria, in cui avrebbe ritruovati aromati per condire i suoi ambiziosi disegni".
"A fé - disse il Cavaliere - che dalle Speziarie de' Grandi non esce che pepe e zenzaro, aromati i quali mordono e fanno piangere".
"Non ritocchiamo le nostre piaghe - replicò il Barone -. Studiamoci di ritruovare la contracifra a questi imbrogli. Parmi che dica: "Affamatissimo per scorticarla".
"Non è mala interpretazione la vostra - soggiunse il Conte -, perché i Grandi, più de' lupi ingordi al divorare le sostanze altrui, rassembrano sempre famelici. Oltre che hanno la mano sì pesante e indiscreta, che all'intenzione ancora di radere gentilmente, segue l'effetto di scorticare. Io però l'intendo: "Affaticatissimo per strapazzarla".
"E questa dichiarazione pure - soggiunse l'altro - va bene, perché il sussiego de' Grandi studia mai sempre nella scola de' dispreggi; in guisa che fa di mestieri a' cortegiani il riconoscere un soghigno, un motto ancorché mordace, un batter la mano su la spalla, per singolari grazie; e pure sono atti più di strapazzo che d'onore. Mercé ch'essendo professione de' Principi il vilipendere gl'inferiori, allora favoriscono quando meno offendono. A me nondimeno rassembra che questa sottoscrizzione dica: "Affettuosissimo per stroppiarla".
"Questa né meno - disse il Cavaliere - è mal fondata esposizione, perché l'affetto e desiderio de' Grandi inclina mai sempre al far zoppicare chi per merito e per virtù può ascendere a quei gradi di gloria ch'eglino stimano loro propri. Anche nel sollevare, talvolta, hanno la mira a' precipizii, da' quali, come ordinarii nelle grandi altezze, sperano potersi stroppiare coloro ch'essi abborriscono. Non saprei che aggiungere a queste vostre interpretazioni, se non dichiarassi questo "Affezzionatissimo per servirla" confusamente espresso, con pensiero di scrivere: "Affezzionatissimo per sepelirla".
"Tutto va bene - disse il Marchese -, perché il servire de' Grandi è indrizzato sempre al sepolcro, e la schiavitudine anche de' più fedeli non ha bene spesso altro riscontro che l'esequie d'un apparente dolore, o brevissimi encomi del loro merito, co' quali gli accompagnano fin alla tomba".
"Non perdiamo in grazia - disse il Barone - altro tempo in risolvere questa confusione, poiché colpiremo mai sempre in peggiori sentimenti". Posta però a parte quella lettera, n'incontrarono altra di maggior gusto, e del seguente tenore:
[VII]
Molto Illustre Signore,
Intendo da quell'amico, che volete provedervi d'una cavalcatura per passatempo della gioventù. Ho stimato debito della mia amicizia lo scrivervi intorno a ciò alcuni avvertimenti, assicurati dall'esperienza, e dettati dall'affetto, parziale d'ogni vostro giovamento. Suppongo che simile appetito nasca in voi da una leggiadria di gamba inchinata al calzare stivale e all'andar armata di speroni di buona punta. Quando non aveste gamba in tal modo disposta, deponete il pensiero, poiché il cavalcare vi riuscirebbe o di vergogna o di noia. Non bisogna stancarsi, e il correre con salti alla monta è contrasegno evidente d'aver imparati tratti di Cavaliere.
L'usare qualche polledro gentile, rassembra trattenimento più grazioso di giovane bizarro; e ha saggi di grandezza, essendo ad imitazione di personaggi di stima. Ma il pericolo in cui si sta d'essere scavalcato, e ch'egli vi prenda sotto, come indomito e feroce, rimuove le mie suasioni da questo particolare. Una continua inquietudine, un perpetuo nitrire, un moto altiero, un trotto noioso, annovero per condizioni le quali nel cavalcare porgono tributo all'ambizione più che al gusto.
Eleggete animale di corso, di cui in varie guise potiate avvalervi ad ogni vostro compiacimento. Un buon passo ordinario è molto apprezzabile, perché se tal volta, a fine di cangiar moto, si brama un trapasso, facilmente vi si conduce. Avvertite che il cavallo non sia avvezzo all'andar di tutta carriera, stando che il cavalcare simili bestie è un arrischiarsi ad entrare in precipizii. Non dovete avvalervene in un arringo o per correre su le poste; là onde il prolongare un viaggio di delizie è un felicitare con la privazione d'incommodo quei desideri, che mai non vorrebbero giunger alla meta.
Le qualità di d'un buon corsiero non istimo appo di voi così sconosciute, che fia di mestieri estenderne una appuntata descrizzione. Non dovete però aver la mira che a prenderlo di buona groppa, e dotato d'un portante, onde si renda delizioso il cavalcare. La grassezza non lo renda così ripieno di carne che raffreni il corso il timore di vederlo piangere con lagrime di sudore. Non sia né meno tanto smunto, che, oltre il rassembrare l'avanzo della morte, lo dimostri sepolto in una catastrofe d'ossa. Sia di buona vita, lungi da gravezza tale che per dargli moto faccia di mestieri richiamar alla vita Archimede; non però s'approssimi a stato di leggierezza, sì che facendolo credere un cadavero, l'abiliti ad esser portato a volo da' corvi.
Avvertite di non provedervi di cavalcatura la quale abbia servito a sogetto grande, perché oltre l'essere maggiore il dispendio, s'incontra talvolta la proprietà di Bucefalo, che permetteva d'esser cavalcato solo da Allessandro il Grande. Alcuni corsieri, quasi imbevuta l'ambizione de' personaggi a' quali s'assoggettirono, armano con la loro ferocia un altiero sussiego quando altri vuol dominargli. Èvvi questo pregiudicio almeno, che, avvezzi a poche fatiche, negano di sodisfare all'appetito di chi gli possede, essendo necessario servire alle lor voglie.
Abbiate a cuore l'intenzione d'avvalervene ad ogni occorrenza, in qual si sia forma e tempo può chimerizarsi, per maggiore loro aggradimento, da' desideri. Quindi per poterne fare ogni strapazzo, ricordatevi che sia giovane; non però in tale età che, senza aver avuto il maneggio, non sappia tener il freno in bocca. Chiamo disturbo, più che diletto, l'obbligo d'addomesticare una fierezza senza legge, e il dover condur un animale ad imparare le regole, allor che il gusto ne richiede la prattica.
È punto di considerazione l'osservare che sia senza vizii, il che se bene è difficile, con la cognizione però s'acquista l'attitudine al correggerli, o scansarne i danni. Questi apprendono simili bestie da chi le cavalca poco esperto nel reggerle, là dove traboccano mai sempre dietro l'inclinazione proclive al peggio. Apprendete però di non permettere ad uso d'alcun altro la vostra cavalcatura, per non esporvi a questo rischio, e per non vedervi defraudato del vostro compiacimento allor che, anelando sotto il peso d'altri, si renderà inabile al servirvi. Non v'affidate a' marescalchi e altri truffattori che servono di mezani in somiglianti vendite o compre; stando che il rubbare per sé, l'errare per voi, sono i punti de' loro inganni. Non v'invaghite del mantello, perché le apparenze tradiscono. Una vaghezza esterna corrompe mai sempre la fortuna di simili trattati, non considerandosi qualmente la cavalcatura deve servire a tutto fuori che a gli occhi. Un corpo ben formato, con indicii di robustezza, con sicurezza di gioventù, sia scopo della vostra elezzione, senza attendere in altre superflue qualitadi moltiplicati mezi per esser deluso. Molto meno vi rapisca una ricca sella o un freno dorato, perché questi ornamenti sono destinati bene spesso al valutare a rigoroso prezzo una rozza, e per far prendere una pillola amara sotto quella coperta d'oro.
Osservate d'accertarvi che sia esente da tutti que' morbi o mali che sono tanto peggiori quanto più occulti. Questi sogliono essere più ordinarii dove apparenze per altro vaghe allettano. In somma si tratta di negozio degno d'una accurata diligenza, perché, mentre cavalcate, dovete porre voi stesso in potere d'una bestia la quale può sepelirvi in un fosso, o profondarvi in un precipizio. Ricordatevi poi di moderare i vostri gusti, come che la soverchia frequenza del cavalcare inlanguidisce, e genera infermità tali che prendono per nutrimento lo stillato delle migliori sostanze. Ancorché la bestia, essendo vivace e ardita, parerà che sovente v'inviti, astenetevi, considerando che il vostro giudicio non deve secondare il genio d'un animale.
Un buon bastone serva di scettro per dominarla, posciaché gli speroni nell'atto del cavalcare sono vezzi, non punture. Sia vostra cura l'abituarla ad intendere i vostri commandi per eseguirgli, né si confonda con il vostro impero l'autorità dello stalliere, che deve servire, ma non insinuarsi in pretendere la sua ubbidienza. Per l'inosservanza di questo documento, accade che taluno di questi animali, secondando le voglie, e i cenni del servitore, dà di calcio al Padrone. Sappiate finalmente mantenere questa vostra cavalcatura mansueta e umile, quivi essendo il centro di quella libertà con cui potete avvalervene a vostro compiacimento. Ad ogni moto della vostra mano, quando cavalcate, facilmente s'aggiri, corra, s'arresti, avanzi il passo, ritiri il piede, sappia insomma rincullarsi adietro senza impennarsi, ma col capo basso camini anche alla cieca, così accennandole i vostri commandi de' quali è interprete il freno.
Quando non trascuriate, o amico, questi avvisi, v'apprenderete a condizioni le quali mai non vi permetteranno il condannare così buona spesa. Desidero che la sincerità del mio affetto truovi appresso di voi quel credito che merita. Pretendo almeno dalla vostra gentilezza quell'aggradimento che se le deve; e con ciò facendo fine affettuosamente vi baccio le mani.
"Dimostra costui - disse il Conte - molta esperienza nelle cavalcature, là onde bisogna che sin da' primi anni egli abbia dato di naso in questa professione".
"Nella sua gioventù - soggiunse l'altro - sarà facilmente stato al maneggio, là onde avrà apprese le qualitadi ch'egli descrive da quanto avranno richiesto in esso i maestri dell'arte".
"Parmi che abbia mancato - ripigliò il Marchese - in non insegnare il modo di ben cavalcare, accennando la necessità di tener fermo il morso in bocca alla bestia che si cavalca, il tempo pur anche di darle alcuna spinta, per veder il suo corraggio, la proporzione con cui deve procurarsi che tenga le gambe: né tanto strettamente congiunte che s'intagli, né tanto allargate che rendano deforme il caminare.
Conveniva pur anche l'avvertire della forma con cui, abbattendosi in un cavallo bizarro, deve farsegli regger la coda, sostener il capo, inarcar il collo, e sollevare la groppa".
"Non più, non più - disse il Cavaliere -, che già la vostra lezzione, o Marchese, è in corso per avanzare la dottrina della lettera".
Suscitò la curiosità di tutti una lettera collegata con una scatola di poco invoglio. Stimarono che fossero gemme, ma furono rimossi da questo credito dalla leggierezza del plico, la quale non accennava cosa di rilievo. La carta disingannò ogni loro pensiero, e mostrò ciò che era, in quella così essendo scritto:
[VIII]
Molto Illustre Signore.
Disposto al servire a' commandi di V.S., do saggi della mia servitù osequiosa a' suoi cenni. Invio due dozine d'occhiali scielti tra' migliori; come che devono servire al Vice Re, suo e mio Signore, secondo ella mi scrisse. Ecco l'effettuazione di quanto mi venne da lei imposto, là onde non m'occorre che pregarla ad esercitare in maggiore occorrenza il desiderio mio di servirla; con che facendo fine, etc.
"Mi stupisco - disse il Barone - ch'in Napoli, dove s'usa il rimedio di purgare la vista, siavi necessità d'occhiali".
"Oh, se giovasse il rimedio - soggiunse il Marchese - in tutta Europa andarebbero falliti i professori di quest'arte, quando non risolvessero d'estraere un privilegio che vietasse l'avvalersi, per sanità degli occhi, d'occhiali i quali mai non si rompono se non da qualche furioso, o da alcun balordo che non sappia usargli".
"E chi dovrebbe - replicò il Cavaliere - publicare questo divieto, se i più Grandi approvano con l'esercizio l'uso di questi soli? Fa di mestieri il dire che quel Vice Re faccia questa provisione per dar luce alla superbia propria di tutti gli Ministri di Spagna, poiché rassembra ch'un paio d'occhiali su'l naso accresca Maestà al volto".
"Non è spropositato sentimento - ripigliò il Conte -, perché coloro sventano anche loro medesmi per dar fiato all'apparenza d'un ambizioso sussiego. Io nondimeno dòmmi a credere che, come Grande, egli procuri questi occhiali, molto necessari ad un Principe, il quale deve veder molto e vuole scuoprire il tutto a suo grado".
"E a che - disse il Marchese - occorreva una sùbita provisione di tanta quantità, richiesta deve credersi importunamente, avendola costui inviata per le poste?".
"La diversità - rispose il Cavaliere - avrà formato necessariamente quel numero, stando che fa di mestieri variargli alla mutazione delle etadi; ma i Principi gli cangiano al variarsi de' loro capricci e, mutandosi questi ad ogni momento, bisogna che abbondino".
"Dite il vero - replicò il Barone - posciaché rimirano tutte le cose ora in un modo, ora nell'altro; né d'improviso potrebbero in ciò compiacersi, senza questa diversità d'occhiali. Oltre che hanno grande bisogno d'occhiali, che rappresentano loro gli ogetti lontani, a fine di prevedere quanto compie alla moltitudine de' propri interessi, come pure per porre loro avanti gli occhi li beneficii ricevuti da alcuno, gli stenti d'una servitù fedele, perché in questo particolare sono di sì corta vista che non gli scuoprano, benché presenti".
"Di questa sorte al sicuro - disse il Conte - non n'avrà richiesto il Viceré, come di nazione ingratissima, avvezza al mal contracambiare, più che al rimeritare l'altrui valore. Avrà procurati più tosto altri, ch'impiccioliscono gli ogetti, per iscemare la ricognizione d'una longa servitù, per isfuggire il debito di confessar grande il valore d'uomo corraggioso, e prudente; in somma per far declinare poco lungi dal nulla, gli eccessi di quella virtù a cui dovrebbesi molto premio".
"N'avrà bene - disse il Marchese - di quelli ch'aggrandiscono le cose: per far crescere un neo di colpa, onde nel castigo possa esercitare la tirannide della crudeltà; per risguardare pur anche una picciola ricompensa, onde si dia a credere di corrispondere col poco ad una obligazione di molti anni, e d'una gran fede".
"Come rappresentante un Principe - soggiunse il Cavaliere - sarà proveduto, più che d'altri occhiali, di que' falsi, i quali rappresentano le cose diversamente dal loro essere; non compiacendosi i Grandi che d'essere lusingati dalle menzogne, pena de' loro pessimi costumi, i quali non meritano goder il vero bene, identificamente congiunto solo con la verità".
"Di questi avrà copia - disse il Barone - negli adulatori, che pur troppo abbondano nelle corti. Come dominante in quel Regno, tiene bisogno d'occhiali che gl'impediscano la vista, ingannando con l'apparenza, da cui si persuade che servano a renderla più limpida. Mercé che le continue gravezze, con le quali ad ogni ora si spolpavano que' popoli, ricercano una indiscretezza propria di cieco, quando non bastasse quella ch'è naturale della sua nazione. A chi scortica così al vivo, depredando un paese felicissimo sotto specie di governo, fa di mestieri l'essere senza occhi, quando abbia umanità, ancorché non altrove che nel sembiante".
"Se per tanti capi sono necessari occhiali, condanno la poca diligenza di costui, che ha inviati questi soli - disse il Marchese -. Non bastarebbe un vassello carico; perché se tanti se ne devono a quel Vice Re come a commandante, d'altri ha bisogno, come ministro anch'egli, e servo del Re di Spagna".
"A' ministri di questo regnante - disse il Cavaliere - un buon paio d'occhiali basta per vedere i propri interessi. Colà principalmente hanno bisogno di buona vista per poter rubbare, come è loro solito, poiché vivono in paese di ladri. A chi serve a' Grandi, fa di mestieri il non vedere, più che il voler veder d'avvantaggio, che nelle corti sempre nuoce. Il veder tutto a gusto del Principe, e in conformità del suo volere, è dottrina da pratticarsi là dove è superfluo il provedersi d'altri occhiali. Un paio d'occhiali verdi è sufficiente al buon essere de' cortegiani per rimirare ogni cosa con buona speranza, sotto simbolo di quel colore, a fine che le rivoluzioni delle corti non abbiano forza per precipitargli".
Terminò pur finalmente il Conte questi discorsi, che non riuscivano di gusto, rimemorando le sciagure del loro stato. Principiò d'improviso a leggere nuova lettera, in cui così era scritto:
[IX]
Molto Illustre ed Eccellentissimo Signore.
Ho spennacchiato l'uccello. Lo mando a V.S. con una mia, benché d'altro tenore, accioché lo scortichi. È stata rimessa da' giudici costà la lite, da me prolongata al possibile per meglio smungerlo. Consegno questo trattenimento a lei, sì per l'antica nostra amicizia, come pare, accioché capitando in avvocato più discreto di me, egli non si dolga delle mie estorsioni. Si ricordi anch'ella de' miei interessi, e quando l'avrà scorticato, se sia possibile, lo rimandi, ch'io m'ingegnarò di spolparlo; e con ciò facendo fine, affettuosamente le bacio le mani.
"Ecco - disse il Cavaliere - come queste bestie degli avvocati si servono de' clienti: quasi di balloni, per mandare e rimandare, battere e ribattere, fin che perdono il fiato".
"Dite pure - soggiunse il Marchese - fin che vedono squarciata loro la pelle. Che però ben diceva colui esser l'Inferno di questo mondo le liti, stando che non possono ritruovarsi Diavoli più spietati di costoro, i quali torchiano con istrana crudeltà i miseri litiganti, per esprimere a viva forza il loro sangue".
"In somma - disse il Conte - chi fece Mercurio Dio delle Scienze, e per l'altra parte Dio de' ladri, ebbe la mira a questi Dottori, a' quali la scienza serve per rapire, e per rubbare".
"È verità evidente questa - ripigliò il Barone -, non però bisognevole d'altro commento". Si propose nuova lettera, che così diceva:
[X]
Illust[rissimo] e Rever[endissimo] Sig[nor] mio, etc.
Nell'ultima di V.S. Illustrissima e Reverendissima ricevo il favore ch'ella mi fa per accrescimento delle mie obligazioni, onorandomi con segni di singolar confidenza, mentre va isfogando meco la sua passione nel particolare degl'interessi che passano al presente tra S.S. e la Republica di Lucca. Risponderò con tanto più libero sentimento, con quanto maggiore autorità ella si degna di farmi giudice de' suoi affetti. Parmi ch'ella sia troppo parziale de' Signori Lucchesi; massime che, come persona Ecclesiastica, tiene obligo maggiore d'aderire al Pontefice. V. Signoria Illustrissima replicarammi che vuole sostenere le parti della verità e della giustizia. Lodo il suo sentimento proprio d'animo nobile e sincero; non così però il mandarlo a publica notizia, posciaché le operazioni di Sua Santità, nelle quali vanta la dipendenza dallo Spirito Santo, fanno demeritare a chi le condanna. Non disprezzo i di lei protesti, ne' quali ella afferma ch'una azzione mala non può avere causa che permissiva nel sommo bene; che il Sommo Pontefice ha l'uso del libero arbitrio il quale, mal applicato, non meno d'ogni altr'uomo regolandosi a' capricci, fallisce. Questo pur è vero, ma non può né dirsi né scriversi, vietando ciò chi odia una verità fatta notoria pur troppo dall'esperienza. Avrà nondimeno scusa l'errore, appresso chi sa li termini co' quali si rappresentano i negozi a' Principi, prendendo quella piega che danno loro le parole di chi informa. Il Signor Cardinale Franciotti, predominato dallo sdegno, facilmente avrà ritruovato nella corte di Roma, tutta interesse, tele che avranno sì bene ricevuti i colori delle sue passioni, che il Pontefice non avrà potuto non vedere sembianze di fallo, da cui si giustifichino i suoi rigori. Altrimente non giudico che contra ogni ragione egli avesse intrapreso lo sconvolgere la pace, e la quiete di quella Republica.
Ben è vero che stimo questo Sommo Pontefice appreso tenacemente a quella proposizione di Christo: Non veni pacem mittere, sed gladium. E rassembra che credasi obligato all'osservarla, come suo Viceregente.
Quindi ben era di dovere che, dopo l'aver molestati tutti gli Principi d'Europa, si rivolgesse a travagliare questo dominio, per mostrarlo sogetto a Christo e nel grembo della sua Chiesa. Quando nel tempo stesso, non è molto, egli con particolari disgusti irritò ambedue gli Regi, e di Spagna e di Francia, un tale pose in campo quel detto: Melius est esse Herodis porcum, quam filium, proposizione di Giuseppe Ebreo per significare crudeltà di quel tiranno, dal cui ferro aveano scampo i bruti, erano poscia trucidati gli figliuoli. Così diss'egli: negli anni di questo Pontefice poteva giudicarsi più giovevole l'essere Turco che Christiano. A' Principi Cattolici, presentatesi con faccia di rigore, ha proposti molti disturbi, là dove, lasciando gl'inimici della Chiesa in una dolce quiete, ha conservata nel possesso d'un felice stato la loro tranquillità. Risposi a costui che questa era una forma d'imitazione, per conformarsi a' costumi di Dio, il quale con pompe di severità suole trattare i migliori, né in altro seno ch'in una fronte arrogata, indicio di sdegno, pare che riceva i suoi più diletti. Ben è vero che le creature non possono conformarsi a questa intenzione della suprema previdenza come causa primaria, ma solo instrumentale, là onde, nella particolare, perviene espressa la causalità che hanno gli uomini nelle persecuzioni de' giusti, da Santo Agostino, allor che disse: Omnis malus aut ideo vivit ut corrigatur, vel ut per eum iustus exerceatur. Sentenza ch'udii per appunto citarsi da un mal contento, all'incontro d'alcuni che stupivano della longa vita di questo Principe.
Deve però gloriarsi la Republica di Lucca d'essere pareggiata, in questi, benché poco buoni, trattamenti, all'Imperatore, a' Regi di Francia e di Spagna, alla Republica di Venezia, al Gran Duca di Toscana e a gli altri Potentati, ch'universalmente stimo nella morte di S. Santità non piangeranno la perdita delle loro sodisfazzioni. Anzi che sarà in obligo di professare tratti di gratitudine, mentre l'ombra di questi travagli ha servito a far spiccare i colori del suo merito. Non poteva in altra occasione apparire più chiaramente la prudenza de' Senatori e il sapere di chi regge in essa lo scettro del commando. Non è gloria di poca stima il cozzare, senza disprezzo e offesa del capo, ch'è Christo rappresentato nell'autorità Pontificia di questo suo Vicario. Il trionfare nella depressione del primo promotore di questi sconvolgimenti, col truovare giusto pretesto per imprigionare il fratello, e privare della nobiltà la famiglia del Cardinale, è stato un colpo come di doppia ferita, così duplicato d'avvedutezza. Il saper anche schermirsi dal fulmine del Interdetto con proibirne gli effetti pretesi appruova que' concetti da' quali s'argomenta esser in quel Dominio Giovi di buon capo, che partoriscono Palladi di risoluzioni sì saggie.
Stimo ch'eleggerebbe il buon Pontefice di non esser imbarazzato in questo negozio, condottovi forse dall'importunità de' parziali del Franciotti, obligato ora al continuare negl'intrichi da quella necessità ch'astringe ogni Grande al precipitare nelle sue operazioni, per non confessare d'averle mal intraprese. Dubita che l'esito riesca di poca sua riputazione, come pure gli è succeduto con la Republica di Venezia, la quale l'ha fatto apparire più codardo di Pilato. Questi ostinatamente difese, contra il sentimento di tutti gli Ebrei, Quod scripsi, scripsi. Ma egli s'è condotto all'abolire il proprio epitafio posto nella Sala Regia, prima cagione che manifestò la poco buona intelligenza con quella Republica, non so se di lui stesso, o pure de' congiunti. Mi do a credere che, se ben tardi, risolverà di non più assentire, o al capriccio di questi, o alle chimere di chi gli va susurrando gli orrecchi, ciò che compie al proprio interesse, o alla passione, non ciò ch'è di dovere per beneficio della Chiesa, e per il suo ben regolato governo. Tanto conceda Iddio per pace della Christianità, e per il felice stato d'Italia. V.S. Illustrissima, in questo mentre, deponga quel rancore che l'affezzione alla Republica di Lucca valuta ne' suoi pensieri come giusto zelo, contro le risoluzioni del Pontefice. Credami che l'intenzione sua, come quella d'ogni altro Principe, non preterisce le leggi del giusto, essendo trasportati a contrari effetti da' ministri, ne' quali troppo confidano, mentre col governo consegnano loro anche la riputazione. Non altro so aggiungere in questo particolare, perché la delicatezza della materia richiede che si trattenga leggiermente la penna. Rinuovo i ringraziamenti per la memoria ch'essa tiene della mia, benché debole, servitù. Qualunque ella si sia, verrà avvalorata dall'esercizio che solo può concedermisi da' suoi commandi, de' quali pregando V.S. Illustrissima, riverente le baccio le mani.
Adì 15 Maggio 1640
Non fùvi tra' Cavalieri chi volesse motteggiare sopra questa lettera, per riverenza del sogetto di cui discorrevasi in quella. Condannò più tosto alcuno d'essi la contumacia della Republica, come che un Potentato Christiano deve soggiacere alla dottrina di Christo, più che ubbidire alla politica di stato. S'appresero ad altra lettera, per sortire motivo maggiore d'aggradimento; una però n'incontrarono in cui così era scritto:
[XI]
Molto Illustre Signor mio.
Frequenta V.S. le sue instanze per avere da me avviso d'alcuna novità. Io non ho modo di compiacerla, come che i successi delle guerre precorrono costà, e finalmente non mi porgerebbero occasione che d'accumulare menzogne, le quali può ciascuno machinarsi a suo grado. Riferirò accidente, non più da lei udito, di cui non sono molti giorni fu teatro Parnaso. L'ha riportato da quel paese Esculapio, Medico della Maestà d'Appollo. Venne questi nella nostra Città per sanare uno Spagnuolo il quale, da vilissima nascita traportato a dignità benché di poco rilievo, pativa strettezza di petto, non potendo suppiare quanto comportava la gonfiezza della sua ambizione, cresciuta all'aura di questi nuovi onori.
Narrò dunque qualmente volle a' giorni passati S. Maestà applaudere con la solennità d'un sontuoso convito all'arrivo d'alcuni Principi giunti di fresco nella sua Corte. Intesa più volte l'eccellenza de' letterati moderni, che sono i cuochi di Parnaso, volle accertarsi della verità, in questa occasione. Quindi publicò ordine che ciascuno con vivanda particolare dovesse far l'imbandiggione di questa mensa. Incontrò volentieri ciascuno questa commodità di far conoscere la propria virtù, in cui presumeva ogni benché minimo scrittore gloria vantaggiosa sopra gli altri. Risolse S. Maestà di voler vedere l'apparato prima del convito, per non rimanere con iscorno appresso que' Grandi. Figuravasi molti balordi, i quali ambiziosamente si pongono nel ruolo de' virtuosi, onde imaginavasi alcuno istravagante sproposito, il che appunto fora succeduto non prevedendosi da lui il verisimile e non provedendosi all'inconveniente.
Fu condotto dal suo cameriere in un'ampia Sala, dove su molte tavole era disposto tutto ciò che doveva servire a questa mensa. Su'l frontispicio a prima vista s'offerivano due bacili di ravanelli. "So - disse subito sorridendo Appollo - di chi è questo regalo, e quando non me ne avvedessi alla qualità della vivanda, ciò mi dimostrarebbe il posto in cui chi l'ha presentata, con la solita superbia, vuole che preceda ogn'altra. Mi stupisco - soggiunse - che usando gli Spagnuoli questo cibo per ultima confezzione, l'annoverino ora tra gli antipasti".
"Sappia V.M. - rispose l'assistente - che questo è il loro pasto, il quale serve al tempo d'ogni imbandiggione. Ve ne sono altri bacili presentati dalla stessa nazione, per inserire in ogni mutazione di vivande. Questi sono i libri Spagnuoli, molti in numero, ma pochi in sostanza. Hanno, come questi ravani, una gran chioma di foglie in una copia di parole mal composte, ma sotto quella, v'è un capo di romolazzo senza cervello. E se alcuno ha vivacità spiritose che pizzicano, riescono ad ogni modo sciapite, là dove hanno bisogno di sale". "Pongansi - disse Appollo - sopra un lettamaro, non in una mensa, la quale sia coronata da Principi".
Seguiva nell'ordine, per non admettere pregiudicio nella precedenza, un'Ollea potrida di libri che vengono di Spagna, degni di molta stima. La confusione però di dottrina e di chiacchiare, in un indistinto miscuglio, sepelisce la buona sostanza, e pone nausea talvolta, prima d'essere gustata. "È buona vivanda questa - disse Appollo -, ma non è degna di comparire in una tavola di delicatezze".
Succedevano alcune soppe Francesi delicate per certo, ma soperchiava il brodo di parole vane, e pescavasi finalmente pane d'ordinarii concetti, né era lecito il navigare in quel mare predando sostanze di pregio. Non furono però ributtate da S.M. come che ad alcuno aggradiscono, ed èvvi chi, sapendo pescare a fondo, prende a suo gusto alcuna cosa, non avvertita dagli altri.
In un tavolino a parte, eravi dietro a questi un Tedesco, il quale aveva imbandito una numerosa quantità di minestre, là onde quasi con isdegno disse Appollo: "Pensa forse costui che siamo in un Convento di Zoccolanti?". "Scusi V.M. - disse l'assistente - questa nazione, che non sa fare cosa alcuna di buono, avendo per unica sua professione l'ubbriacarsi". "Vada costui cogli guattari di cucina - disse S.M. - che per essi sarà buon cuoco".
Ciò dicendo passò al vedere una gran tavola, piena di varii pasticci. Avvertendo l'altro che stupivasi di tanta quantità: "Questi - parlò - sono Romanzi de' letterati Italiani, che sotto coperta di semplice pasta, racchiudono sostanza soda d'intelligenze occulte, sotto apparato favoloso. Così almeno presumono, e questa forma di scrivere s'è talmente avanzata di credito, che già è fatta scopo d'ogni scrittore Toscano". Curioso Appollo di penetrare la qualità di questi pasticci per incaminare con la ragione la sentenza de' suoi encomi o de' suoi biasimi, ne fece scuoprire alcuni. Uno principalmente fu aperto, il quale nell'esterno aveva qualche apparenza, ma il suo credito riceveva principalmente dalle lodi di chi l'aveva presentato, e lo consignò distintamente come regalo singolare, esaltandolo sopra d'ogn'altro. S.M. figuravasi di ritruovare un ingrediente dilicatissimo, non ancora conoscendo costui, tanto più ignorante quanto più è vantatore. Era il contenuto di quello un pezzo di manzo, ch'al tocco appariva sì duro che ben poteva credersi di bue. Irritò Appollo l'arroganza di costui, e subito facendo gettare quel piatto, ordinò che fosse castigato quel cuoco di tanta presunzione. "Èvvi - disse l'altro - un pezzo di manzo della stessa razza, che deve servire a questo convito". "Vadano - replicò S.M. - costoro a far pasto a' porci".
Fu curioso di veder le viscere d'un altro, che mostrando al di fuori capo, coda e ale di pernice, dava a credere d'aver per anima un buon boccone. Fu ingannato, posciaché racchiudeva dentro di sé un pesce. "E come - dice Appollo - prommette costui un uccello, e poi presenta un pesce?". "Questi - rispose l'altro - sono certi tali, che prommettono ne' Romanzi sensi istorici e veri per gloriarsi d'esser uomini di grande spirito. Si scorgono finalmente pieni di favole e d'imbrogli, ne' quali, se v'è alcun particolare vero, cangia sostanza e natura".
Un altro similmente ne vidde di grande apparenza, ma con coperte e sopracoperte d'episodi, di chiacchiare, se mai non poteva giungersi al comprendere il contenuto, almeno con gran fatica scuoprivasi, essendo necessaria per l'intelligenza una replicata lettura.
Scorreva già Appollo annoiato da tanti pasticci, la bontà de' quali finalmente risolvevasi in pasta, quando uno se gli presentò a gli occhi di forma più vaga d'ogn'altro, avendo abbellimento e contrasegni di buon condimento, indicii di gentilissimo lavoro. Ordinò che fosse scoperto, e ritruovovvi adentro midolla e non so che di cervella. "Questi - disse S.M. - sono bocconi dilicati, ma che occorreva sepelirgli in sì gran chaos, in riguardo della loro picciolezza. Ma non mi stupisco che, avendo posto dentro il cervello, non abbia saputo usarlo al di fuori". In questa tavola in somma non elesse per la sua mensa altro che alcuni piccioli pasticci brodosi ne' quali, compendiata la varietà de' condimenti, epilogava un buon sapore.
S'avanzò al visitare l'apparecchio delle carnaggioni, dove pure ebbe puoca sodisfazzione, perché le carni allessate erano insipide, vestite a bruno forse per condoglienza della morta virtù di chi le aveva cucinate. Avevano una schiettezza così semplice, che parevano stagionate per un mendico, tutto cenci d'ignoranza, non già per i Grandi di Parnaso. Eravi principalmente un bel cappone in tal modo acconcio, sopra di cui mentre ristringevasi Appollo nelle spalle, quasi stupido della sciapitezza di chi l'aveva cucinato: "Questo - disse l'assistente - è un libro d'istorie, le quali secondo le regole d'un nuovo riformatore tengono obligo di far pompa di così pura nudità, in modo che non vi si permette né meno il sale, per non pregiudicare alla schietezza". "Vadano - disse S.M. - questi pedanti, publicatori di nuove riforme, e per non sapere essi aggiustare proporzionato condimento a' propri scritti, non prescrivano un disordine tale in danno commune. Dunque alla mensa di soggetto grande, d'ingegno elevato, dovrà presentarsi un cibo di niun sapore, proprio delle cene più vili, di chi poco sa, e meno intende? Quel tale che m'accennate, in altro senso deve forse aggradire la nudità ne' libri vivi su' quali legge, come so per altra parte bene spesso avendo per trattenimento il fare squarzafogli di queste carte gentili".
Eravi pure un'anatra sotto un monte di cardi abbissata, non che sepolta, e al sicuro aveva bisogno del nativo suo gridare qua qua per accennare dove ritruovavasi, altrimente riusciva impossibile il vederla, ancorché fosse avanti gli occhi. Tali sono le scritture di chi moltiplicando digressioni, replicando discorsi, frequentando oscure sentenze, forma una catastrofe di confusioni, non che di periodi, onde sepolto quanto èvvi di buono in quelle, perdono il merito ch'altrimenti potrebbero vantare.
Nelle carni arrostite ebbe Appollo l'incontro medesmo di poco gusto, come che alcune ancora insanguinavano; cagione di ciò era l'aver presa troppo ampia materia, ponendo ad un tratto tanta carne a fuoco, che non s'era stagionata quanto comportava il bisogno. Altre erano arse, in guisa che non era abile al ferirle il cortello, non che il dente. Mescolavansi con questa imbandiggione alcuni intingoli, due de' quali principalmente forano stati degni di stima, se l'uno col fetore del fumo non si fosse anche da lungi reso abborrito, l'altro al primo saggio non fosse apparso indiscretamente pieno di sale, che S.M. fu necessitata al dire: "Costui per certo ha un gusto di becco, e condisce le vivande a suo talento. Non deve avere sale in zucca, posciaché tutto l'ha quivi disperso". Mentre attende al continuare questa visita, vidde un grande fumo, che svaporando da un piatto impediva il vederne il contenuto. "Non s'invogli V.M. - disse l'altro - di voler chiarirsi, perché questa vivanda è fattura d'un buon ingegno, ma tanto pieno d'ambizione ch'alcuno tolerar non può di vederlo, anche nelle sue opere. Quindi col fumo di questa superbia, ottenebra gli splendori, ch'altrimente converrebbero al merito della sua virtù". Anche questa vivanda volle che fosse bandita, non imbandita in questa mensa, nauseando tanto orgoglio per quattro cuius, ne' quali ha acquistato buon valsente il talento d'una felice memoria.
Presentossi ad Appollo nel tempo stesso un cuoco, che tutto sbracciato e anelante mostrava d'aver per le mani grandi facende. Questo per disgrazia era riuscito bene una fiata in alcune frittole, che gli meritarono molta lode. Si giudica che le avesse involate ad alcun altro, che però non mai egli ha sortito il fine medesmo in altri somiglianti lavori. Quando lo vide S.M. di picciola statura, diforme di volto, e ricco non d'altro che d'ambizione: "Parmi uno sbirro costui - dice egli -, non un letterato". "Ha errato in poco - soggiunse chi l'accompagnava - S.M., posciaché egli è publica spia". Portava seco un pasticcio, non ancora cotto, perché diceva d'aver intesi tardi gli commandi d'Appollo, là onde non gli era stato concesso maggior tempo che per comporlo. Disse di essere precorso in farlo vedere a S.M. a fine d'assicurarla che poteva annoverare un piatto regolato. Quivi egli principiò una serie d'encomi, che davano occasione di schernire la presunzione, più che d'ammirare la virtù. Appollo volle disingannare ogni falso credito con la cognizione della verità. Scoperto che fu di suo ordine il pasticcio, videsi pieno di robba che aveva del rancio, essendo composizione compaginata d'accidenti d'istoria antica, sviscerata con aggiunta di poco del suo, e nulla di bene. Un calcio fu l'onore ch'egli ricevette, udendosi in oltre imposto ch'egli dovesse consegnarlo al fuoco per abbruggiarlo, non già per stagionarlo. Partì mortificato, là onde può dirsi che S.M. sostenesse le parti di donna, nel mandar costui con la testa bassa. Trascorse all'imbandiggione delle frutta preparate, le quali tutte erano state offerte da' Poeti. Non avevano presentato altro di meglio, o perché la vanità della Poesia tutta si riduca a frascherie di poco momento, o perché la miseria ordinaria di questo mestiere non avrà loro permesso il sodisfare al debito con maggiore dispendio; o finalmente, perché i Poeti de' nostri tempi non hanno eccellenza per comparire con offerte di pregio. Sceleni, cardi, finnocchi, e altro erbame, in cui il meno è quello che si gode, raffigurano le fatture di questi, la sostanza delle quali in poco, e anche in nulla, si risolve. Alcuni sparagi e carchiofoli, per essere fuori di stagione, potevano stimarsi il meglio di questa imbandiggione, ed erano per appunto regali d'alcuni pochi, singolari nella professione.
Mentre partiva Appollo, fatta già l'elezzione delle vivande, ch'egli doveva admettere nel convito, comparve l'Orbo Britti con un poco di coppetta, donatagli per elemosina da uno speziale in Venezia, in contracambio d'una canzone fatta per una sua puttana. Scusò la sua tardanza, incolpandone il non aver truovata guida più a tempo. Disse ch'inteso il bando, che aggravava tutti gli virtuosi, aveva voluto sodisfare al debito anch'egli, venendo a ruolo con i Poeti. Rise S.M., ancorché non senza sdegno, rimproverando severamente la temerità di costui, ardito d'aruolarsi tra' letterati. Replicò l'Orbo Britti ch'egli da ciò era persuaso al vedere qualmente da' Principi erano trattati sotto titolo di virtuoso i Musici, Comedianti, Buffoni, e altra simile canaglia, di cui non giudicavasi punto inferiore. Aggiunse che s'annoveravano tra' virtuosi alcuni i quali non potevano fondare valsente di merito, se non sopra alcuni scartafacci, ripieni solo di quanto hanno rubbato ad altri libri, là dove nelle sue canzoni affermava d'esser Poeta per se stesso, non per ornamenti rapiti ad altri. Non puoté Appollo contradire a questa verità, ma pure ricusò d'applaudere all'ardimento di colui, commandando anzi che fosse scacciato di Parnaso. Si ricondusse poscia dove l'attendevano i convitati.
Non aggiunse Esculapio altro particolare, bastandogli l'avere compito questo racconto del saggio, che aveano dato di loro stessi i virtuosi del nostro secolo. Scusimi V.S. se io l'ho attediata troppo longamente, e prenda il disturbo per penitenza dell'importunità, con cui mi fa continue instanze di nuovi avvisi. Tramuti questa nella frequenza de' suoi commandi, che così pregandola faccio fine, e affettuosamente le baccio le mani.
"È antica - disse il Conte - l'invenzione di questo ragguaglio di Parnaso, non però mal accommodata a' letterati, che ne' trattamenti de' Grandi, sono riconosciuti per appunto come cuochi, i quali in premio d'una stentata servitù, hanno il pascersi di fumo".
"Aggiungete pure - disse il Marchese - che questi ingegni vivaci si trattengono, quasi cuochi, volentieri tra le pentole, e gustano dar di naso negl'intingoli più dilicati".
Mentre questo così parlava: "Ecco - gridò il Barone - una lettera amorosa!", avendo già rotto il sigillo, e scuoperti i secreti di quel foglio, che aveva nelle mani. Prepararono tutti una volontaria attenzione esercitata con diletto, allor che egli così lesse:
[XII]
Carissima Signora.
Oh Dio quali pene ho tolerate, dopo che la vostra presenza non più dà spirito a' contenti del mio cuore. Se sapessi, o cara, quali angustie opprimano la mia anima, che, viva sola per voi, è in obligo di mendicare la sua vita dall'imagine, di cui, gelosi, gli affetti non permettono il totalmente consolarsi, anche col vagheggiarla: se credessi gli eccessi di que' dolori, co' quali pruovo il discapito de' miei godimenti, tramutato il corpo reale di veri piaceri in ombre figurate dall'imaginazione, m'assicuro che risolveresti di compatirmi, se non d'amarmi. Deh cara, quanto differente io scorgo l'esser lambito da' vostri vezzi, vezzeggiato dalle vostra labbra, accarezzato da' vostri abbracciamenti, imparadisato nel vostro seno; e il fingermi con vane chimere il vostro volto, che mi lusinghi con uno sguardo cortese, m'inviti con una bocca ridente, m'alletti con un soghigno lusinghiero. Mi riesce di tormento maggiore il compiacermi della vostra effigie, ch'io porto nel petto; stando che, mentre da sì belle sembianze rapito sono in necessità di secondare queste violenze, corro a stringer un'ombra, ad abbracciar un niente. Oh Dio, dico talora, perché non posso io con rapido volo condurmi in un momento all'amata mia Elena? Avessi almeno la fortuna d'Icaro, concedendomisi il prender ale, che portandomi a voi, se bene dileguassero, non potrebbero precipitarmi quando io fossi fermo nel Cielo del vostro seno. Potessi almeno negli amorosi entusiasmi aver una di quelle candide mani, che porgerebbe refrigerio a' miei ardori con la sua neve. In quella almeno depositarci i miei baci: ristringerei gli annodamenti e consegnarei le mie contentezze, che se bene abbreviate in un pugno, estenderebbero la mia felicità ad una compita sodisfazzione delle cupiditadi. Ecco in quale stato io sono sforzato al compendiare in così picciola parte que' godimenti, ch'aveano libero campo nell'ampiezza del vostro corpo. Qual disavvantaggioso transito è questo de' miei piaceri, dal vedersi ogni giorno nella culla del letto, tra le fascie delle lenzuola, alimentati dal latte delle vostre bianchissime carni, al vedersi ora così famelici che valutarebbero come singolar contento il poter lambirvi una mano. Deh Elena, nome il quale, come andò mai sempre accoppiato con estraordinarie bellezze, così portò sempre intolerabili incendi. Se i tempi di Paride avessero potuto goder i vanti di possedervi, altra Elena che voi, non s'avrebbe usurpata Venere, per regalo degno d'una Deità avida di donar bellezze; quando pure non fosse stata preoccupata dalle rapine di Giove. Al mio povero cuore è toccato in sorte il contrapesare co' suoi ardori a gl'incendi d'un Regno intero, sacrificato a quella Greca beltà, stando che tributi non minori si devono a' volti delle Elene. Volentieri mi struggo, o cara, certo che le mie ceneri ricuperaranno felice vita sotto i raggi di voi, mio bellissimo Sole. Sollecitarò il mio ritorno per rivedervi, e ripatriare in quel grembo ove tra le bellissime poppe gustavo rivi di dolcezze, allora più correnti, quando duro argine pare che le fermi. Ripeterò la lezzione de' soliti gusti in quel bel libro, di cui volgendo e rivolgendo i fogli, leggendo e rileggendo i caratteri, non ho saputo mai scorger altro che Beatitudine. Non più, o mia diletta, voglio trattenermi tra queste imaginarie chimere, che mi fanno inlanguidire, non accompagnate dalla realtà degli effetti. Non più posso trattenere la penna, che brama esser portata dalla mano dove meglio possa scrivere in bianco nella vicinanza de' vostri candori. Mi fa di mestieri seguire i di lei impulsi, tratto d'improviso fuori di me, quasi estatico nella contemplazione delle vostre bellezze; là onde finisco con abbracciarvi, e baciarvi caramente. A Dio.
"Sa il Cielo - disse il Marchese - qual penna avea costui tra le mani nello scrivere. Quest'uno a mio credere è di quelli incauti, i quali lasciano loro stessi in preda degli inganni delle cortigiane".
"E chi non vi rimarrebbe deluso dalle loro frodi? - soggiunse il Conte -, mentre lusingano con una faccia che spira Divinità nella bellezza, mostrano un Paradiso nella grazia, e quando poi altri loro s'avvicina volgono le spalle: vezzo il quale maggiormente tiranneggia gli amanti, ma insieme pur anche più fortemente rapisce".
"Non è maraviglia - disse il Cavaliere - ch'i loro artificii prendano questa piega, perché la forza della Magia si ristringe principalmente ne' circoli; elleno però presentano questi a chi desiderano incantato, per predominare più facilmente con le proprie violenze".
"Per gl'incanti - replicò il Barone - si richiede e la verga e la sfera, per compire però l'incanto d'amore, già che l'uomo porge quella, fa di mestieri che con questa concorrano le donne".
"Oh come - ripigliò il Conte - avete pronta la lingua, dove è proclive l'appetito". Ciò detto, senza dar tempo a' compagni di ribattere il motto, si diede a leggere su nuova carta in cui così era scritto:
[XIII]
Carissimo Amico.
I gambari non avranno più che fare con la Luna. Le rane hanno fatti i denti, e le tartarughe impennate le ali. Tutte le bestie hanno posto il cervello, e gli uomini l'hanno perduto. Un asino mangiò l'altro giorno quello d'un Dottoraccio già tutto putrefatto, là onde quel povero animale, principiando a disputare de casibus infirmorum andò tombolone ad sepulchra mortuorum. V.S. arranchi con le mani alle gambe d'Atlante, che se occorresse a quello il piegarsi sotto il peso del Mondo, da lui sostenuto, ella gli darebbe per appunto del naso in culo, come fece già a Morgante, nel terzo dell'Ulissea. Prenda seco un corno grande, e quando altrove non sappia provedersene, vada nelle case della Germania e sortirà quanto desidera. Io le do questo avviso, perché ora è publicato un divieto che tutti gli becchi dopo la morte passino il guado sovra corni, non più sopra la barchetta di Caronte. Quindi è che il povero vecchio già gran tempo se ne vive ozioso, e scorre rischio di morire famelico, già che non riceve più monete mentre ciascuno viene col suo corno. Su l'Astrolabio studiai l'altr'ieri la genitura di V.S. la quale è nella quadratura d'un cucumere, nel sestile de' due gemini, che sempre vanno all'ombra. Ha la sua figura tra le coscie di Venere, e sotto le spalle di Saturno ha gl'influssi d'ogni sua buona fortuna. Si guardi dalle farfalle, e non s'affatichi per far preda di mosciolini, perché le reti non sono buone, e Tantalo, che dovrebbe racconciarle, si va menando e rimenando su e giù, per giungere i pomi bramati. La coda del dracone è infausta per lei. Si guardi però dal seminar in giro, quando i carchiofoli fanno la barba. V.S. s'avvalga di questi pochi avvertimenti, e riconosca l'affetto che le professo, porgendomi commodità di maggiori dimostrazioni co'l commandarmi, come la prego; e per fine, etc.
"Sarebbe buon Astrologo costui - disse il Marchese -, riuscendo egregiamente in predire spropositi".
"Almeno costui in molti particolari - soggiunse il Conte - dice la verità, là dove gli Astrologi predicono mai sempre menzogne".
"Credo - ripigliò il Barone - che l'ingegno di costui avrà speso ogni suo miglior talento nella composizione di questa lettera".
"Oh, come bene - disse il Cavaliere - la simpatia cogli spropositi vi trattiene tra questi, o compagni. Rintracciamo altra materia. Udite":
[XIV]
Molto Illustre Signor mio.
Giudico mio debito il far partecipe V.S. d'ogni mio avanzamento, come che m'assicuro le riuscirà d'aggradimento l'intendere i progressi d'un suo servitore. La moglie d'un ricco mercatante di questa Città, rimasta vedova sono alcuni mesi, mandò l'altro ieri alcuni amici, per contrattare meco, accioché congiungessi il mio traffico col suo. Non vuole rimaritarsi, ma pure brama che gl'interessi vadano di buon passo. Elessi il partito vantaggioso per me nelle condizioni che mi si offerivano. Io esponevo tutto il mio capitale, con patto però di semplice imprestito, per ritorlo a mio piacere, senza che ne fosse corrosa, e consumata minima parte. Ella in riscontro, porgevami la bottega, di cui devo trattenere la chiave appresso di me, obligato nondimeno ad usarla in chiudere, o in schiudere ad ogni sua richiesta. Nella fatica del negozio, abbiamo parte ambedue, e chi più sa maneggiarsi gode dell'opera sua, senza necessità di lagnarsi, quasi che s'affacendi in darno. Ella ritiene in bottega la moneta che corre in questo commercio, molto diligente in custodirla, per darmene i frutti a suo tempo. Èvvi stata alcuna differenza tra noi, perché io pretendevo ne' patti di dover tener chiave anche sopra un armario, ch'ella ha dietro la bottega, ove sono mercatanzie di maggior preggio. Sin ad ora ha negato di compiacermi. Spero però che col tempo e co' buoni trattamenti io stagionarò questa fortuna, che singolarmente appetisco. Assicuro V.S. che mai non ho gustato tanta felicità, quanta godo ora, sollevato dalle mie bassezze, con giungere ad inaspettato possesso di bottega così bella, e non meno ricca, posciaché le vedove, dopo la morte de' mariti, andando ritirate nelle spese, né admettendo bagordi con alcuno, fondano una entrata opulente; là onde buon pro a chi perviene al participante.
Protesto ben sì che non mai ho sì bene penetrate le regole del ben negoziare, quanto nel pratticare costei. Ho appreso il modo del vero commercio, il quale deve seguire con istretti partiti alle prime prese, come suol dirsi procurandosi il vantaggio. Le ceremonie convengono su'l principio, per un non so qual termine di civiltà. Altrimente la mercatanzia richiede che quando il trattato è in buon posto, si spinga il negozio avanti, senz'attendere se l'altra parte si duole o no, forse non contenta del partito. Il negoziante abbia sempre buoni testimoni, accioché non si manchi ne' patti. Fa di mestieri conoscere la natura di quello, con cui si tratta, e all'esser egli o tardo o veloce si conformi l'altro, poiché allor ha buon esito il negozio, quando per ambe le parti nel tempo stesso viene conchiuso. Altrimente inlanguidiscono gl'interessi mentre, raffreddato, l'uno ricusa d'avvalorare col fomento di pari calore le risoluzioni dell'altro. Non bisogna trafficare alla muta, ma né meno eccedere in ciancie. Fatti e parole si richiedono in questo commercio, e non è che bene il saper avvalersi e della bocca e della lingua. Il vantaggio di chi traffica, consiste principalmente nel non contentarsi di poco guadagno, fermandosi ne' punti d'un negozio solo. Con cambii e ricambii, e cambii sopra ricambii s'aggiri sempre il suo, che di molta utilità riesce il tenere in tal modo impiegato tutto l'avere. Ho imparato principalmente ch'al buon negoziante è necessario il non aver a schifo cosa alcuna, posciaché l'imbrattarsi le mani non è danno, quando succede guadagno di stima. Bandisca gli scrupoli chi vuol negoziare, stando, che questi mandano fallito chi non procura d'avvantaggiarsi all'occasione. Sarà buon colpo talvolta l'inebriare il corrispondente nel negozio, perché nel punto del trafficare si volge, e raggira ad ogni forma. Sollecitando allora il sigillare le clausule del trattato, farà molta usura poco vino. Nel contrattare, mantengasi il nodo del negozio sodo. Nel rimanente, con finzioni, con accarezzamenti, con inganni, trattengasi l'amicizia per l'interesse. Sopra tutto avverta il negoziante di non lasciare nel traffico altro di suo che la moneta, la quale per ordinario si spende nel maneggio di simili affari. Questi documenti ho imbevuti ne' precetti di questa donna, la quale m'ha giurato che a chi negozia altrimente, ella non da l'ingresso in bottega; là onde su la porta stessa abbassano la testa, e quanto più mostrano doppioni, tanto più ricusa di dar loro le sue merci professando d'osservare le vere leggi del commercio, più che quelle d'una ingorda avarizia. Altri fa di mestieri che contino i loro guadagni su le dita, perché, non sapendo negoziare, sono esclusi dalla sua bottega. Procuro d'incontrare il di lei genio, per sottrarmi all'uno e all'altro disordine, ed esser padrone di bottega a mio piacere. Se questo mio nuovo stato potrà abilitarmi al servire a V. Signoria, professarò maggior obligo a quella sorte, da cui lo riconosco; Ella tra tanto, onorandomi co' suoi commandi, mi porga occasione di tentare questa mia fortuna; con che faccio fine, e affettuosamente le bacio le mani.
"A fé - disse il Marchese - che trafficando costui con donne lasciaravvi il pelo; avrà ben sì in contracambio merci, ma non di troppa sodisfazzione".
"Avete ragione - soggiunse il Cavaliere - perché le botteghe delle femine sono trapole, nelle quali chi entra esce con poco vantaggio".
"Sono tanto grandi - ripigliò il Conte - che, con buona scherma, chi è preso ha modo di conservarsi illeso". "Hanno adentro - disse il Barone - il fuoco, e la rabbia, là onde è necessario il riportarne alcun segno di poco buona impressione".
"N'avete gran prattica - replicò il Conte -, là onde fa di mestieri che più d'una volta abbiate dato di naso in questo negozio. Ma lasciamolo in grazia a parte, posciaché ammorba, col fetore delle sue immondezze, anche nel discorso". In conformità di questa proposizione, fu letta un'altra lettera, che così diceva:
[XV]
Molto Illustre Signor mio.
Mando per il corriere due scatole di balle per lavare qual si sia macchia. Sono esperimentate, là onde non sono che di molta stima potendo riuscire di singolar giovamento all'occasione. Desidero che V.S. mi favorisca di presentarle all'Eminentissimo Cardinale, suo e mio Signore. Non dovrà sua Eminenza sdegnarsi di così vile regalo, in riguardo massime della buona volontà del servitore, che glielo invia. Non ho osato di scriverle immediatamente, accioché l'eccedere in temerità non pregiudichi a questi riverenti attestati della mia osservanza. M'assicuro che V.S. accompagnarà questo mio picciolo dono con parole conformi al di lei gentilissimo affetto, da cui sono stato mai sempre onorato. Se le aggradirà il ricevere alcune di queste balle medesme per suo conto, m'avvisi, che sarò prontissimo per compiacere ad ogni sua richiesta; con che per fine, etc.
"Oh come è ballotta costui - disse il Marchese - con le sue balle, mentre le manda ad un porporato, e pure le porpore non ricevono macchia".
"Sì, quando sono di fina tempra - rispose il Conte -, ma alcune intinte in furberie di mentito colore, pur troppo hanno necessità di buona lavanda".
"So pure - ripigliò il Barone - che i Grandi sogliono rinfrescare le loro porpore nell'altrui sangue, ancorché ingiustamente, per rinuovarne le già smarrite pompe. Quindi è superfluo il provedergli di balle che levino le macchie".
"E questa è la ragione - disse il Cavaliere - per cui non si scorge l'immondezza de' loro abiti, perché con la superiorità della forza nascondono ogni loro demerito. Altrimente sonvi porpore tanto allordate, che riuscirebbero abominevoli, quando non fossero occultate".
"Non però - replicò il Marchese - lascia costui d'essere sciocco in mandare simili balle ad un Grande porporato, il quale, quanti cortigiani mantiene, tante ballotte possede a questo effetto. Né ad altro servono per appunto, mentre addossandosi loro la colpa di quanto succede con esito sinistro, leva il Principe la macchia a se medesmo del mancamento ch'egli, e non il punito, commise".
"In questo sentimento - ripigliò il Conte - servono ad ogni ora, mentre col corteggio, e con la servitù, aggiungono decoro a tal Grande, che per i suoi poco onorevoli natali, maggiormente per i suoi costumi apparirebbe più che diforme".
"Truoviamo altra materia - disse il Barone - per non ridire più a longo le nostre miserie". Aperse in questo dire altra lettera, in cui così era scritto:
[XVI]
Molto Reverendo Signore.
Intendo dall'ultima vostra la risoluzione fatta d'attendere per l'avvenire al governo di fanciulli, e coll'addottrinargli, e trattenergli a loro spese, avanzarvi se non altro il vitto, per sfuggire la fame, e sodisfare all'appetito senza scandalo. Appruovo il vostro pensiero, perché questo è trattenimento proprio d'uomo già riposato, che non dovendo vagare qua e là, acquista lode con l'industria del provedersi nella propria casa. Oltre che non vi converrebbe l'andar cercando con che pascervi, allor quando una rabbiosa fame vi spinge. S'aggiunge pur anche la necessità di vostro fratello, il quale, come mi accennate, giace mai sempre, quasi infermo e languente, e se talvolta si leva, insorge con appetito di vivande dilicate, e particolari, non aggradendo cibi ordinari. Questi putti, che avete in casa, con la moneta che v'offeriranno a vostro compiacimento, vi porgeranno commodità di sodisfare a' di lui desideri, come commanda l'amore d'un fratello, massime in tale stato. Con la diligenza pure della loro servitù, col passatempo de' loro giuochi, forse lo faranno radrizzare di letto conducendolo a buon termine di salute. Ora non so se come facilmente vi siete accinto a questa impresa, così vi prommettiate di felicemente riuscire con la prattica di quelle regole, che a ciò si richiedono. L'affetto, che vi professo, m'ha persuaso all'addottrinarvi con fondamenti d'esperienza, accioché non erriate nella vera strada di questo vostro impiego.
Avvertite primieramente di non prendere sotto di voi fanciulli i quali, come suol dirsi, abbiano ancora la bocca di latte. Ancorché questi rassembrino più abili al suggere, quasi da poppe da' vostri insegnamenti ogni buon termine, fallisce la speranza, perché la poca loro capacità non corrisponde alla buona piega che hanno per accommodarsi al tutto. Hanno mira alle frascherie, più che al sodo: là onde admettereste in casa un imbroglio di strepiti, una confusione di grida, più tosto che un trattenimento di riposo. Dovendo voi pur anche alimentargli, fa di mestieri che gli eleggiate in essere nel quale sappiano masticare, né siano di così teneri denti che non possano mangiare una carne nervosa, e anche roder un osso. Altrimente vi porreste in obligazione di mantenergli solo a polpe di capponi, a stillati, e altre gentilezze, che vi riuscirebbero di discapito, più che d'avanzo. Se occorresse tal volta insegnar loro di porre il boccone in bocca, godete di questa simplicità, né ricusate la fatica dell'addottrinargli in questo, accioché apprendano i particolari d'ogni buona creanza.
Siano di buona età, in guisa che sappiano spogliarsi, e rivestirsi da loro stessi, onde voi non siate necessitato di provedere a ciascuno d'un servitore. Abbiano gli anni alla discrezione, onde diversamente mangino un pezzo di pane, e un pezzo di carne. Voi nel rimanente, non mancate del vostro debito. Vi serva di primo avviso il non rimirare in faccia ad alcuno, ma esser loro sempre alle spalle, procurando instantemente che ricevano i vostri documenti. Fate che prima tocchino con mano il punto della dottrina, la quale volete insegnare, accioché non s'atterriscano alla prima proposta di materia dura, e difficile a capirsi. Non persistete ostinatamente in pensiero di far loro apprendere tutto ad un tratto ciò che proponete. Altrimente gli esporrete a necessità di piangere, e lagnarsi quasi disperati. Non permettete però che s'avvezzino al lagrimare, e a gridare alla sola mostra della verga, o bastone, che usate per sferza, poiché questo soverchio timore è vizio da cui mai non vi si concederà il giungere al vostro fine. Con chi non ha capacità corrispondente al talento, che voi spendete, pratticate la gentilezza, e la discrezione, insinuando a bell'agio e con piacevolezza ciò che rassembra mai non siano per apprendere. Date loro passatempo, e trattenimento, onde nel maggior fervore dello studio siano allettati anch'essi da qualche gusto. In tal modo compiaceranno più arditamente a' vostri desideri, e prenderanno per costume il correre ad abbracciare la vostra dottrina. Pratticate nel publico gli stessi trattamenti con tutti. La parzialità sia privata con alcuni, i quali riconoscerete di più graziose maniere, ed esperimentarete essere di vostra maggior sodisfazzione. Esercitate tutti, o almeno i migliori universalmente, stando che il fermarsi sempre addosso ad un solo, n'esce a lui di noia, a voi di poco piacere. Procurate di rendergli vivaci, e arditi, là onde non quasi statue ricevano ciò che in essi imprimete. Siano di leggiadro spirito, e maneggiandosi con un brio che molto diletta, abbiano animo per far ripetere anche a' compagni la lezzione che loro insegnate. Vostro fratello, in somma, rimeritando la carità che gli faranno, potrà servire a scozzonargli gentilmente, usando sempre lusinghe, se voi forse dall'autorità magistrale sète necessitato al pratticar il rigore. In questa professione fa di mestieri l'essere giudicioso, e discreto, posciaché guasta il lavoro chi non sa operare co' debiti modi. Avrete commodo il satollare i vostri appetiti, quando per correre talvolta al boccone con troppa ingordigia, non esponiate voi stesso a rischio di suffocarvi. Sono dannevoli questi cibi a certi balordi, che se gli lasciano attraversare nella gola, onde ricevono castigo maggiore del diletto. So che voi, abituato in quest'arte, saprete non errare nelle regole. Bastami però l'avervi ricordato ciò che l'amicizia nostra m'ha suggerito necessario ad ogni vostro buon progresso. Bramo di cooperare a questo in ogni occorrenza; che però pregandovi ad impiegarmi in cosa di vostro servizio, finisco, e vi bacio le mani.
"Costui - disse il Barone - è un buon pastore di questi agneletti, e quando ponesse una catedra in Roma, mi do a credere che sarebbe concorrente co' maggiori di questa professione".
"Colà - soggiunse il Marchese - s'insegna il modo di regger pecore, non agnelli, come documento necessario al governo delle anime".
"Voleste dire - ripigliò il Conte - che s'insegna la forma di scorticarle".
"Non veniamo in grazia - conchiuse il Cavaliere - a questa dichiarazione". A fine però di rimuovere questi discorsi propose altra lettera, che cosi diceva:
[XVII]
Molto Magnanimo Signore. Per la condotta di Sebastiano Piccinellii mando una cassa di minestri, o vogliamo dire cazzuoli. Dal Signore Mastro di casa ricevo ordine d'inviargli a V.S. In esecuzione però di quello sono indrizzati a lei, e devono servire a cotesta corte del Principe suo Signore; né essendo questa mia per altro faccio fine, e le bacio le mani.
"Quanto è sciocco costui - disse chi leggeva -, in vece di scrivere per la cucina, ei scrive per la corte. E a che devono servire nelle corti cazzuoli, o minestri?".
"Non ha scritto male - soggiunse il Conte - perché la corte altro non è che una cucina, in cui chi serve è stagionato tra mille patimenti, conforme a' voleri del Padrone".
"A fé - replicò il Barone - che da questa cucina de' Grandi non escono che ossa spolpate, le quali rompono i denti, o per il meno fanno stillar sangue dalle gengive di chi le rode".
"Appruovo - disse il Marchese - questa proporzione di cucina e di corte, poiché i poveri cortigiani s'arrostiscono, si consumano, o su'l fine, andando il tutto su la mensa del Grande, non rimane per loro altro che il fumo, il quale serve al fargli lagrimare".
"Quando ciò sia - ripigliò il Cavaliere - sono molto necessarie in una corte queste misure, per distribuire egualmente le minestre delle dignitadi, e de' favori, non riempendone uno, in modo che gli altri partano digiuni, se non famelici. Con questa misura pur anche, apprenderebbero i grandi il debito di non superare ne' premii la capacità del merito, di maniera che si rimeriti un servitore di due anni, più d'un altro invecchiato, e quasi decrepito nel servizio. In mancamento di questa regola succede che un fanciullo, e quasi infante nella virtù, e nel valore, è trattato egualmente ad altri di maturo senno, e d'una incanutita prudenza". "È impossibile - replicò il Conte - il prescrivere somiglianti leggi all'indiscretezza de' Principi, abituati di soverchio in mal trattare il merito, e favorire gli scelerati".
"Troppo siete precorso, o Conte - ripigliò il Barone -, là onde non occorre fermarsi più longamente in questa verità, che ci necessitarebbe al proseguire i biasimi de' Principi, i quali pure conviene lusingare con l'adulazione".
Rappresentossi alla commune curiosità una lettera latina. La propose il Cavaliere, ma la rigettavano i compagni, là onde egli disse:
"Sète forse nel ruolo di quelli ignoranti che, troppo amici del volgare, hanno in abborrimento l'idioma latino?".
"Dite pure - soggiunse il Conte - nel numero di molti de' letterati moderni, tanto contrari alla latinità, che non si curano di sapere se amo amas è impersonale, o neutro".
"Meritano scusa questi - ripigliò il Marchese - poiché correrebbero rischio d'imbastardire il linguaggio Toscano con idiotismi latini, acquistando titolo di Pedanti, più che di scrittori. Tanto si scorge negli scritti d'alcun moderno, il quale essendo condannato in questo particolare, serve di documento a gli altri".
Conchiusero d'udire questa lettera al vedere ch'era d'un Padre Giesuita. "Conterrà in sé - disse il Barone - alcun interesse de' Principi, spiato da questo buon Padre nell'anticamera d'alcun Grande".
"E perché non nel suo proprio gabinetto? - soggiunse il Cavaliere -. Rassembra bene che siate poco esperto de' costumi di questi tali, e massime dell'ordinaria proprietà d'ambire la privanza de' Principi, più forse che quella di Christo. S'apprendono a quel detto Non [enim] erubesco Evangelium, e all'altro Littera non erubescit là dove, e come Religiosi, e come dotti, con buona fronte si spingono avanti in ogni luogo". Ciò detto, per acquistarsi quasi con esordio l'attenzione degli altri, così principiò a leggere:
[XVIII]
Caris[simus] in Christi F[rater], salutem.
Ultimis tuis litteris certior sum factus, quod periclitantem Congregationem nostram nemo est qui sublevet, nisi omnipotens Dei manus suum nobis praestet auxilium. Ubi incendia nimis excrevere, diluvia lachrimarum minime prosunt, et naufragium quod imminet, dulcedine portus difficile iam poterit rependi. Ecce statua illa miserabilis Nabuchodonosor, cuius aureum caput quasi ad supremi luminis aemulationem, coelestia principia praesignabat. Nec minus in argentea puritate, ac in aeris et ferri fortitudine progressus nostrae virtutis indicabantur. Sed ad pedes tandem declinans nostra sublimitas, fragilem materiam occurrit, et unde speranda erat stabilitas, inde exorta est ruinarum occasio. Eccine affectus nostri, qui in coeno terrenarum rerum volutati, non ut fas erat in Coelo positi, plantas istas constituunt, cum quibus, nostra virtute eradicata, iam propemodum diruta est tota foelicitas. Nimia lucrandi aviditas, unde in Principum aulis locum habere curamus, ut loculos auro plenos possidere possimus, insatiabilem quemdam appetitum demonstrant, Christi paupertati minime consimilem. Iam apparet, quod primates magnatum, non Iesu famuli censemur, et hinc est quod nosmetipsos deprimimus, dum cupimus altiora conscendere. Sollicitudo nostra in erigendis sublimibus aedificiis iam emicat, quae marmorea dignitate et divitiarum fulgore nitentia, prostratae humilitatis trophaea Coelo approximant. Vae nobis, qui magnificis aedibus superbi virtutem coarctamus, eo magis pauperes spiritu, quo magis mundanas glorias extendimus. Saecularibus honores invidemus, bona usurpamus, et profectus semper maiores cogitantes, quotidie magis ac magis deficimus. Vana est hypocrisis, quae vel collum incurvat, oculos demittit, os detinet sacra semper murmurans, manus non nisi corona implicatas ostendit, dum opera sanctitatem abolent et affectus virtuti contrarios patefaciunt. Hinc est, o mi frater, quod in universo iam contemptibiles sumus, non ut Apostolica desideria decernunt, sed ut nostra vitia cogunt. Haec non est via Sanctorum, nec, qui praecepta dederunt, haec nobis reliquere vestigia. Et quomodo duraturam per saecula societatem nostram sperabimus, si uno paene saeculo completo a vero itinere aberrantes, ad praecipitia pergimus? In Hispania, ubi et radices et germina huius nostrae matris fuere, arefactus est vigor, et iam devastatae gloriae in ipso utero unde sumus exorti, sepulchrum minantur, in quo iaceamus extincti. Dominicana Religio, ibi nostrae praefertur; et merito nos, qui caetera Religiosorum collegia contemnimus, prae omnibus ipsi contemnimur. In Gallia, fortunam restauravimus, sed non recuperavimus. In Germania, si non regredimur, nihil certe progredimur. Et inutiles iam sunt illae fraudes, quibus defuncti Imperatoris benignitate nostri nimis audaces abusi sunt. In Italia, a Veneto statu exules, in aliis partibus, si non eiecti, despecti, parvae aestimationis, si non contemptus, proventibus fruimur. Isthic Romae, ut ipse fateris, quo magis multiplicamus monasteria, eo minora theatra virtutis aperimus, ac aliorum pietatis monimentis, sanctitatis monumenta superbis moribus et avaris affectibus adiungimus. Quid igitur remanet, nisi quod Indianis in oris, terminos gloriae nostrae constituamus, et in illis desertis floreant, dum in hortis Europae non virescunt? Sed et ibi decrescunt, et pristini decoris pompas deperdunt. Lachrimarum fluctibus profecto funebria cogito, quia fas est proximam mortem expectare, dum ante unicum saeculum corpus ita forte elanguit. Avertat Deus illa mala, quae ipsum ad supplicia cogunt, et mentes eorum, qui propria damna fovent, ad suprema erigens, imminentes calamitates repellat, ut fulmina quae iuste timentur, misericorditer removeantur. Datum Coloniae Nonis Maii M.DC.XXXXI.
[Carissimo fratello in Cristo, salute. Dalle ultime tue lettere sono messo al corrente che la nostra congregazione è minacciala dal pericolo, e non c'è nessuno che possa sollevarla, se la mano onnipotente di Dio non ci presta il suo aiuto. Una volta che gli incendi sono cresciuti troppo, diluvi di lacrime non servono a nulla, e il naufragio ormai imminente diffìcilmente potrà essere riscattato dalla dolcezza del porto. Come la famosa statua di quel disgraziato Nabuccodonosor, l'aurea testa della quale, quasi ad emulazione del sole, era supremo segno dei principi celesti, non meno si indicavano i progressi del nostro potere nella purezza dell'argento e nella fortezza del bronzo e del ferro. Ma da ultimo, declinando a terra, la nostra sublime altezza si imbatte nella fragile materia, e donde era da sperare stabilità indi sorge l'occasione della rovina. E vedi come i nostri affetti che, voltolati nelle lordure terrene e non, come doveva essere, fissati in cielo, costituiscono queste piante con le quali, sradicata la nostra virtù, già sta per essere rasa al suolo ogni felicità. La troppa avidità di guadagno per cui ci preoccupiamo di trovare un posto nelle corti dei principi per poter possedere delle casse [e 'casse da morto', anche] ripiene d'oro, mostra un appetito quasi insaziabile, per nulla simile alla povertà di Cristo. Appare chiaro che siamo ritenuti primati dei ricchi, non compagni di Gesù, e di qui accade che ci deprimiamo con le nostre mani mentre desideriamo salire più in alto. Ormai è nota la nostra sollecitudine nell'erigere sublimi edifici che, splendenti di marmorea dignità e di ricco fulgore, avvicinano al cielo i trofei dell'umiltà abbattuta. Guai a noi, che superbi di queste magnifiche sedi soffochiamo la virtù, tanto più poveri di spiritualità quanto più estendiamo le nostre glorie mondane. Invidiamo gli onori ai laici, ne usurpiamo i beni, e mentre pensiamo a guadagni sempre maggiori il nostro deficit cresce di giorno in giorno. Vana è l'ipocrisia di quelli che ora torcono il collo, ora abbassano gli occhi, ora tengono la bocca sempre occupata a mormorare giaculatorie, mostrano le mani solo intrecciate di coroncine e intanto dimenticano la santità e mostrano sentimenti contrari alla virtù. Per via di questo, fratello mio, siamo ormai disprezzati da tutto il mondo, non come impongono i desideri degli apostoli ma come obbligano a fare i nostri vizi. Questa non è la via dei santi, e quelli che ci diedero i precetti non ci avevano lasciato queste orme da seguire. E come spereremo che la nostra società possa durare nei secoli, se passato appena un secolo già noi, abbandonata la retta via, corriamo al precipizio? In Spagna, dove furono le radici e i germi di questa nostra madre, il vigore è inaridito e, già devastate le glorie nello stesso utero donde siamo nati, ci minacciamo il sepolcro nel quale giacere estinti? Perfino lì i domenicani sono preferiti a noi, ed è giusto: noi che disprezziamo tutti gli altri collegi religiosi siamo a nostra volta disprezzati avanti a tutti. In Francia siamo riusciti a restaurare la nostra fortuna ma non a recuperarla, in Germania, se non siamo andati indietro, di certo non siamo andati avanti. E ormai inutili sono quelle frodi con le quali i nostri, troppo sfacciati, abusarono della benignità del defunto imperatore. In Italia esuli dalla Repubblica di Venezia, nelle altre parti se non scacciati disprezzati, godiamo i proventi della poca stima per non dire del disprezzo. A Roma, come tu stesso ammetti, dove di continuo moltiplichiamo i nostri monasteri, tanto minori teatri di virtù apriamo e ai monumenti di santità altrui uniamo i nostri superbi costumi e la nostra avarizia. Che ci rimane dunque se non costituire i termini della nostra gloria sulle rive dell'India? Che fioriscano in quei deserti quando non riescano più a verdeggiare nei giardini d'Europa. Solo che anche lì decrescono e perdono le pompe dell'antico decoro. Di certo da questi frutti di lacrime sono indotto a funebri riflessioni, perché è lecito aspettare che sia vicina la morte quando, prima di compiere un solo secolo, il corpo [della nostra congregazione] è di già così illanguidito. Che Dio tenga lontani quei mali che lo costringono a ricorrere ai supplizi, e innalzando alle cose supreme le menti di coloro che nutriscono i propri danni, respinga le imminenti calamità affinchè i fulmini che a buon diritto si aspettano misericordiosamente siano tenuti lontano da noi].
"Ecco - disse chi leggeva - terminata la confessione di questo buon Padre, il quale con una sincera verità ha esposto le communi colpe della sua Religione".
"Sarebbe inconveniente - soggiunse il Marchese - che non esercitasse il modo di ben confessarsi, chi l'insegna ad altri".
"Quasi che - ripigliò il Barone - eglino stessi non lascino di pratticare il modo di ben vivere, che pure propongono co' loro insegnamenti".
"E parvi - disse il Cavaliere - che non vivano bene questi buoni Padri, li quali nel mangiare e nel bere emulano il lusso de' più Grandi, e in altro particolare godono delizie di Cardinali?".
"V'intendo - disse il Conte -, ma lasciamogli in grazia nella loro pace, e investighiamo altra materia di trattenimento, per contrapesare la noia, arreccata da questa leggenda latina". Apriva allora per appunto nuova lettera, e steso il foglio, in tal tenore fece favellare que' caratteri :
[XIX]
Illustrissimo Signor mio.
A fé, Illustrissimo Signor Francesco, ch'io sono uscito da un laberinto molto ravviluppato, ancorché non sia un Teseo, né godessi l'amicizia d'una Arianna, la quale sapesse legare la mia libertà con un filo. È gran tempo che V.S. non ha ricevuti attestati della nostra amicizia in mie lettere. Intenderà nella presente l'occasione di questo mancamento, fatta partecipe de' successi delle mie fortune.
Mi sottrassi fuggitivo al dominio di mio Padre già alcuni mesi, promosso a tale risoluzione da una bizarra gioventù, che ricusava di tolerare il freno dell'autorità paterna. Pensiero nato senza allevatrice di giudicio, non poteva che essere un parto sconcio, accompagnato da poco buoni eventi. Partii proveduto di denari, non già per il bisogno, ma solo quanto bastava per darmi ale, onde secondassi il volo di questo mio capriccio. Presi la strada verso Roma, come che avevo udito più volte quella esser Città fortunata per li pazzi, e per chi non ha pensiero di far bene. Io, già aruolato sotto queste insegne, mi figurai colà il Campidoglio, dove presumevo vedermi trionfante. Avendo pur anche inteso che colà si va in giro professandosi particolarmente la figura sferica, m'imbevetti di speranza, la quale mi persuadeva che sotto quel clima avrei ritruovata la ruota della mia fortuna. Non m'ingannai per una parte, ma sinistra interpretazione falsificava il sentimento di questi concetti.
Tanto dimostrò l'esperienza. M'incaminai verso Firenze, dove giunto, avvertii che gli giovani sbarbati di non ingrata presenza, sono salvaticine molto apprezzate, per le quali non v'è caccia riservata poiché ciascuno ha libero il procurarsi boccone sì delicato. Altrimente seguirebbe gran disordine, vietandosi que' gusti maggiori che portano gl'influssi di quel Cielo. Appena fui veduto che molti somiglianti cacciatori mi presero di mira, e mostravano d'aver in pronto l'archibugio per uccellarmi. Osservarono alcuni dove io fermavo il corso per riposare. Figuravansi forse di prendermi a Cavaliere, non credendo ch'io già eromi avveduto qualmente bisognava ch'io mi trattassi come lepre, dormendo cogli occhi aperti. Concorrevano molti all'osteria, in cui avevo preso l'alloggio, in guisa che mi si ricordava per appunto il concorso de' Sodomiti alla casa di Loth, allor quando albergò gli Angeli, sotto sembianze di vaghissimi giovani. Venivano, come cani all'usma, e incontravano chiuso il passo, mentre mai non volli uscire dalla mia stanza, per non abbattermi ne' loro assalti. Un certo barbone, veltro molto esercitato in far queste prede, entrò nella camera, per invitarmi a nome d'un Signore, ch'egli nominò suo Padrone. Dissemi che questo, obligato alle pompe di nobiltà quale vantava il mio sembiante, e alle graziose maniere d'una apparenza gentile, aveva risolto di servirmi nel tempo in cui fossi dimorato colà. Applausi a questi termini d'interessata gentilezza con affettati ringraziamenti, protestando ragionevoli scuse, per ricusare un onore tanto più apprezzabile quanto meno meritato. Continuò colui importuno le instanze, risoluto cred'io d'afferrarmi, per compiacere a chi l'avea mandato. Ma non meno ostinato io stesso corrisposi alla sua indiscretezza, in modo che partì disperato, avvertendo qualmente in altro nido che il mio bisognava collocare i disegni del Padrone. Non sì tosto liberommi il Cielo da costui, che fui assalito dal pretendente, ch'in persona venne al predarmi, stimando il servitore manchevole ne' requisiti dell'arte. S'occupò in molte ceremonie, insinuandosi con occasione di queste al toccarmi la mano, allo stringerla, e all'accennarmi il suo appetito. Dopo le inequisizioni del mio stato, della mia patria, e d'altri particolari, ne' quali tratteneva i suoi ragionamenti a fine d'avanzare la familiarità della conversazione, procurò di condurmi alla sua casa, accertandomi d'ogni cortese trattamento. Abbreviarò in somma il racconto, trasportandolo all'ultima meta in cui quegli, fervente nella caccia, si spinse alle buone prese, che potevano farmi suo. Lo risospinsi con un maestoso rigore, da cui era avvertito che sentimenti di riputazione non gli avrebbero permesso l'assoggettirmi alle sue voglie. In somma lo lasciai con un palmo di naso, da troncarsi con altre forbici che le mie, quando avesse ricusato di vedere quella monstruosità avanti di sé. Connobbi allora che lo o, frequentato dagli abitanti di quella Città nel favellare, è un tributo il quale offeriscono anche parlando al prurito del Genio. Partii il giorno seguente, prevenendo l'aurora, precorso con tutto ciò da alcuni, i quali, con accoglienze se bene spropositate, s'agevolavano il palparmi le mani, e affissandosi in me procuravano almeno fermarmi scopo nella loro imaginazione, per scaricare l'archibugio a segno.
Continuai il mio viaggio, senz'altro accidente di considerazione, fuori di quello che portò finalmente il mancamento di denari. In questo solo punto cominciò il pentimento della risoluzione, che non più poteva ritrattarsi, levandone gl'inconvenienti. Ero distante due giornate da Roma, sproveduto per continuare il camino, e peggio in ordine per ritornare adietro. Mentre una sera, sovrapreso da questi pensieri, ero confuso nelle angustie di questo mio stato, là onde scorgevomi in necessità d'impegnar me stesso nell'albergo in cui mi ritruovavo, giunse nel medesmo luogo per causa d'alloggio una compagnia di calcanti. Tali gli ravvisai dopo, con debito di ringraziare la fortuna per il loro incontro. Alcuni d'essi compassionando gli affanni che dimostrava l'esterna apparenza, spiarono i miei mali con cortese intenzione di sollevarmi da qualunque affanno. Scuopersi loro il tutto, avvertendo qualmente nell'usare la lingua in rimedio de' propri tormenti, dobbiamo imitare i cani, che con quella sanano ogni loro piaga. M'accolsero gentilmente, con assicurarmi abbondante provisione del tutto, quando avessi risolto di correre con essi la sorte medesma. Imaginisi V.S. se questa offerta di pane poteva rifiutarsi da un affamato, quale io ero. Sottoscrissi ad ogni condizione, perché la necessità pattuiva. Oltre che potevano allettarmi i buoni trattamenti d'una vita ch'eccedeva nel lusso, come è proprio di simile canaglia. M'aggiunsi a loro, e unitamente con essi mi condussi a Roma, sempre maggiormente contento d'essere capitato in adunanza di galantuomini, il viver de' quali è felicità, ancorché sia infamia la professione. Fui introdotto la prima sera nel loro Capitolo, dove i miracoli di stroppiati che si radrizzano, di ciechi i quali ricuperano la vista, di membra mutilate che ritornano intere, sono così copiosi ch'arrecano stupore, sapendosi non concorrervi forza di Santità. Offerto che ebbe ciascuno il suo guadagno, si fece nuova scena: e spogliata la pallidezza del viso, deposti i cenci stracciosi, formarono un atto di comedia, estesa in periodi d'allegrezza tra suoni, danze, e il compimento d'una lauta cena.
Mi furono proposti diversi impieghi, co' quali potevo farmi non ozioso ministro della loro professione. Conosciuto di poca abilità al rubbare, e di minor attitudine al mentire, poco esperto nel loro linguaggio, fui applicato ad esercizio in cui anche alla muta avrei persuaso altri al promuovere i nostri interessi. Il giorno seguente era consecrato a solennità grande, che portava conseguenza di numeroso concorso di popolo. Mi destinarono alla prima impresa in quell'arringo, nel quale fingendomi infermo, dovevo farmi ladro. Di buon mattino i più vecchi dell'arte m'armarono con le proprie insegne, onorandomi con un abito, il quale era un lacerato stendardo, in pompa de' loro trofei. Piegandomi il braccio destro, lo collegarono raddoppiato verso la spalla, e con un non so qual imbroglio di pasta fabricata da loro stessi, m'affissero su'l gomito un tale impiastro, che faceva credere tagliato di fresco il rimanente del braccio. Non diversamente acconciandomi la gamba sinistra, le diedero sembianze d'una colonna, o piede stallo d'ulcere, e piaghe. Con fascie poi, e con laceri panni, formavano un composto in cui era compassionata la mendicità, se non commiserato il male. Con fumo di zolfo finalmente, disseminando i pallori nel volto, mi diedero sembianze le quali poteano farmi credere fuggito da una tomba. Rassembrava almeno che la morte mi perseguitasse, quasi preda fuggita dalle sue fauci, mentre avevo faccia più d'agonizante che d'uomo vivo. Rabbuffato similmente il crine, e confusamente nascosto sotto d'un panno lino annerito dal fumo di mille secoli, mi compirono in forma d'orridezza, fatto spettacolo il quale commoveva con le violenze del terrore più che con le forze della pietà. Fummi consegnato il mio posto su la porta della Chiesa accennata, in cui andò fallita la speranza de' compagni, e l'esito mi necessitò alla disperazione. I rossori della vergogna, al considerarmi fatto così sprezzabile per capriccio, superarono gli artificii di quella finta pallidezza, là onde nell'apparato delle guancie colorito da' rimorsi della nobiltà, vedeansi mentite le apparenze. Il viso per altro, con una aria leggiadra, e con brio giovenile negli occhi, accusava falsamente aggiunte sembianze di cadavero. Addocchiommi un Grande, il quale con pompa di numeroso corteggio entrava per udire la Messa. Sotto pretesto di simulata pietà, affissando in me gli sguardi, esaminò tutte le parti del volto. L'appetito appruovò condizioni desiderabili per suo compiacimento. Con una meza occhiata e con un soghigno m'accennò ad un suo privato, consapevole forse della qualità di simili piaceri, soliti di pratticarsi da lui. Racconciando poi la faccia con sembianze di maestoso rigore, fece credere effetto di compassione l'ordine ch'ei diede per farmi portare nel proprio palaggio, obligando i suoi ad una diligente custodia, e dimostrandosi ansioso di vedermi in istato di ricuperata salute. M'avvidi d'essere nella trapola, senza poter fuggire questa sorpresa d'un atto di carità troppo pronto. Furono eseguiti li commandi del Grande, il quale già mi disegnava al far digerire una durezza che sentiva su lo stomaco, da non smaltirsi che col fomento di carni giovenili. Fui posto sovra morbide piume, per maggiormente assicurarmi che non avrebbe il Padrone sdegnata la morbidezza di quel letto. Io non sapevo con qual rimedio far fronte a questi pericoli, se non coll'avvalorare i miei mali con grida, che avrebbero fatto concorrere i dannati, dando a credere il mio Inferno più doloroso del loro. Ogni qual volta, a tocco benché leggiero, davasi occasione di risentirmi, o per il braccio, o per la gamba, esclamavo come disperato. In tal modo speravo di riuscire almeno noioso, di modo che l'impertinenza della mia indiscretezza mi liberasse da questo impaccio. Ero in buon termine per godere l'evento di questo mio disegno, posciaché già annoiati li servitori procuravano di sottrarmi al proprio governo, dicendo ch'io ero il disordine di tutta la famiglia, e lo sconvolgimento della casa.
Rimosse questa mia ventura il soverchio affetto del Grande, ch'al ritorno onorommi in persona della sua visita. Rinforzò gli ordini, ch'inculcavano un sollecito governo, a fine di provedere ad ogni mia necessità. Ebbe nuovo argomento per maggiormente invaghirsi, mentre l'opportunità dell'essere io nudo in letto, gli rappresentò in qualche parte del mio corpo un candore da cui congietturava un buon pasto, quando gli fosse riuscito d'assidersi alla mensa che desiderava. Vennero due chirurghi per veder le piaghe, e applicar loro i medicamenti convenevoli. Questo fu il maggior punto de' miei affanni, onde ero posto in necessità di scuoprire la frode, che mi confinava nelle reti di colui. Feci forte la voce per resistere a questo incontro, con spietate grida sforzandomi di vietare lo sfasciarmi la gamba. Con gagliarde violenze contrastavo la loro ostinazione, mentre essi predicandola giovevole a risanarmi, persuadevanmi al pazientemente tolerarla. Supplicavo d'esser condotto nell'ospitale, dove essendo consegnata la mia infermità, o alla natura, o alla fortuna, avrei provato meno dolorose condizioni. Affermavo qualmente il mio male, non avvezzo a' lenitivi de' medicamenti, esacerbavasi più tosto, nel privarlo di questa consuetudine. Spaventati gli chirurghi dallo strepito de' miei lamenti, deposero il pensiero di sviluppare quell'intricato ravvolgimento di menzogne, poste per appunto tra le fascie accioché crescessero alimentate dal latte della frode. Consultarono di tagliarmi tutta la parte offesa, la quale dal sentimento ch'io dimostravo, argomentavano putrefatta, e quindi certo preludio di vicina morte, quando col recidersi non si togliesse la communicazione di membro corrotto, ch'infetta il rimanente del corpo. Diferirono al giorno seguente la effettuazione di questo consulto, forse per dar tempo ad altra mia risoluzione, ch'il terrore di questo colpo avrebbe altrimente maturata. Non avevo pensiero per considerare, nonché per risolvere, angustiato da soverchia confusione, là onde facevomi talvolta ardito per imitare quello Spartano, il quale permise divorata una sua coscia, più tosto che scuoprire il furto della volpe rubbata. Così persuadevami il corraggio di tolerare questo maccello, per vietare gl'inganni della mia nuova professione.
Mandò finalmente soccorso la sorte, dopo d'aversi preso bastevolmente trastullo in questi suoi scherzi. Scherzi però troppo dolorosi erano questi, ch'angustiavano l'anima con obligazione di piangere per dar varco a' loro troppo spietati trattamenti. Già era tempo per convertire le beffe di costei contra il Grande che m'aveva imbarazzato ne' suoi giochi. Intesero i compagni quanto m'era succeduto, con poco buono presagio per loro, quando il zoppicare delle mie bugie facesse precipitare il lor mestiere. Prendendo però partito, mandarono alla casa dove io ero uno, che fingendosi mio frattello mi rapisse dalle zanne di chi mi tratteneva per aver un boccone da ingoiare a requisizione dell'appetito, senza consumarlo. Venne con pompe di Cavaliere, in abito che lo publicava giunto di fresco in Roma. S'abboccò col Padrone, e narrò la mia fuga, l'infame ripiego a cui, per quanto diceva d'aver inteso, io m'ero appigliato, arruolandomi tra' calcanti, che però in quel finto stato d'infermità avevo dato impulso a gli affetti di una divota compassione. Accennò la nobiltà de' miei natali, aggiungendo instanza di riavermi per consolar il Padre addolorato dalla mia fuga. Stupì quel Grande, rispondendo con tratti molto gentili; lo condusse nella stanza, in che io giacevo, tormentato dalla disperazione. Al veder colui, risorse il mio animo, ricaduto però ben tosto, mentre l'udii rinfacciarmi l'infamia di questo nuovo esercizio, come che così vilmente fossi tralignato da' miei maggiori. "Deponete - dissemi - quelle finzioni, che vi dimostrano infermo, non dovendo lagnarvi d'altro male che di puoco cervello". A questi rimpruoveri di chi condannava una azzione di cui egli stesso era stato complice, e promotore, rimasi istordito. Al nominarsi finalmente mio fratello, specificando il disegno di ricondurmi al Padre, penetrai l'invenzione del furbo. Concertando però co' suoi detti, e coll'arrossirmi publicando il mio fallo, mi sforzavo di tasteggiare, in modo che non seguisse dissonanza alcuna. Ricuperai il braccio, feci leggiadra la gamba, disciolsi la confusa chioma, imbrogliando tanto maggiormente gli affetti di quel Grande, pentito del non avermi fatta la carità su'l bel principio, là onde potesse in quel punto vantare la sodisfazzione de' propri desideri. Allo scorgermi assai più vago in una vivace gioventù non corrotta da false apparenze, pruovava gli stimoli d'un grande rimordimento, per aver trascurata opportunità così felice di gustare li bramati piaceri su la mia mensa. Procurò di trattenermi, ma sempre indarno, posciaché il finto fratello sollecitava la partenza disegnata il giorno stesso. Adduceva per causa d'affrettarla il non voler prolongare maggiormente i dolori del Padre. Avvalendosi il furbo delle dimostrazioni d'affetto, che quegli professava verso di me, sforzossi d'accoppiare all'esito de' suoi disegni l'acquisto d'un bellissimo abito, di cui quel Grande mi fece dono, sotto pretesto del non aver io in quello stato con che rivestirmi. Affermando in oltre d'essere stato spogliato nel viaggio da persone di mal affare, ottenne denari soprabondantemente, per ricondurmi. Così il povero merlotto diede la giunta, senza poter spacciare la carne, che pure di vantaggio gli cresceva inanzi. Mi liberai dall'obligo di prenderla, esentandomi pur anche da ogni somigliante pericolo coll'uscire di Roma. Risolsi il ritorno alla patria, dove ora pure mi ritruovo ricuoverato sotto le ale paterne. Non s'offenda V.S. della prolissità di questo racconto, mentre fatta certa della mia continuata affezzione, e del mio bene stare, può vantarsi d'avere ricuperato un servitore. Sapendo almeno dove io sia, dovrà inviarmi i suoi commandi, i quali attenderò di tutto cuore come la prego ad onorarmene; e per fine, etc.
"E che vi pare - disse il Conte - di questi atti di gran carità, che s'usano in Roma, con grande pompa per certo della liberalità di que' Grandi?".
"Quando si rappresentano simili occasioni - soggiunse il Marchese -, prodighi oltre misura dispergono ogni loro avere, lasciando per altra parte miserabili, e famelici, li virtuosi e altri personaggi di molto merito".
"Rimmettiamo - disse il Cavaliere - l'obligo di favellare di somiglianti atti di carità a persone Ecclesiastiche, e Religiose, come d'esercizio lor proprio".
"E che osservaremo - ripigliò il Barone - in così longa lettera? Forse le furberie de' calcanti?".
"Non in grazia - replicò il Marchese -, stando che questi non possono mal trattarsi senza pungere li Prencipi, i quali sono capi di questa professione".
"Ciò forse accennate - disse il Conte - perché eglino prescrivono il modo di rubbare, senza che apparisca specie di furto. Hanno anch'essi il loro linguaggio, non inteso che da chi prattica gl'interessi di stato; hanno le loro arti, e particolari dogmi, tutti indrizzati al rapire l'altrui con leggiadria tale che s'obligano chi eziandio rimane da loro spogliato. Almeno fa di mestieri che così finga, per necessità d'incontrare il lor genio".
"E dove tralasciate - replicò il Barone - l'uso loro di vender il falso per vero, di fingere necessità, per giustificare le estorsioni, de' sudditi, applicate il più delle volte ad accrescere il lusso di superbe grandezze; il frequentare in somma invenzioni per moltiplicare gli acquisti, regole, per appunto, che s'insegnano nella scuola de' calcanti?".
"I Grandi - ridisse il Barone - hanno la catedra dove s'imparano le finzioni, e i latrocinii ammantati".
"Passiamo ad altro in grazia", replicò il Barone, che aveva nuova lettera nelle mani, in cui così lesse:
[XX]
Molto Magn[animo] Sign[ore].
Mando a V.S. braccia venticinque di questo nostro panno alto, come ella ricercò nell'ultima sua, per farsi un mantello. Credo però che abbia errato nello scrivere, perché tale quantità bastarebbe al vestire due Giganti. Comunque ciò sia, a me poco importa; come che ho preteso semplicemente d'ubbidire a' suoi commandi, a' quali m'offro prontissimo in occasione di maggiore rilievo; e con ciò facendo fine, etc.
"Fa di mestieri - disse il Cavaliere - che costui sia molto codardo, avendo necessità di comperarsi un mantello in Napoli, dove è il costume di provedersene senza spesa".
"Non è tanto il numero de' forastieri in quella Città - soggiunse il Conte - che possa supplire al bisogno di tutti; e altrimente ben sapete che non può rubbarsi in casa di ladri".
"Stupisco - ripigliò il Marchese - di quantità tale di panno, con cui si farebbe un padiglione alla torre di Babilonia, non che un mantello per un uomo".
"Vivono alla Spagnuola - rispose il Barone - in que' paesi, che però non usano quelle insegne di saltamartini alla Francese, ma estendono più a longo i loro pallii, per aggiunta di grave decoro ampliando le filaterie, come usavano li Farisei".
"Dirò più tosto - ripigliò il Conte - che avvezzi al sostenere su le spalle molte gravezze, vogliono un ferraiuolo di peso, accioché senza loro avvertimento, con la destrezza solita, non sia fatto ad essi un leva mano".
"Replicarò - aggiunse il Cavaliere - ciò che disse il Boccalini in somigliante proposito: volervi longhi mantelli, per cuoprire gambe di ladri, e di furbi".
"Dovrà forse servire - ripigliò subito il Marchese - ad alcun Prete, o Prelato che vestendo alla longa ricuopre fin i calcagni".
"Credo - disse il Barone - che tanto panno sia per un Medico, il quale forse deve farsene un mantello, che insieme serva di valdrappa, quando cavalca".
"Sono del vostro parere - soggiunse il Marchese - stando che hanno i Medici bisogno di longhissimi mantelli, per cuoprire i propri difetti, che avanzano loro fin sotto i piedi".
"Quando s'abbia riguardo a questa necessità - ridisse il Cavaliere -, io stimarò che sia inviato per alcun Grande".
"Pensate voi - replicò il Conte -, non bastano cinquanta braccia di panno per ammantare le tirannidi, le ingiustizie, e tutti gli altri vizii de' Grandi!".
"Aggiungete pure - disse il Barone - che vogliono mantelli i quali giungano loro fin sopra il capo, per sepelirsi dentro a quelli, onde siano ciechi al veder il merito de' virtuosi, le sceleratezze de' favoriti, a fine di poter opprimere senza discrezione, e onorare chi meno merita, senza termine".
"Vogliono in oltre - disse il Cavaliere - che s'estendano loro fin sotto i piedi, per cuoprire quella crudeltà, ch'ingiustamente talora conculca, o perché col manto, il quale vela i loro mancamenti, accrescono fomento alle altrui ruine, o perché finalmente con pessimi costumi calpestano quelle insegne di grandezza, le quali sono caratteri di Divinità".
"E dove lasciate - replicò il Conte - lo strascino d'una longa coda inventata per Maestà, ma permessa cred'io alla loro superbia, a fine che l'aggiunto di questa gli auttentichi bestie, quali sono dichiarati dalle operazioni".
"Già che sono tali - conchiuse il Marchese - lasciamogli in grazia a parte, perché non sortiremo fortuna che di calcii, o di morsi".
In conformità di ciò fu aperta altra lettera, i cui sentimenti non furono diversi da' seguenti caratteri; così diceva:
[XXI]
Illustrissimo Signore.
V.S. Illustrissima molto riscaldata contro la gentilezza di quel buon Cavaliere, che fa commune la sua moglie, mi porge materia d'ingerirmi nella sua difesa, per sostenere le sue ragioni. So qualmente verrò subito schernito con titolo d'avvocato de' becchi. Mi gloriarò nondimeno, certo d'avere clienti universalmente in tutto il mondo, e d'essere in posto nel quale potrò servire a gli amici. Oltre che seguendo l'uso degli avvocati di scorticare, avrò questo vantaggio: d'avanzare, oltre la pelle, anche le corna. E a dirne il vero, io non so conoscere da qual legge sia prescritto questo disonore, non fondato che in un capriccio di volgo, e in una imperfezzione propria d'amanti gelosi del bene che possedono. Amore, sempre timido di perdere l'ogetto gradito, con questo pretesto ha opposto riparo, contro chiunque pretendesse usurparglielo, o per il meno communicarne. Dunque personaggio riguardevole, o in sapere, o in grandezza, dovrà assoggettirsi alle voglie d'un pargoletto senza senno, e dovrà secondare i timori d'un fanciullo disarmato? Permettiamo tanta viltà a' giovani, che tiranneggiati indiscretamente da questa passione, hanno per loro idolo una donna, e per farla inseparabile, onde non aderisca ad altri, l'incatenano con questi lacci d'onore. Concedasi pur anche l'uso di questa menzogna, per accreditare necessaria la ritiratezza a femina che, con sfrenata alteriggia rifiutando e freno e giogo, si conduce col terrore del vituperio alla dovuta sogezzione.
Nel rimanente, uomo nobile, e corraggioso, il quale sa disporre d'una donna a suo grado, che s'innamora, ma non s'appassiona a una bellezza fugace, tralasci questi vani rispetti, da' quali s'obliga al depositare la riputazione in donna fragile, ch'ad ogni scossa più facilmente di vetro s'infrange. Dunque il tesoro più pregiato, che vanti un uomo, dovrà collocarsi in un vaso ch'ammorba col fetore, inorridisce se adentro si rimira, riesce abominevole se si considera, dirollo apertamente, in una potta di femina? In una parte, ch'appetisce solo disonestadi, dovremo noi stabilire i fondamenti dell'onore, onde si corrompano le glorie di famiglia insigne, o di personaggio per il suo valore illustre? Ogni qual volta rifletto sopra la verità di questo, non posso non condannare la sciocchezza di chi ha publicato tal ordine, e non ridermi della simplicità di chi con rigorosa puntualità l'eseguisce. E dove s'insegnò già mai che i beni dell'animo abbiano dipendenza da parti corporee, con le quali in ragione d'essere, hanno più tosto contrarietà? La fortezza medesma, come virtù, non ha relazione con la robustezza delle membra, ancorché rassembri esserne necessaria la congiunzione. Dunque il solo onore si collegarà col corpo, e con un corpo anche inferiore, quale quello della donna, di maniera che rimanga imprigionata nel fango, si sepelisca nel lezzo una gemma tanto preziosa?
Li Becchi, dalla proprietà de' quali è trasportato questo titolo a' maritati li quali lasciano libero il godimento delle loro mogli, come che quelli animali ancora non vietano il commercio d'altri con le loro pecore, ebbero questo precetto da una natura mansueta, esercitata già nelle condizioni d'agnello. Incapaci di sdegno, negano di riconoscerne motivo il rimirare ch'altri s'usurpi ciò ch'è commune, e anche usurpato non si perde. Si giudicarà dunque disonore l'imitare una mansuetudine celebrata nelle sacre carte, e il rassomigliarsi ad animale appruovato universalmente simbolo di perfezzione? E per qual cagione lo privilegiò la natura, concedendo al suo solo sangue virtù di romper il diamante, se non perché il più buono degli animali volle rimeritare con singolare parzialità, facendolo superiore alla più preziosa delle sue fatture?
Che se altri accenna diversità nel paragone, per i legami del matrimonio, che sono tra l'uomo e la donna, non così tra bruti, ecco si riducono i punti del disonore al mancamento di fede, e al pregiudicio della scambievole obligazione. Nel qual sentimento sarà disonore anche per parte dell'adultero, mentre con l'inosservanza del debito maritale, con altra donna si congiunge. Sarebbe universale questa specie di vitupero nel mondo, e principalmente appresso li Principi, stando che non più si ritruova chi osservi la fede, né cogli effetti mantenga la realtà delle sue prommesse.
Con questa considerazione, nell'adulterio fece Iddio eguale la colpa sì dell'uomo come della donna, non essendo dissimile il fallo, mentre d'egual debito è uniforme la trasgressione. Gli uomini forse in questo particolare hanno imitati i Grandi, li quali negano di soggiaccer alla legge, ricusando essi non altrimente d'assoggettirsi a questa legge di disonore come dominanti alle donne, per le quali solamente fu publicato tal ordine. I saggi però, come condannano questo sentimento in materia de' regnanti, così ripruovano questa opinione, nel particolare de' mariti. Ne segue qualmente non obligati questi, come appare, dimostrano vana la legge, stando che leggi parziali in interessi communi non obligano. Così diffiniscono i giuridici, da' quali pure viene assolta una donna, ancorché maritata, che per amore faccia di se medesma parte ad altri. Conseguenza evidente, che rimuove queste rigorose imposizioni di vituperio da' mariti li quali ciò permettono, stando che non può assolversi alcuno, con pregiudicio della parte interessata. V. Signoria Illustrissima dunque non sia così severa in condannare quel suo amico, molto giudicioso nel non voler prendersi briga di tener sempre le chiavi nella serratura della moglie, onde non n'esca la riputazione. Non vuole né meno rompersi il capo in legare il libero arbitrio d'una donna, il quale non può essere violentato, né pure da Dio. Io per mia fé, eleggerei di conversare mai sempre con Cavalieri di tal umore, e professarci loro singolar servitù. Chi ha giudicio così sente, e chi vuol vivere senza disturbi, tanto conferma con l'esperienza, imitando i Grandi, che sono esemplari d'una vita quieta, e felice. Chi non sa aggiustare il cervello a questo parere tralasci di maritarsi, e non s'imbarazzi in questa necessità di ristringere tutto se medesmo tra le coscie d'una donna, dove sono solamente immondezze, e fetore; né si renda schiavo d'un capriccio di volgo sempre cieco, il quale, mentre serve di guida, incamina a' precipizii. Se V.S. Illustrissima non s'appaga di queste mie ragioni, scusi la debolezza del mio ingegno, e la miseria di questa verità, che non può farsi palese, posciaché tutti sono acciecati per non vederla. Scusi la temerità, con cui ho osato contradirle, e riconoscendo in questo ardire un effetto di confidenza, s'assicuri qualmente, come conservo memoria della di lei gentilezza per confidare in essa, così l'ho a cuore per mantenere le mie obligazioni, in conformità delle quali, desideroso di servirla attenderò li suoi commandi; e quivi per fine, etc.
"Ha molti seguaci la dottrina di costui - disse il Conte -, pratticata principalmente nelle Cittadi che sono più apprezzate". "Buon pro faccia - soggiunse il Cavaliere - a chi ha buon capo per sostenere il peso delle corna senza risentirsi". Tralasciarono questa materia, per essere troppo dura, e tenace.
Quindi presero nuovo campo, per migliore trattenimento in altra lettera di somigliante tenore:
[XXII]
Molto Illustre Signor mio.
A' Napolitani porgo poco credito. Sia detto in pace di V.S., la quale ha imbastardita la patria, per farsi galantuomo. Narrò l'altr'ieri, un Napolitano, accidente occorso in coteste parti, al quale ho negato il tributo della mia fede, fin che, auttenticatomi da lei, m'assicuri essere verità che lo merita. Disse che nella Puglia una tarantola morsicò un cane, il quale arrabbiato, contracambiò il colpo. Si fece trattato d'accordo tra questi animali, fermato patto di rader il cane, per sanar l'altra col suo pelo, obligando questa al truovar suono che servisse di rimedio al ferito. Un barbiere fece la carità al Cane, e spingendo tutto il suo pelo sopra la tarantola morsicata, le formò sepolcro, in vece di riacquistarle la salute. Tali si dissero li chirurghi, e medici de' nostri tempi, i quali uccidono in vece di risanare. Venne un orbo con la sua lira, il quale stroppiando la musica, tormentava, in vece di consolare il povero paziente. In tal guisa proseguì senza interrompere li suoi salti, come richiedeva la violenza del male, spingendosi nelle publiche piazze, e ne' luoghi di maggior concorso, con riso di tutti che lo vedeano raso. Fu conchiuso quello essere stato scherzo d'alcun Principe. I più saggi contradicevano, affermando qualmente i Grandi non sanno che scorticare, non avendo tanta discrezione, onde siano contenti del pelare. Mentre s'attendeva communemente questo spettacolo, occorse che raggiò un Asino, al cui canto subito si ricuperò il povero Cane. Stupirono tutti, e conchiusero avere maggior virtù un Asino, che un Musico. Desidero da V.S. la certezza di questo successo, con pensiero di formare un'Apologia in difesa di quel povero orbo, che non arrecò giovamento con la sua lira, come che anche gli orbi supremi mai non possono con la loro armonia fermare il Firmamento, il quale di continuo va saltellando, e ballando con riso delle Stelle, che soghignano tutto giorno per questo suo mancamento. Per discorrere con maggior fondamento, la supplico d'avvisarmi se quell'armonia di là su è di violone, o pure di cetra. Desidero similmente d'intendere in qual modo sia ascesa la tarantola al mordere quel povero Cielo, necessitato a ballare, mentre pure, secondo il suo nome di Firmamento dovrebbe esser immobile. Professarò a Vostra Signoria singolar obligazione per questi avvisi, i quali mi riusciranno maggiormente grati, quando s'accoppino con alcun suo commando, come la prego; e per fine, etc.
"Può far armonia con l'Asino chi ha scritto - disse il Marchese -, concordando molto bene la sua ignoranza con la stolidità di quell'animale".
"Parmi molto giudicioso - rispose il Conte - nel tasteggiare contro gli Prencipi. Medici e Musici, ch'in triplicato numero per appunto, formano la perfezzione d'ogni più maligna qualità".
"Altra consonanza, che quella d'un tiorbone - soggiunse il Barone - si richiederebbe per far risuonare il merito di questo ternario copioso d'ignominie".
"A' Musici - conchiuse il Cavaliere - so qualmente converrebbe una cetra di quelle che con una corda sola fanno rimbombo nel collo. Questa farebbe ripeter un buon eco nella concavità della loro voce. Degli altri non favello, con riguardo più del loro grado, che de' loro demeriti". Fu proposto motivo di nuovo ragionamento con altra lettera, la quale così diceva:
[XXIII]
Carissima Signora.
La confidenza con cui, o amica, m'avete ragguagliata de' vostri amori verso quel tal Cavaliere che m'accennate, mi porge motivo di vicendevole cambio, per confidare in voi, onde siami libero il riprendere questi vostri affetti. Oh Dio, quali tratti di compassione hanno accompagnata la certezza di questa vostra sciagura! Gli sforzi dell'amicizia mi rapivano, quasi all'augurarvi ogni altra condizione, benché miserabile, per sottrarvi a quella d'amante. Donna invaghita d'un uomo è volontaria prigioniera in un Inferno, dove la tirannide de' tormenti lacera con scempio tanto più spietato, quanto più molle, e dilicato è un cuore di femina. Li vostri vezzi non giovano per piegare un'alterezza indurata da indiscreto orgoglio. Le nostre lusinghe sono disprezzate da cuori impietriti, impassibili per le impressioni d'amorosa passione. Con un'anima in somma di ferro, corrispondono crudelmente ritrosi a' nostri amori. E avete admessi gl'inganni d'una vaga apparenza, d'un assiduo corteggio, d'un affettuoso riscontro, ch'egli finge? Semplice credito con cui pieghiamo l'intelletto, come pure da una tenerezza inserta in noi sono fatti pieghevoli i nostri voleri. Infelice colei ch'ad un umile saluto assoggettisce l'animo, ad una bocca, la quale sorrida, apre il cuore, ad uno sguardo, che rappresenta simulata adorazione, permette auttorità d'obligare alle grazie. Misere noi, nelle quali s'amano le sole delizie ch'in noi depositò la natura, accioché non fossimo più indiscretamente vilipese da questi ingrati. Ci vagheggiano, ci servono, c'idolatrano, ma nel momento in cui terminano diletti fugaci finiscono le pompe d'affetto, e hanno meta le speranze di gioire, allor quando principiano i godimenti. Dovrà dunque soggiacer una donna ad amorosi stenti, sviscerarsi per incontrare il genio d'un uomo, concedergli l'impero d'una beltà celeste, permettergli pur anche il dominio di se medesma, se nel punto di stringer il nodo delle contentezze viene disciolto, e precipitano i piaceri, quando dovrebbero giudicarsi assodati dagli abbracciamenti?
Se come amante s'accoglie l'uomo, s'abbraccia un tiranno; se si riceve come marito, si fa indivisibile un carnefice. Gli errori, co' quali non si ricusa dar adito alla sodisfazzione de' loro appetiti, hanno una tromba, che suonando la ritirata alla nostra riputazione, serve solo al publicare le nostre ignominie. S'ascrivono a gloria, questi empi, l'aver trionfato di noi con le loro finzioni. Con publici vanti si pavoneggiano d'aver piantati ne' nostri campi li loro stendardi, rapite a noi le insegne d'onore. Non potendo andar pomposi con questi pregi, s'acclamano felici alle occasioni di mortificare la Maestà del nostro merito, caratterizato con note particolari di Divinità, nominata da essi superba alterezza. Stimano di registrare un fatto degno delle memorie della eternità, allor quando col mancare della prommessa fede, ci tradiscono o, spogliati totalmente d'umanità, ci maltrattano più de' bruti. Appellano l'inconstanza virtù, nominano con titolo di prudenza la mutazione degli affetti, predicano risoluzione di gran giudicio l'esercitare contra di noi ogni scherno, e dispreggio. Si vanta, come uomo di molto senno, chi con rigoroso commando sa tiranneggiarci, e predicasi di grand'onore quando per unico fallo, e talor anche solo imaginato, risolve d'ucciderci.
E saravvi dama così sciocca, la quale consegni se medesma all'indiscretezza dell'uomo che, nella perversità di tali dogmi, dà pur troppo a vedere quanto siano corrotti li suoi sentimenti? E voi, o amica, struggerete il vostro cuore, per farne sacrificio ad un uomo il quale simularà di riamarvi fin che giunga al godervi? Disingannatevi, o cara, e riflettendo sopra que' titoli, co' quali sogliono questi empi maltrattare la dignità del nostro sesso, considerate che sono un riassunto d'attributi, li quali descrivano puntualmente li loro costumi. Pensate però se vi convenga l'accarezzare una Tigre, il rimirare un Basilisco, e l'amare un'Arpia. Molto più spietate le loro frodi pregiudicano alla nostra riputazione, e alla vita, là dove le finzioni di taluna di noi non danneggiano finalmente che in leggieri patimenti, de' quali pur troppo facilmente si sgravano. Deponete quel cuore amoroso, avvertendo con la regola di queste considerazioni, qualmente a noi fa di mestieri esser di pietra, per non arrenderci a' morsi troppo dolorosi di queste fiere. Prendete scampo da' lacci col volo della libertà, avendo riguardo alla condizione di queste reti, nelle quali fatte preda, abbiamo il consorzio di tutte le sciagure. Bastino queste persuasioni, o amica, per suscitare que' pensieri da' quali vi si rappresentaranno i costumi degli uomini, pronti al corteggio, osequiosi nel riverirci, affettuosi nel vezzeggiarci, ma però altretanto empi nel tradirci. Stimarci singolar fortuna, se con questa lettera secondando io la vostra mente di somiglianti concetti, pullulasse in voi risoluzione di non amare, profittevole per isfuggire que' tormenti, che succederanno alla continuazione di questi amori. Concedavi il Cielo tale felicità, e a me grazia di poter cooperare alle vostre contentezze; che con ciò facendo fine vi bacio di cuore le mani.
"Volesse il Cielo - disse il Conte - che si compissero i desideri di costei, onde non si ritruovasse donna amante, ch'in tal modo mancarebbe alla umanità una occasione de' maggiori precipizii, li quali danneggino le nostre glorie".
"Non applaudo - rispose il Cavaliere - a tale vostra volontà, stando che si privarebbe l'uomo d'un sommo contento, che si gode nel far languire una Dama la quale ami".
Il Marchese, come innamorato, non aggradiva somiglianti discorsi, là onde gl'interruppe coll'aprire un'altra lettera, in cui così era scritto:
[XXIV]
Molto Illustre Signore.
So qualmente il concorso di molti buoni ingegni fonda costà il trono delle belle lettere. Quindi ho stimato di non potere collocar altrove meglio la speranza d'essere compiacciuto nel desiderio ch'io tengo d'avere la descrizzione d'un'Arpia. Bramo una composizione vaga, accioché rimanga ben servito chi me ne fa particolare instanza. V. Signoria per la familiarità, che tiene con molti virtuosi, avrà opportuno il favorirmi, come la prego con ogni affetto, e le bacio le mani.
"Chi riceverà quest'ordine - disse il Cavaliere - potrà facilmente eseguirlo, essendo in Città nella quale sono molti vivi esemplari d'Arpie, che però non sarà malagevole il formarne aggiustata descrizzione".
"Alludete per certo - soggiunse il Marchese - alla moltitudine de' Grandi, ch'in quella abitano, là onde nelle tirannidi, nella crudeltà abbondano quelli da' quali si rendono familiari li costumi, e le sembianze d'Arpia".
"Ne' trattamenti di fierezza - ripigliò il Conte - convengono que' Signori con natura così spietata, qualunque ella sia, o finta, o vera. Èvvi ben sì differenza nella condizione che s'attribuisce all'Arpia di palesare segni di pentimento, ogni qual volta nel suo viso ella raffigura il sembiante umano".
"E quando mai - disse il Barone - confessano li Principi d'essere uomini, ingannati dalla loro superbia, la quale gli persuaderà non conoscerei somiglianti a gl'inferiori, ch'essi calpestano, e mal trattano?". "Questa è ben sì la ragione - replicò il Cavaliere - per cui operano, quasi bruti, sdegnandosi d'apparire con costumi umani. Non però è mal applicata la similitudine d'Arpia, come che non possono mentire la faccia. Mancano nella condizione di pentirsi, posciaché forano deformi nel corpo, come nell'animo, se ad imitazione di quella dovessero sgraffiarsi il viso alla presenza di chiunque rinfaccia loro un atto di crudeltà, o d'ingiustizia".
"Li Grandi - soggiunse il Barone - hanno le mani talmente adunche, e arrancate, che buone solo al rapire, o al lacerare altri, non possono rivolgersi al punire loro medesmi".
"Intendevo - ripigliò il Marchese - d'accennare altro esemplare della descrizzione, che chiede costui, cioè a dire la donna; ma le opposizioni, dalle quali si contrasta a' Grandi la perfetta somiglianza con l'Arpia, militano anche contra la femina. Oltre che questa non appetisce altro sangue che l'oro, né si mostra spietata che per isvenare le borse".
Tra questi discorsi preparò il Conte nuova lettera, con cui cimentò la curiosità de' compagni, così leggendo:
[XXV]
Illustrissimo Signore.
Fui a' giorni passati in Venezia, dove la curiosità di molte delizie mi trattenne. Non riferirò li particolari di Città esaltata con publici vanti, e acclamata con titoli singolari in ogni parte. La copia de' godimenti allaccia ogni cuore, sì che fa di mestieri slegare le borse, per lasciare sborro alla strettezza di questi lacci. Io ero nuovo nella cognizione di questi diletti, ma invecchiai ben tantosto, aderente all'esperienza di chi in pochi giorni abilita ad una fondata prattica. E questo pure è punto di gran felicità, mentre senza longhi stenti si principiano, e compiscono gli amori nello stesso tempo, non amareggiati da' patimenti della servitù. La frequenza delle cortigiane concede il trattare le donne, secondo il loro merito, quasi bestie, eleggendosi tra molte quella che più piace. Non è contentezza di poca stima il poter ritruovare d'improviso, a sùbita crescente dell'appetito, un argine di suo gusto. Il prezzo ha le sue mete, condizione che facilita maggiormente il portare avanti la chiave del negozio. Sonvi merci d'ogni valsente, e ciascuno a suo piacere può aggiustare la spesa, allora solamente maggiore, quando si ricercano drappi li quali non abbiano ne dritto, né rovescio, per potergli usare indifferentemente in ogni parte. La grazia, i vezzi, i trattenimenti, che si pratticano da quelle, non hanno imitazione in altro luogo. Possedono la vera arte per fabricare le dolcezze amorose, avendo tutte le regole de' moti, sì retti, come obliqui, che possono far credere i loro amanti in un Cielo, dove pure dal moto si constituisce l'armonia dilettevole di quelle sfere. Non lasciano oziosa parte alcuna del proprio corpo, affaticando egualmente tutte le membra principali per moltiplicar piaceri. Questi mai non s'incontrano con un pelo di barba, esercitandosi con molto studio la cura di levare ogni ruvidezza, da cui possa offendersi la delicatezza d'un tanto gusto. È ammirabile la loro sollecitudine in purgare le strade, in guisa che da frequente concorso non vengono corrose, né allordate. In somma, chi ama diletti pensi all'avvantaggiare li desideri, ove può traportargli prurito lascivo, non prendendosi briga delle sodisfazzioni, le quali superano quanto può appetirsi.
Devono ben sì avvertirsi per altra parte le frodi, i tradimenti, i morbi, ch'in maggiore abbondanza fecondano di malanni chi s'imbarazza con esse. A paragone delle loro finzioni, è sincero l'inganno, e sana la peste, in riguardo alle ghiandusse, delle quali formano regali a chi le gode. Hanno per costume il dipingersi. Tanto basti l'accennare, onde si conosca quanto siano finte, mentre si tramutano volontariamente in pitture. S'avverta pur anche qualmente, come sepolcri piene d'insegne di morte, s'imbiancano, e s'abbelliscono al di fuori per apparire quasi Mausolei; in guisa che l'esterno sembiante tradisca nel proibire il terrore di ciò ch'a dentro inorridisce.
Certo più d'ogn'altro particolare è il privilegio che vantano d'esquisite invenzioni, per moltiplicare gli acquisti. L'ingorda loro avarizia non ha voracità che la pareggi, e spolpano con tale leggiadria, che gli sciocchi, i quali rimangono con l'osso solo, danno loro di buona volontà anche la midolla. Hanno la vera pietra di paragone, per riconoscere a primo tocco i corrivi, e i balordi; né perdono punto d'occasione per porre in gabbia merlotti, li quali sono fatti trastullo di qualche altro, il quale sguazza a lor costo. Sviscerano le casse, depredano le mura, nascondono gli ori, sepeliscono gli ornamenti, per introdurre l'anima d'una finta povertà, che commuova spiriti di compassione. Questo usano o le più belle o le più bizarre, le quali conoscendosi auttorevoli per legare un uomo, stimano di poter fare buona presa, quando già l'avranno nelle reti. Altre, con opposto stile spopolano il ghetto degli Ebrei, per vestirsi, e addobbare le case con pompe di semplice imprestito, il quale rende usura di miserie maggiori. In tal modo accreditano la scarsezza de' talenti, che sogliono dar pregio ad una donna, sperando d'esiggere con ciò maggior prezzo, avvantaggiate di riputazione. Non mancano d'usare la liberalità per traffico di guadagno, gettando un amo d'oro a fine di far preda maggiore, ancorché taluna rimanga defraudata, in conformità di quel villano che lasciò cadere nell'acqua la zappa, per riaverla fatta più preziosa. Concedasi però tributo di lode a chi lo merita, non potendo negarsi un eccesso di maniere graziose, d'un trattar gentile, d'una nobile conversazione, in chi mantiene principal posto nell'arte. Hanno condizioni desiderabili in dama di maggior pregio, che possa esser amata da' più Grandi. Il loro sussiego è maestoso, ma non superbo, o interessato; la gentilezza rapisce, e obliga al donare, ancorché elleno talvolta non abbiano intenzione di ricevere. Amore finalmente deve dirsi nato in Venezia, fatto assai forte per la moltitudine di bellissime Veneri, che lo nodriscono. Io per mia parte non so conoscere dove meglio possa un uomo fondare il suo scettro, per prendere possesso di soavi contentezze. Può estendersi il dominio delle amorose gioie, posciaché ampio è colà il vassallaggio d'amore; là dove in molte, se non in una, successivamente si gusta il cumulo delle qualitadi, che possono arreccare a' nostri appetiti occasione di trionfo. Scusi V.S. la veemenza dell'affetto, da cui forse troppo longamente ho permesso che sia traportata la penna. Potrà servirle questo ragguaglio, per certificarla d'ogni gusto, quando risolvesse inviarsi a quel delizioso Paradiso, dove li dardi d'amore escavano nido alle dolcezze, non aprono seno a' tormenti. La mano piena d'oro è rimedio ad ogni piaga che possano formar nel cuore quelle Celesti bellezze. Se con altri avvertimenti potrò indrizzarla a' piaceri, come avido d'ogni sua felicità non mancarò dal mio debito, conforme il quale attenderò opportunità di servirla; e quivi per fine affettuosamente le baccio le mani.
"Non ha pratticato chi scrive - disse il Cavaliere - le delizie di Roma, che altrimente ritrattarebbe questi encomi, co' quali esalta di soverchio li godimenti di Venezia".
"La simplicità di costui - soggiunse il Marchese - non deve admettere nel ruolo de' gusti gl'indegni piaceri che s'usano colà". "A fè - ripigliò il Conte - ch'in ambe le Cittadi si gioca su la stessa carta, ancorché sia più onorevole in Roma il gioco, per la qualità de' personaggi di stima ch'ivi l'esercitano".
"Questa è materia troppo trita - disse il Barone -, e ha relazione col commune proverbio di maggiormente ammorbare con la puzza, quanto più si tratta col discorso". Per offerire però altra novità, principiò la lettura di nuova lettera, che così diceva:
[XXVI]
Illustrissimo Signore.
Una Lumaca venuta l'altro ieri per corriero del Re di Transilvania, ha rappresentata occasione di varii ragionamenti. Ha portata seco una gran valige piena d'ombre, e di chimere, regalo mandato communemente a chi, avendo il capo vuoto di cervello, pone in esso mai sempre castelli imaginarii di grandezze chimerizate. Aveva una scatola di pensieri fumanti, che faceano piangere chi sopra loro fermavasi. E questi fu detto essere parti della mente d'alcun Grande, avvezzo mai sempre al formar machine, dalle quali s'arroccano danni, e sciagure a chi vive loro vicino. Teneva in un cinto legate alcune dramme, ch'erano quello per appunto, col mancamento delle quali non facendo aggiustato il peso, gli orefici, e gli speziali compiscono le loro ladrerie. Disse il corriere esservi una gran cassa d'oncie, e di lire, a proposito degli altri mercanti, ma questa essere rimasta a dietro per lo concorso grande di quelli ch'aspiravano ad usurparne gran parte. Non altrimente affermò essere succeduto d'una soma d'ingiustizie, di rapine, di crudeltadi, solite ad usarsi da' Principi; merci delle quali aveva fatto spaccio nel viaggio, assalito in ogni luogo da' regnanti, o da' loro ministri. Un fascio di cucumeri inventati, riserbavasi per le Cittadi principali d'Italia, ove hanno molto credito alcuni ignorantacci aggraditi da' maggiori, in modo che gli admettono nelle mense, facendosene pasto delicato, il quale serve d'insalata. In questa parte pure sperava guadagno vantaggioso sopra alcune pillole fatte di vento, come che molti sono quelli li quali con l'ambizione procacciano nutrimento, e medicina, gonfii mai sempre non d'altro che d'aura di superbia. Aveva buon traffico in alcuni rostri d'Aquila salati, molto aggradevoli a chi esercita questi uncini, che rapiscono li Ganimedi. Non era di minor vantaggio un otre di denti di Lupo in aceto, buoni contra la corruzzione de' costumi del nostro secolo, potendo giovare all'ammollire la crudeltà di quelli, che con voracità spietata lacerano il tutto. Si dolse di non aver trattenute anche per gli nostri paesi alcune corna invisibili, scusandosi in questo con la necessità, che l'aveva astretto a lasciarle tutte in Germania. Non ancora aveva disciolto un groppo di voci collegate strettamente con alcune funicelle, le quali erano le viscere d'alcuni, che angustiati, e oppressi, permettono d'essere sviscerati, più tosto ch'esalare in esclamazioni di querele li loro tormenti, essendo grandi quelli che gli molestano, onde bisogna morire tacendo. Aveva alcune braccia di tela, fatta di filetti di lingue di Papagalli, e questa doveva servire al far colari ad alcuni, che con pompa di ciancie, senz'altro merito, compariscono fortunati, massime nelle corti, ove ciurmatori, comedianti, musici, e altri di somigliante canaglia, che dispensa solo voci, hanno felicissimi incontri. Portava similmente un drappo senza dritto e roverscio, intessuto de' peli delle narici di Buffalo. Dovevano farsene abiti di grande stima gli adulatori, per volgersi in ogni parte, e sempre servire al compiacimento de' Principi. Sopra tutto sperava di dover dispensare numerosa quantità di palpebre di Basilisco, posciaché tutte le donne avrebbero eletto di farne manto a gli occhi propri. Non altrimente alcune coste di grilli avrebbero incontrata la sodisfazzione di molti, i quali hanno ripieno il cervello di questi animali saltellanti, facendo del proprio capo un prato di Primavera. Quattro denti di pulice erano riserbati per un maligno abitante costà, il quale si diletta di mordere sotto coperta. Volevo che rimanessero in questa Città, ove pure non mancavano persone di sì buon trattenimento. Scusò la negativa coll'essere quel tramesso inviato particolarmente, affermando ch'in tutti i luoghi avrebbero avuto spaccio grande, preservati anzi difficilmente dalla rapacità de' Grandi, li quali pure hanno per costume il sugger celatamente l'altrui sangue. Si dolse ancora il corriere di non aver fatta molta provisione di midolla d'anguille, per alcuni che hanno capriccio di poter far uscire acqua da' sassi, e trarre sostanza dal niente. Eccederei di soverchio li termini di brevità necessaria in una lettera, se con puntuale ragguaglio volessi avvisare Vostra Signoria di quanto ha portato seco questa Lumaca. All'arrivo di lei medesma costà, il quale sarà presto, caminando alle poste sue ordinarie. Vostra Signoria rimarrà meglio informata delle maraviglie ch'ella va dispensando. In alcune scatolette di frodi finissime, di furberie soprafine, di tradimenti ammantati, di finzioni colorite, d'ipocrisia scelerata, di costumi pessimi, ha groppi di gran valsente, de' quali farà mostra in cotesta Città, ove simili galanterie sono in molto pregio. Avverta di non incapricciarsi di certi cancari, e malanni, intessuti in guisa che con grande attrattiva si fanno desiderabili. Questi sono le grandezze delle corti, e le bellezze delle femine, nelle quali mentre ci affidiamo alle apparenze, col dispendio della vita, e d'ogni nostro avere acquistiamo sciagure, e talor anche la morte. Non s'invaghisca né meno d'alcune picciole stanze, fatte d'aria a requisizione di chi con orgoglioso sussiego vanta posto sublime, stando che l'abitazione, e l'abitante divengono improvisamente ad un tratto scherzi del vento, e ne' loro precipizii termina il gioco. La sua prudenza non ha bisogno d'avvertimenti, e io ho debito di terminare una volta questa diceria. Finisco però col ricordarmele servitore, e le baccio le mani.
"Parmi - disse il Conte - sproposito maggiore d'ogni altro, l'assegnare per corriero una Lumaca in tempo nel quale anche li più saggi fanno correre gli spropositi a volo di colomba".
"Trattandosi di manifestare veritadi, benché palliate, non poteva - soggiunse il Marchese - avvalersi d'altro messaggiero più veloce, perché la verità non può che caminare con passi lenti nel mondo, mentre viene perseguitata da' più Grandi".
"Per questa causa - ripigliò il Barone - è stato di mestieri a chi ha scritta questa lettera il fingersi pazzo, come che ad altri non si concede lo scuoprir il vero, e chi ha giudicio tiene obligo di nasconderlo a fine di non precipitare nello sdegno de' Principi".
"In conformità di ciò - disse il Cavaliere - conviene che tutti gli uomini da bene si trattino come Lumache, andando sempre con buono scudo, e avendo un campo di ritirata, per celarsi ad ogni intoppo, ch'affrontano sovente, se bene hanno un passo tardo per la maturità della prudenza".
"Se questa somiglianza - ridisse il Conte - deve confrontarsi, bisognare che tutti gli uomini da bene abbiano le corna". "Non sarebbe difficile - replicò l'altro - l'aggiustare questa proporzione. Ma non vi si rammenta il detto de' Filosofi, che le similitudini non devono correre quatuor pedibus? Il che tanto più sarà vero di questa mia, fondata sopra d'una Lumaca, la quale non corre, e non ha un piede, non che quattro".
"Il commento d'una lettera di spropositi - disse il Marchese - ben doveva terminarsi con uno sproposito; avendo però sodisfatto a questo debito il Cavaliere, passiamo ad altra materia".
Aperse però egli stesso, in altro foglio, nuovo campo a' loro discorsi. Così lesse:
[XXVII]
Cuor mio.
Mi confonde il considerare la sinistra fama ch'acquistano al nostro sesso gl'inganni di molte donne, le quali co' loro tradimenti discreditano la sincerità delle altre. Dubito pure mai sempre, o mia vita, ch'in paraggio d'altre femine, mi giudichiate simulata nell'amarvi, onde non si contracambi da voi l'ardore de' miei affetti. Oh Dio, guardimi il Cielo da tanta sciagura! Lasciarò d'essere, non che d'esser donna, quando ciò pregiudichi al desiderio che tengo d'essere riamata. Se dal grado di donna non può scompagnarsi il concepir frodi, e tradimenti, privarommi di vita per abbandonare quelle condizioni, dalle quali fatta infelice amante, sarei miserabile più de' dannati. Avvertite, o mio bene, di non permettere luogo all'ingratitudine, o alla crudeltà, sotto il pretesto di simile credito, altrimente ingiusto, mentre nella purità d'una mente fedele, possono conoscersi aboliti mancamenti communi. Il vostro volto ben può persuadervi lontani in chi v'adora li tradimenti, troppo sacrileghi, allor che offenderebbero la Divinità di quel bello per cui conviene essere senz'anima a chi presume spirito per disprezzarlo. Quanto meno frequente, tanto più prezioso è l'amore di donna, a proporzione degli oggetti, che crescono di pregio mancando nella quantità. Non può fingere chi ama una bellezza, la quale non può non amarsi. Vi giudico inabile al concepire la veemenza delle mie passioni, le quali per aggirarsi nella contemplazione del vostro viso, vanno torchiando l'anima mia con l'espressione d'ogni più pura sostanza. Assicuratevi qualmente non può esser feminile, cioè a dire inconstante, quell'amore che ha per base un Firmamento stellato, quali sono le vostre Celesti vaghezze. Non può corrompersi, o consumarsi l'affetto che ha per sede il Cielo della vostra faccia, e per sfera il lume della vostra virtù. Risolvete dunque di non disperare le mie contentezze, mentre voi potete sperare ogni sodisfazzione dell'impiego delle vostre grazie in amarmi. A ciò v'obligarei sotto pretesto del debito, con cui v'astringe alla corrispondenza il fervore dell'anima mentre essa si strugge in adorarvi. Ma so che non può obligarsi ogetto Divino, né può legarsi la grandezza del vostro merito, che col debito di pietà, convenevole a' miei tormenti. Di questa vi supplico in rimedio di quelle ferite che, come sono state formate da' raggi della vostra beltà, così devono sanarsi dagli eccessi della vostra gentilezza.
"La lettera di costei - disse il Cavaliere - avrebbe necessità d'una autorevole testimonianza, per confermare vero ciò che scrive. Altrimente è difficile il credere amore in donna".
"Quasi che - soggiunse il Marchese - non debba stimarsi ordinario nella femina il vizio d'una sfrenata passione, come proprio è di lei qual si sia altro mancamento".
"Chi condanna amore - ripigliò il Conte - dà saggio di più sregolati affetti, non concertandosi meglio in altra armonia le vane note, nelle quali va concordando l'animo nostro l'inequietudine de' suoi diversi pensieri, e variati voleri".
"V'intendo o Conte - disse sorridendo il Barone -, e ben m'avveggo qualmente chiamando amore armonia, avete mira alle sfere, l'armonia delle quali in Cielo è la più aggiustata d'ogni altra terrena".
Avvertirono li compagni dove colpiva la facezia del Barone. Quindi dopo l'aver beffato il Conte su questo particolare, che nondimeno era esercizio proprio di ciascun d'essi, fu principiata la lettura di nuova lettera, la quale era del seguente tenore:
[XXVIII]
Molto Illustre Signor mio.
E pur è necessario l'aver un amico, a cui si manifestino le proprie passioni, per disacerbarne il dolore, tanto più grave quanto è più celato. Quindi fa di mestieri l'importunare V.S. con questa lettera, per svaporare gli umori di quella piaga, in cui sono riconcentrate le mie pene, facendone racconto a chi almeno mi favorirà di compatirle. Sono in corte. Tanto basti per darle ad intendere l'Inferno che mi trattiene, li diavoli che mi tormentano. Sono in questo ricinto d'angustie, nel quale trionfano gli affanni più dolorosi, protetti dall'autorità de' Grandi, ch'ivi gli mantengono a spese degl'infelici che lor servono. Oh Dio, quando penso d'essere in un luogo in cui anche l'oro, per altro desiderabile, pendendo da' superbi tetti minaccia morte con la sua caduta, ben m'avveggo qualmente le grandezze maggiori sono segni di miserabili precipizii! Lo splendore, di cui altri vago crede di ritruovar un Sole, è un lampo che atterrisce, dinotando la vicinanza de' fulmini. Tutto ciò in somma, ch'altrove concorre alle pompe d'una estraordinaria felicità, incantato entro questo circolo di figurata Maestà, si trasforma in una essenzial cagione di tutte le sciagure. Misero colui, che si conduce a far numero in un consorzio d'uomini li quali hanno per necessario impiego le sceleratezze, imbevuti d'ogni più maligna qualità per corrompere chi lor vive vicino. Può dirsi ch'entri in una scola di frodi, e tradimenti, li quali s'imparano per vedergli, a parte a parte, più dolorosamente pratticati nelle proprie fortune. Perfida obligazione, che troppo stranamente tiranneggia un animo ragionevole, necessitato ad operare contra l'umanità, s'egli non vuol essere peggio trattato de' bruti. Verità pur troppo deplorabile, che per la frequenza degli esempi non può condannarsi, quasi falsa, mentre sogetti sublimi in virtù, o in merito si veggono famelici, e malmenati nelle corti, là dove le bestie hanno copioso il cibo, e abbondanti i servi. I buffoni per certo, gli adulatori, e altri viziosi peggiori delle belve, sono trattati in guisa che genera invidia la loro prosperità, dovendo altrimente cagionar terrore li loro tormenti. Oh come bene è rassomigliato lo stato della corte al sito d'un monte erto, e scosceso, alla cui sommità non può giungersi che per vie indirette, quali sono per appunto le sceleratezze: unico sentiero per truovare il posto desiderato della grazia de' Grandi. Con tortuosi raggiri di varii sconvolgimenti, appianati dalla simulazione, fa di mestieri secondare l'altrui volere, se deve fondarsi pensiero di lasciar le bassezze che si fuggono da chi con soverchio disprezzo si vede mai sempre calpestato. Offende maggiormente tal volta la necessità d'avanzar posto nell'affezzione d'un privato, il quale essendo il favorito appresso il Principe, con una superba alterezza sta così ritto, che più facile sarebbe il toccar il Cielo con le dita, di quello riesca il poter sollevarsi fin all'esser cortesemente rimirato da un di costoro. E pure senza lambire li piedi di questi, è impossibile lo sfuggire d'essere sotto li piedi anche de' più vili. Pensi il Cortigiano che la sua ascesa può succedere solo in sembianze di fumo, facile al dispergersi, e per altra parte accompagnato da necessaria conseguenza di fuoco, che arde e consuma. Quanti patimenti fa di mestieri tolerare ad un infelice, il quale risolva di tentare il paraggio delle sue fortune a quello d'un ciurmatore, d'un musico, d'un pazzo, e talor anche d'una Simia o d'un cane? È necessario essere una statua tutto giorno in un'anticamera; servire al corteggio, caminando quasi bue sotto giogo che strascina il carro in cui va sussiegata l'alterezza del Grande; l'essere bersaglio delle persecuzioni di chi deprime, o degli scherzi di chi pretende dar motivo di ridere al suo Signore cogli altrui dileggiamenti. La vita in somma di chi serve in corte richiede un'anima senza spiriti ragionevoli, un cuore privo di senso, fingendosi almeno insensato alle punture de' maledici, ai detti mordaci de' buffoni, e al maccello che fanno della riputazione, se non d'altro, gl'invidiosi, e i maligni. Quando non meritasse biasimo l'applicazione a tal esercizio, avrebbe merito di gran lode la constanza nel non risentirsi un uomo, mentre pure per tante parti è afflitto, e quasi lacerato. È nondimeno vero il dire necessaria questa schiavitudine in chi dalla nascita sotto il dominio d'un Principe privato, si destinò trofeo di sorte così crudele; o pure dal primo ingresso in questa rete, scorge prescritta la pena d'impossibile scampo al fallo della sua inavvedutezza. Chi lascia la corte, dà a credere alcuna colpa, il cui timore lo scacci, o diffidenza nel Grande, onde dubiti non rinumerata la sua servitù. Concetti l'uno abborrito da animo nobile, e generoso, pregiudiciale l'altro per il rigore di chi ricusa vedere condannare le sue ingiustizie, anche da sospetti. Questa è la catena da cui inceppati li più saggi fanno contradire la prattica del vivere alla teorica degl'insegnamenti. Così con le fila della speranza rimangono sospesi in tale stato, fin che tra diversi ravvolgimenti quelle variamente ritorte formano una fune, da cui essendo strozzati, rimangono miserabilmente estinti. Tal fine attendo anch'io del mio servire, disperato di sortir esito migliore, mentre molti anni di stenti in questa corte non m'hanno acquistata che l'opportunità d'avvertir altri di que' mali, ch'io stesso non posso fuggire. In somma liberi il Cielo da tale stato chi forse non ha nelle pene che lo seguono il cambio d'un perpetuo Inferno. Compatite, o amico, la mia condizione, e condanate il tedio di queste mie, forse troppo longhe querele, a questa ultima sciagura, ma forse maggior delle altre, propria delle corti: di non aver cioè alcuno a cui possano confidarsi li secreti dell'animo, con cui s'esali il cordoglio, che rode le viscere, quando non si tramandi alla lingua. Ricordatevi della nostra amicizia, ancorché non siate in istato di gustarne li frutti, mentre sono tanto miserabile che sono né meno di me stesso. Mi vi offro però, e per fine vi bacio le mani.
"Questa è musica per noi - disse il Conte - conforme la quale può ciascuno far concerto, su'l libro della sua vita".
"Sarà canto cromatico - soggiunse il Marchese - composto di note lagrimevoli, quale s'usa in occasione d'esequie".
"Stimo - seguì il Barone - che con più proporzionata similitudine non possa esprimersi il nostro stato, che circonscrivendosi con la Musica, la quale fa disperger il fiato per altrui diletto, non altrimente consumando il cortegiano la vita, e lo spirito per compiacere al Grande, a cui egli serve".
"Aggiungete pure - ripigliò il Cavaliere - necessaria l'imitazione de' Musici nell'ascendere di grado in grado, osservandosi che come il fa finto è il carattere più alto della Musica, così le finzioni, e la simulazione sono la più alta nota con cui possa sollevarsi un cortegiano".
"E dove - replicò il Conte - tralasciate gli diesis, ne' quali fa di mestieri falsificare la voce ordinaria, e questi pure nelle corti fanno buon concerto a gli orecchi de' Principi".
"Già che - disse il Barone - siamo in questo discorso, non devono tralasciarsi le ascese di quarta, di quinta, di settima, quando senza merito, e ordine è sollevato taluno all'improviso, non per altri gradi che quelli ha rappresentati la volontà del regnante, avvezza al favorire li meno meritevoli".
"Sono pur anche - soggiunse il Marchese - notabili le discese d'ottava, le quali col rimbombo inorridiscono, per le sciagure de' miseri, ch'ad un tratto precipitando, decadono da posto sublime senza lor colpa".
"Tutto va bene - ripigliò il Cavaliere - già che pause, e sospiri non mancano in questa musica, a chi canta su'l libro che tiene inanti gli occhi de' mali trattamenti de' Grandi, e delle communi miserie, le quali hanno campo aperto nelle corti".
"La peggior condizione di questa dolorosa Musica - disse il Conte - è l'obligo di regolarsi al mastro di capella, il quale è il regnante medesmo, che con mano pesante ha una battuta così disordinata, e indiscreta, che astringe a piangere, non a cantare".
Sospirò il Marchese, forse per avere piaga più nuova, la quale si risentiva, ritoccata da queste punture di dolorosa rimembranza. A fine però di rimuovere questa pena, volle che si cangiasse tenore, là onde egli stesso propose altra lettera, la quale così diceva:
[XXIX]
Illustriss[imo] Sig[nor] mio.
Ero in gran confusione all'intendere che V.S. Illustrissima non aveva ricevute le ultime mie lettere, le quali speravo dover riuscire di sua somma sodisfazzione. Sapevo qualmente il Corriere svaligiato, a cui furono consegnate, non era stato sollevato che dagl'invogli pesanti di gemme, danari, e altre merci di pregio, perché li professori di tali atti di carità hanno mai sempre riguardo al maggior peso, per liberarne dall'aggravio li viandanti. Non sapevo però conoscere d'onde procedesse l'esser andato fallito il ricapito de' miei dispacci, li quali non poteano servire all'avarizia di questi mercatanti.
Ora m'ha tratto fuori di sospetto l'avviso d'un amico, che mi ragguaglia qualmente il medesmo Corriero, spogliato prima da' malandrini, altrove poi era stato necessitato da nuova sorpresa al lasciare vuote le valigi anche di lettere. Si presentò la querela al Magistrato del luogo, dove erasi commesso il secondo delitto, il quale co' termini della solita giustizia, facendo inequisizione del delinquente, disegnava severo castigo per delitto così spropositato, da non iscusarsi né meno con l'attrattiva d'alcun giovamento, quando però non fosse stato preteso il compiacimento d'una perversa intenzione. La sola fama di simile ordine publicato da' giudici, tolse ogni fatica a chi aveva l'incarco di ritruovare il reo, poiché egli stesso comparve volontariamente al loro tribunale. Questi era un vecchio di picciola statura, ch'incurvati gli omeri sotto una somma di malizia, era quasi necessitato a tener il capo basso verso terra, per imitare le bestie nella positura del corpo, come le rassomiglia ne' costumi. Intendo essere di buon cognome, non so se così di buona nascita. Precorse ogni interrogazione in publicare la colpa, come quello che sempre ha stimato gloria l'operar male. Nominò zelo il motivo da cui erasi condotto al trattenere queste lettere, presentendo già molto tempo avanti che con soverchia libertà si scrivevano gl'interessi de' Principi, e altri particolari indegni d'avere libero lo scorrere su l'ale de' fogli. Propose di far apparire questa verità, favellando con tal arte che già quasi trionfava nella mente de' giudici la palliata ipocrisia di costui. Ma essendovi tra quelli chi aveva notizia della di lui vita, assicurò qualmente non doveva credersi intenzione sì retta, in chi aveva mai sempre dati saggi di sinistro volere. La più giusta causa, con cui potesse coonestarsi questa sua temeraria azzione, era il timore di veder publicate lettere contro di sé; come che la fama, se non de' suoi vituperi delle sue pazzie, somministra penne per scrivere, come egli dubita. Trattone questo pretesto, non totalmente spropositato, fu detto non poter attribuirsi ad altro che a malignità atto così indecente. Il giudicio non poteva essere fallace, essendo quello convinto reo in simil genere di colpa da una consuetudine già familiare, e quasi connaturale. Con tutto ciò la benignità de' giudici, compassionando il poco senno della vecchiezza, in chi massime non sapeva che cosa fosse cervello, se non forse alcuno di bue arrostito, l'assolse, licenziandolo come pazzo, e in oltre proveduto d'una qualità, fatta poco meno ch'essenziale, onde è suo proprio il non dar gusto ad alcuno. Sin con la presenza offende, che però non è maraviglia se, per non far mentire le sembianze, egli conciti contro di sé l'odio di tutti co' trattamenti. La sentenza fu confermata, sì perché queste due veritadi erano irretrattabili, sì pure perché giovò l'amicizia di molti de' giudici, li quali erano suoi parziali. Veda dunque V. Sig[noria] Illustrissima onde proceda il mancamento del non avere ricevute le lettere, ch'essa attendeva con somma curiosità. Fa di mestieri aver pazienza, quando porta la fortuna d'aver briga con maligni, o con mentecati. Sarà mia nuova fatica il ricomporre quelle scritture, nelle quali colpirò lo scopo di prima nella curiosità della materia, se non nella dettatura. L'intraprenderò di buona voglia per servire a V.S. Illustrissima, pronto ad ogni altro impiego, in cui con mio maggiore incommodo, io possa dimostrare maggiormente la mia servitù, la quale offro a V.S. di tutto cuore; e per fine, etc.
"Bizarro capriccio - disse il Cavaliere - di questo vecchio, degno d'esser conservato appeso con una gran fune, quasi memoriale d'un atto di tanto zelo".
"Anzi egli stesso - aggiunse il Conte - dovrebbe pender a vuoto sotto un arco trionfale, per formare un festone in pompa di gloria acquistatasi con impresa memorabile".
"Deve per il meno argomentarsi - ridisse il Conte - ch'egli non porti alcun in groppa, come suol dirsi, usando egualmente li suoi termini incivili nel dar disgusti a ciascuno, come testifica chi scrive".
"Questo non portar in groppa io non admetto - ripigliò il Marchese - poiché ribambito questo vecchio, come nel cervello così negli atti puerili, ha per unico trattenimento il portar in groppa, tanto più godendo quanto più se gli calca addosso". "Forse ciò deve succedere - disse il Barone - per desiderio di vedersi appianato il dorso, posto quasi in soppressa da chi l'opprime, e in tal modo levare il mancamento della gobba".
"A fè - replicò il Conte - che questa difficilmente si toglie da' vecchi, essendo un naturale contrasegno che il cervello, il quale si parte dal capo, discende alle calcagna; che però nel vigore del suo primo moto, ingrossa di tal maniera gli omeri".
Il Cavaliere, che già invecchiava, negò d'udire maggiori biasimi della vecchiezza, quali forse avrebbe portati il proseguire questo discorso. Quindi l'interruppe con la proposta d'altra lettera, che così diceva:
[XXX]
Carissima figliuola.
Ho tolerata la divisione da voi nel punto in cui partiste da questa Città, accompagnata da quel tal Cavaliere nostro amorevole, col rinforzo d'una felice speme, da cui mi si prommetteva grande avanzo delle vostre fortune. M'assicuravo qualmente il paese in cui sète è buono per il dispaccio delle merci, che da voi possono dispensarsi. La quantità de' negozianti della vostra specie, serve non già ad avvilire il traffico, ma ad insegnare con la moltitudine degli essempi le regole più vere, dalle quali non si permette che vada fallito. Non posso però non istupirmi all'intendere mal incaminati li negozi della vostra bottega, avendovi riconosciuta in altre occasioni donna di giudicio, e di maniere tali che non sapevo temere poco fortunato l'esito d'ogni vostro impiego. Stimai pur anche fomento d'ogni buona speranza, l'esser voi di stirpe, d'onde due vostre sorelle, e io vostra madre abbiamo sortito merito di singolar applauso in questa professione, là onde supponevo non degeneranti li vostri progressi. Dubito che nascano questi pregiudicii dall'inosservanza de' precetti dell'arte, li quali devono tanto più accuratamente avvertirsi, quanto che diversamente da ciascun altro si regolano le condizioni di questo traffico. La merce che vendete è sempre la medesma, e quindi fa di mestieri l'usare industria, per supplire al mancamento di quella diversità ch'è l'unica attrattiva degli umani contenti. La misura, di cui v'avvalete, è invariabile anch'essa, là onde non è che difficile il sodisfare a tutti mentre conforme varii capricci la bramano o maggiore, o minore. Sia dunque vostra cura il non essere tanto ristretta, che altri si dolga nel contrattare con voi, né tanto larga, e prodiga, che traffichiate con vostro discapito. Un posto mediocre sarà per voi più fortunato, non convenendovi il mancare in quella rigorosa strettezza con cui avrete affrontato taluno su le prime. Il far buona misura non è precetto per il vostro commercio, in cui, quanto sarete più scarsa, tanto più avvantaggiarete li vostri guadagni. Avvertite di proporre mai sempre due drappi diversi, l'uno de' quali esponendolo publicamente, potrà servire a persone ordinarie, che hanno abilità a poca spesa. L'altro conservando con maggiore riguardo, non proporrete che dopo molte preghiere, le quali assicurandovi un ingordo desio, v'accertino dell'isborso di rigoroso prezzo. A' personaggi grandi, che ne conoscono il valsente, e hanno commodo il darne il riscontro, presentatelo di buona voglia, perché maggiore è l'utile, e minore il pericolo. Ad uomini plebei, o di poco giudicio, li quali non conoscono il pregio di questa merce privilegiata, offerite il drappo che suol tenersi in mostra, inanti la bottega. L'uno però, come l'altro, sia ben guardato e custodito, in guisa che chi traffica con voi non sia in necessità di vedersi avanti tarme, e taruoli, con pregiudicio vostro di troppo rilievo. Per questo fa di mestieri tener la bottega sempre monda, e pulita, non permettendovi né pure un filo di tela di ragno, che potesse macchiare il capello di chi entra in essa. Non lasciate scampare li corrivi, e quelli che ravvisarete esser di buona borsa, poiché con modi lusinghieri vi riuscirà facile lo smungergli a vostro compiaccimento. Trattenete questi con dolci maniere, usando sempre alcun vezzo singolare, per maggiormente adescargli, essendo pesce che merita gittate un amo anche d'oro per farne preda. Bandite all'incontro alcuni dirò scalda scagni, e galani, li quali avendo tutto il loro avere in un vestito attilato, in un volto lassivo, in un vago cimiero, dimostrano le proprie ricchezze, ch'in quelle piume vanno a volo insieme col cervello, e con la borsa, tanto leggiera che può ben portarsi dal vento. Fanno un dispendio di ciancio che, risolvendosi in aria, pascono di nulla chi le riceve. Non è moneta questa per voi, la quale non dovete essere tanto sciocca in stringer il pugno, quasi che abbiate fatta buona preda, quando v'occorre il rinserrarvi adentro il niente. Segue altro pregiudicio che costoro, dando a vedere occupata la bottega, sono d'impedimento a chi potrebbe esservi occasione d'acquisto, distornando parimente chi forse brama di negoziare con essa voi secretamente. Fa però di mestieri tolerare volentieri la disgrazia di simile importunità, allor che questa s'incontra in alcun personaggio, il quale, ancorché non ispenda, accresce stima, e riputazione alla bottega. Molti merlotti corrono alla rete, scorgendovi incappati altri loro maggiori. Affrontando persone tali, vantate vostra gran fortuna, perché l'ambizione congiunta con la lassivia, dà spinta più gagliarda per dispendio maggiore. Nel rimanente con buon viso invitate ciascuno, su la conchiusione del negozio, eleggendo poi que' soli che conoscerete di poter scorticare. Siete obligata all'usare termini di molta cortesia, ma pure devono sempre fraporsi le regole dell'interesse, dal quale sète avvertita di non lasciarla degenerare in sciocchezza. Abbassatevi conforme l'umore di tutti, con tratti vezzosi e gentili, ma non in tal maniera che con una leggiera spinta possano farvi cadere, prendervi sotto, come loro preda. L'amicizia sia, come suol dirsi, usque ad aras. Quest'ara o altare per voi sia il letto, a cui quando si giunge, per ultimare il commercio, imponendo fine alle cortesie, fermatevi su' rigori del traffico. Non permettete ch'esca alcuno di bottega prima dell'avere sborsato il prezzo, poiché il vostro negozio non admette il contrattare in credenza. Segue il pentimento ordinario ne' negozianti, e quindi si forma un'argomentazione che conchiude la volontà renitente al pagare. Accresceravvi maggiore stima il mantenere in bottega chi faccia andare il vostro negozio, per non perdere il sussiego necessario in questa mercanzia con alcune vili forme di contrattare. A ciò servirà meglio alcun giovane vivace, la cui presenza sarà forse un amo per attraere molti. Osservate però accuratamente di non permettere ch'egli traffichi a suo conto, altrimente massime in cotesta Città il negozio andarebbe fallito per voi. Ciascuno gli offerirebbe il suo capitale per negoziare, là onde accumulando grossa somma per sé, lasciarebbe vuoto il vostro fondaco, levando alla vostra bottega ogni commercio. Non mi si suggerisce altro per ora, in che fondare nuovo avvertimento necessario a' vostri buoni progressi. L'esperienza del paese, la cognizione de' trafficanti sono due punti da' quali potete trarre precetti per ben incaminare la vostr'arte, dietro li passi della consuetudine, procurando però mai sempre d'avvantaggiare fuori delle orme ordinarie li piedi de' trattati, per far più longo viaggio in maggiori acquisti. Nella vostra bottega si compra, e si vende merce dilettevole, che però la varietà de' gusti varia anche il prezzo. Il vostro traffico è una forma di pescare. L'amo deve gittarsi con bel modo; e benché talora venga vuoto, non sète in obligo di sommergervi, per correre con violenze a quella preda che non è giunta volontaria. Non siate inavveduta nel tenere troppo longamente la verga in mano, per non essere tirata a fondo da alcun pesce, il quale prenda forza sopra di voi con la possanza d'amore. Fuggite questo scoglio, sola cagione de' naufragii di chi scorre il mare delle lassivie, per truovar il porto del guadagno. Procurate sempre di tenere il timone diritto, ma però in similitudine de' nocchieri, ponetevelo dietro alle spalle, non facendone stima che come di cosa la quale potete facilmente aggirarvi tra le gambe, avendo in questo mentre mira ad altri ogetti, e principalmente al bossolo della borsa, allo splendore dell'oro, alla tramontana dell'interesse, in riguardo di cui può riuscire felice il vostro camino. Se in conformità de' miei desideri, e di questi consigli avanzarete le vostre fortune, risolverò di venire costà, per consolare con la vista delle vostre grandezze gli affanni di questa mia decrepita età. Concedavi il Cielo in questo mentre que' più benigni influssi, che possono distillarvi le grazie d'una sorte favorevole.
"Ottima educazione d'una madre", disse il Marchese.
"Privilegio - soggiunse il Conte - è questo de' nostri secoli, ne' quali le sceleratezze sono inserte ne' figliuoli da' medesmi Padri".
"Era però superfluo - ripigliò il Barone - inviare simili insegnamenti a Roma, dove non mancano maestri di vizii".
"Vi figurate forse colà - parlò il Cavaliere - moltitudine di maestri, sapendo qualmente ciascuno anche de' più Grandi ha per unico trattenimento il tener putti, e dar loro ad apprendere li propri documenti? E quasi universalmente tutti insegnano sceleratezze?".
"Anzi sì - replicò il Barone - poiché la quantità de' Collegi che ivi tengono gli Padri Giesuiti rende frequenti le scole, e copiosi somiglianti maestri".
"Se entriamo sotto la disciplina di questi - conchiuse il Conte - bisognarà discorrere così altamente che sempre ci aggiraremo all'intorno delle sfere".
"Dovete temere al sicuro - disse ridendo il Cavaliere - che venga occupato il vostro posto, o invidiate ad altri eguale ascesa, ma però a torto, stando che le sfere sono a commune, e a publico giovamento".
"Se tanto vi sollevate, o Signori - conchiuse il Marchese -, paventate la disgrazia d'Icaro, poiché dal fuoco, se non dal Sole sarà dileguata la cera con cui sono appese le ale per simil volo, e quindi miserabilmente voi precipitarete".
"Lodato il Cielo - ridisse il Barone - ch'i rimorsi della coscienza vi conducono al pentimento, almeno col timore de' meritati castighi".
Per non sentire ribattuto il colpo, principiò egli stesso subitamente nuova lettera del seguente tenore:
[XXXI]
Molto Illust[re] Sig[nor] mio.
La necessità m'astringe all'attendere di costà ciò che bramo. La confidenza m'obliga all'importunare V.S. per esserne proveduto. Il granfo non mi permette riposo, né mi si concede il ritruovare in questa Città unghia della gran bestia per applicare il rimedio. O che ciascuno la tiene radicata nel piede, senza permettere che si svella, o che per la moltitudine delle Grandi bestie ch'in questa sono, è fatta così familiare che ha perduto ogni virtù, privata della rarità, che fa preziosi gli ogetti. Comunque ciò sia, ogni mia diligenza è riuscita vana, là onde è stato necessario il ricorrere a lei, per essere favorito. So che la gentilezza di V.S. soccorrerammi prontamente, per non avere impotente, e contratto un servitore, il quale brama esser agile per servirla ad ogni occorrenza. Non lasci però di commandarmi anche in questo tempo, poiché ho libera la volontà, se non il corpo, per muovermi a gl'impieghi, a' quali verrò destinato dall'onore de' suoi commandi; de' quali pregandola, etc.
"È possibile - disse il Barone - che chi scrive non abbia nella sua Città alcun Principe, o personaggio di stima, che per carità se non per altro, gli somministri picciolo taglio delle sue unghie?".
"La miseria de' Grandi ne' nostri secoli - rispose il Cavaliere - è tale, che per giovare ad altri negano di donare ciò ancora che come superfluo s'esprime fuori dalla natura".
"M'assicuro ben sì - disse il Conte - ch'in Roma il bisogno di costui non incontrarà tanta strettezza, come che le grandi bestie di quel paese, oltre l'essere abbondanti, hanno necessità di recidersi sovente le unghie, essendo feconde di simili escrementi sotto quel clima".
"Per la moltitudine de' Principi ch'ivi abitano - soggiunse il Marchese -, avrà opportuno il ritruovare, se non il medicamento, il rimedio convenevole a questa infermità: come che sogetti si veggono sovente ad essa li grandi, avendo arrancate le mani, e attratti li nervi in occasione di donar premio alla virtù, e al merito. E pure ad un tratto di poi si veggono risanati, estendendo, e allungando anche di soverchio il braccio, quando vogliono perseguitare, o punire".
"La medicina da cui provengono questi effetti - ripigliò il Barone -, ha singolare simpatia con la loro natura tirannica, e crudele, là onde non sortirebbe l'esito stesso in questo misero cagionevole".
"Il granfo di costui - conchiuse il Barone - ha intirizzato il nostro discorso con queste noiose freddure, rimemorando li mali, e ingiusti trattamenti de' grandi. Cerchiamo però altro sogetto, che dia spirito per muoverci ad altri sentimenti, e non communicare del male di chi scrisse la lettera". In conformità di ciò così principiò a leggersi:
[XXXII]
Carissimo come fratello.
Questo non è più terreno per noi. Li ladri qui in Cremona hanno troppo frequenti rivali, e i germogli della nostra professione pullulano in tanta abbondanza che fa di mestieri star su le difese, per non essere rubbati, più che invigilare per incontrare commodità di rubbare. Se deve osservarsi il precetto già trito di ceder il luogo a' maggiori, ci converrà al sicuro di partire, posciaché siamo di gran longa inferiori in quest'arte a' medesmi Cittadini. Locuste prattiche del paese, non lasciano che divorare a' forestieri in questi prati, dove altre fiate, non so se la Primavera o noi ridevamo per gli nostri acquisti. Non m'assicuro di poter mantenere questo posto, consegnatomi da' compagni, perché soprabondano gli assedianti, ed essendo più di me presti nelle sorprese, danno il sacco a tutti i miei disegni. Ho determinato di partire, temendo che da costoro mi sia rubbato anche il capestro, il quale però volontariamente rinunziarò, a fine di lasciar loro libero quel premio, che sforzano di guadagnarsi con moltiplicati furti. Me ne verrò appresso a voi per tentare, unitamente al solito, incontri di maggior fortuna.
"Sono scusabili que' Cittadini - disse il Conte - nel rubbare, se pur è vero che nelle qualitadi, o passioni naturali, non ci si ascrive demerito alcuno".
"Aggiungete pure - ripigliò il Marchese - che sogetti ad un dominante il quale gli spela, sono in necessità d'esercitarsi in spogliar altri, a fine di risarcire il danno, o almeno per non soccombere sotto gli aggravi!".
"Osservato ho ben sì più fiate - soggiunse il Barone - qualmente nelle Cittadi commandate da questo regnante fiorisce con singolar pregio la professione de' ladri, e l'esercizio delle rapine, là onde ben può gloriarsi quel Re d'avere seguaci nella imitazione tutti li vassalli".
"Hanno vicini gli esempi del loro Signore, o almeno de' suoi ministri - ripigliò il Cavaliere -; e taluno anche gli vede in se medesmo, di modo che dovrebbesi loro singolar biasimo, quando per obligo di sogezzione non se gli conformassero".
Non ben ancora aveva terminati questi accenti il Cavaliere, quando un riso del Conte invitò la curiosità de' compagni. Aveva di già disciolti gli piegati invogli d'un foglio, per spiarvi adentro li racchiusi secreti. "Rido - disse egli stesso - per la novità de' titoli, li quali inventa questo balordo che scrive". Affacciandosi tutti al rimirare quella carta, videro per frontispicio di balordaggine un "Molto Illustrissimo". In atto di scherzo con viso severo parlò il Marchese:
"Non beffate costui, o Signori, posciaché inviando questa lettera a Roma, egli era in necessità d'inventare nuovi titoli, per sodisfare a' capricci che regnano colà in questo particolare".
"È vero - disse il Conte -, ma faceva di mestieri proporre un titolo non spropositato, come pure è questo di "Molto Illustrissimo".
"Eh, quanti titoli spropositati - soggiunse il Barone - s'odono in Roma, appropriandosi attributi sublimi a taluno a cui converrebbero più tosto aggiunti d'infamia".
"Oltre questo - ripigliò il Cavaliere - è di bisogno dare negli spropositi, mentre s'obliga il cervello a sviscerare se medesmo per ritruovare titoli, che pareggino l'ambizione di chi gli pretende".
"È proprio - ripigliò il Conte - di procurarsi avanzo d'onore ne' titoli, in chi s'avvede di decadere davanti d'uomo, non che di Grande, nelle operazioni".
"Tralasciamo - ridisse il Marchese - questa miseria propria de' nostri secoli, ne' quali le azzioni poco buone, per non dire malvagie de' personaggi più riguardevoli, necessitano la grandezza umana al raffigurarsi in una speziaria fallita, in cui ciò che v'è di più bello sono gli soprascritti delle scatole, con inganno di chi legge un titolo eminente, e poi vede azzioni vilissime. Leggiamo questa lettera, da cui in sì goffo principio ci si prommette una lettura molto dilettevole". In conformità di questa sua proposta così lesse:
[XXXIII]
Molto Illustrissimo.
Non ho mancato d'invigilare a' negozi di V.S. raccommandati alla mia cura nella sua partenza. Già feci la rimessa ordinatami degli tre milla scudi a quel mercatante da Palermo, a cui inviai una ricevuta di quella somma in nome di V.S. come suo agente, scrivendo ch'ella rimmettevagli questa quantità di denaro, compiacendosi d'assolverlo da questo debito. Ho avuta una risposta impertinente, non che temeraria, avendomi egli rescritto che non ha debito alcuno con V.S. là onde non ha bisogno che gliene sia condonato lo sborso, e che quando fosse debitore non accettarebbe questa remissione, quasi che, o fallito, o mendico, egli non abbia con che pagare. Ho replicato con buoni termini per non perdere il commercio ad utile di V.S., pregandolo a non ricusare questo termine di cortesia, con cui in forma di regalo se gli fa questa rimmessa. Ho però anche aggiunti termini di rigore, come che ben so qualmente per ragione di corrispondenza corre tra chi traffica l'obligazione di non rifiutare queste rimmesse. Sosterrò la riputazione di V.S. fin all'ultimo punto contro l'ostinazione di costui, il quale forse per soverchia superbia ricusa ciò ch'altri di pieno cuore riceverebbe. Ho contrattato con quello de' corami, il quale pure voleva uccellarmi, proponendomi alcune balle di vacchette grosse, e sode, col darmi ad intendere esser fatte in quelle l'accordo di V.S.; ma io, che procuro il di lei vantaggio, e so qualmente li drappi più sottili sono di più fina tempra, e di maggior valsente, ho eletti, se ben quasi a viva forza pelli di montoni sottili, il che credo riuscirà di molto suo gusto, essendo robba che ha del piccante. N'ho dunque prese 1300 balle dando in riscontro 100 balle di seta, che nel magazeno pativano la polvere, e credo che V.S. fosse imbrogliata con quelle, essendo molto tempo ch'erano giunte di Messina, né mai essendosene fatto di spaccio. Ho fatto l'accordo a proporzione di peso, aggiustatamente alle lire delle pelli avendo presentato egual riscontro delle lire di seta. In ciò pur anche ho avuta mira all'avanzo, prendendo li montoni a lira picciola, e dando la seta a lira grossa, là onde ho guadagnato il terzo per cento cinquanta lire di pelle, avendone date cento sole di seta. Confesso però l'errore mio in questo traffico, nel quale pensavo di spacciare le 200 balle di canape venuto poco prima del suo partire di Bologna, ma estraendo le balle senza aprirle, come che so esser vantaggio il vendere, come suol dirsi, gatto in sacco, mentre è balordaggine di chi compra; m'è occorso inavvedutamente il dare quelle della seta, del che non di meno io godo, stando che il canape è richiesto con grandi instanze da alcuni mercatanti di Perugia. Per conto del pepe ho già contrattato il cambio di 1000 sacchi di quello con altretanti di formento molto bello, e assai migliore grano. Ho risolto questo, perché facendo far pane di quel pepe macinato, riuscì nero, e incendente, di modo che non poteva mangiarsi, là dove di questo formento si forma un pane candido e dilicato. Fa di mestieri che V.S. sia stata ingannata, poiché altrimente non avrebbe preso un grano, putrido cred'io, che accende, e attossica.
Se parimente m'occorrerà di contrattare con alcun altro balordo, farò ogni sforzo per far cambio d'alcune botti di moscato di Candia, venute di fresco da Venezia, con altretanta quantità di vino del paese. Questo ho determinato, benché senza consenso di V.S., per il riguardo, quale io tengo a' di lei interessi, avendo inteso qualmente ha grandissimo fumo, e essendo necessaria conseguenza che dove è fumo si ritruova fuoco, non voglio esser cagione dell'incendio della cantina, e forse anche della casa. Ne procurarò subito esito in qualsisia modo, se bene bisognarà obligare tutto l'avere di V.S. a chi lo prenderà, a fine di sfuggire le ruine, che potrebbero succedere. Non m'occorre altro per ora, poiché d'altri particolari ella avrà una puntuale informazione al suo ritorno. Non manco di scrivere tutte le partite, come mi viene insegnato, registrando le spese in libro doppio, cioè in due libri, e ciò che ricevo in un semplice libro per metà. Bramo che vengano molti negozii, per occuparmi maggiormente in servire a V.S. onde conosca se sono diligente, e fedele. Io tengo conto della di lei moglie, come se fosse mia, ed è trattata in guisa che non ha causa di desiderare la sua persona. La saluta affettuosamente insieme con tutti di casa, li quali stanno bene, eccettuato il figliuolo maggiore, che l'altro giorno ebbe una sgraffiatura dalla gatta su'l quarto deto della mano sinistra. Il chirurgo però ce lo prommette sano in pochi giorni. Così speriamo, pregando a V.S. dal Cielo ogni malanno, lontano ogni bene, che se le conceda; e per fine tutto vostro mi vi raccommando.
Il creduto termine di questa lettera licenziò il riso di tutti que' Cavalieri, che applaudevano con singolar gusto alla goffaggine, non so se di costui, o del Padrone, il quale aveva lasciato un tale Chiù per animale di guardia nella sua casa.
"A bell'agio - disse chi leggeva -, o Signori, poiché èvvi l'aggiunta, senza di cui pezza di carne non si danno dove li bovi si spacciano con riputazione. Udite la postscripta".
V.S. mi scusarà, mentre il fervore degli negozi m'ha fatto errare nello scrivere, massime nel registro de' numeri. Le balle de' montoni sono 30 non 300. Quelle della seta sono 10 non 100. Li 1000 sacchi di pepe sono solamente ventiquattro. M'è uscita dalla penna, non so come, questa quantità che forma tanto svario. Compatiscami per gli soverchi affari, e le basti l'essere avvisata del fallo.
"Questo - disse il Conte - è il rimedio contro il mallore de' sinistri concetti formati dal poco cervello di costui. Rassembrami molto esperimentato ne' costumi, che sogliono pratticare gli agenti da' quali s'amministrano le altrui entrate".
"Intendete - soggiunse il Marchese - dell'uso loro di commettere somiglianti errori nel nulla a fine di poter protestare d'esser incorsi in un fallo da niente, il quale pure è molto in loro avanzo, e a' danni del Padrone".
"È invenzione di buona coscienza - ripigliò il Barone - appresa dagli administranti Ecclesiastici per poter rubbare senza aggravio di colpa, mentre possono attestare di rubbar nulla".
"È peggiore - disse il Cavaliere - il modo della loro restituzione, con cui pensano di maggiormente disobligarsi da ogni rimorso di peccato, posciaché se rubbano un nulla nel registro delle entrate, accusando la ricevuta di dieci per cento, nel computo delle spese poi pongono un 100 per dieci, e in tal modo la partita delle loro furberie è giusta, e la restituzione anche di soverchio pontuale".
"Costoro - replicò il Marchese - nella esecuzione di sì buone regole si fanno ladri domestici delle case, simili a topi, in correzzione de' quali mentre s'applicano Ragionati, o revisori de' conti, questi rassomigliano gatti, li furti de' quali sono molto maggiori, ancorché siano posti giudici, e punitori del latrocinio".
"Miseria propria de' Principi - ridisse il Conte - da cui non s'esentano li luoghi sacri, che, nella nostra Chiesa, hanno questi topi abitanti troppo a dentro, non come l'Arca antica al di fuori".
"Basti alla confermazione di ciò - parlò il Cavaliere - l'esempio del Re di Spagna sempre mendico, ancorché abbia inesausto l'oro: mercé de' molti ministri, ch'in non diversa forma trattano gl'interessi della corona, usando una indiscreta rapacità".
Il tasteggiare di questa corda aggiustò la consonanza d'una tanta verità nell'animo di tutti, di maniera che non fùvi chi aggiungesse altri detti in questo particolare; là onde altra lettera così disse:
[XXXIV]
Amatissimo Tirone.
Uscito dal laborioso esercizio de' continui studii, o mio caro garzone, per allentare col passatempo della villa l'animo, che quasi arco, secondo la Ciceroniana sentenza, nel fermarsi troppo lungamente teso, scorre pericolo d'infrangersi, escrucciati li miei desideri, che non possono comportarvi lontano. Posso chiamarvi incendiario amoroso che m'abbrugiate il cuore, essendo io poco meno che invaghito del vostro buon talento, e della vostra pieghevole natura. Più d'una volta la vostra persona mi solleva alle sfere, nella contemplazione di quella potenza, d'onde siete uscito così perfetto, che ben posso ammirare in voi la figura circolare, come quella ch'eccede ogni altra in merito di perfezzione. Sarete un mappamondo di scienze, quando io possa in tempo diuturno lavorare l'inculto terreno del vostro giudicio col mio astrolabio, e tener fermo nel mezo il compasso, per aggirarmi poscia all'intorno della vostra circulazione. E se bene rassembrarete Firmamento nella sodezza, e fermezza, con cui riceverete la mia dottrina, io con tutto ciò sarò intelligenza motrice della vostra sfera. Ho gran diletto, quando posso spinger avanti in voi quella forma, ch'imprimono li miei insegnamenti, per levare que' rudi principii li quali rendono miserabile l'intelletto, e allargare il foro all'ingresso delle più recondite scienze. Non vorrei che questo poco sollevamento dalle studiose lucubrazioni cagionasse la dimenticanza di sì bell'uso, diventando inscio degli precetti dàtivi fin ad ora, per buon inviamento ad altre dottrine. Avvertite di non perdere la facilità, con cui sapevate truovare buona concordanza, allor quando io vi proponevo un caso retto; come pure l'attitudine al far i latini per gli passivi, al che hovvi avvezzato, come che rendono l'orazione molto più elegante. Non usate troppo gli attivi, a fine di non imbevervi di contrario costume; e se pure talvolta v'occorre l'esercitare in questi le regole da me insegnatevi, rivolgetevi subito al fargli in passivo, per assicurare una buona consuetudine. Altrimente diventando voi immemore di sì bell'uso, al vostro ritorno io sarei in necessità di maneggiare la mia sferza, che ora si va indurando, e farà di mestieri che me l'aggiri per le mani, quando non incontri in voi la solita capacità per apprendere quanto dono in pasto al vostro intelletto. Non permettete alla interposizione di questo tempo l'insinuarvi terrore con la difficoltà, che va congiunta alla durezza delle scienze, la quale può ammollirsi dal vostro esercizio, e dal fervore dello studio, con cui ruminando li documenti che vi si danno, su'l fine toccarete con mano esser poco, e quasi nulla, ciò che da principio, e in durezza, e in grandezza, rassembrava un monte. Ripetendo nella memoria ciò che v'è riuscito sotto la mia disciplina, potrete accertarvi di questa verità, confessandovi più d'una fiata stupido allo scorgere fatto in poco d'ora Pigmeo senza sussitenza, e senza forze, chi pareva inanti un colosso ingigantito. Tanto può e vale un giovine quando coopera alla bontà dell'insegnamento, che raffiguro per appunto nella cera, ch'indurata, e intirizzata dal freddo, concorrendo il calore d'estrinseco ogetto, s'intenerisce, dilegua, anzi si consuma. Alla macina della intelligenza si richiede un moto rapido, e veemente; che allora ben presto vi si fa trito ogni grano, benché duro come un osso. Non vi credo già oblivioso della difficoltà che prima avevate in congiungere l'aspirativa oh col dattivo mihi, nel che facesti tale prattica, che quasi ad ogni ora sentivo ripetersi quel verso Oh mihi quam dulcis, etc. Similmente pareva strano l'obligo di porre sempre l'o inanti al vocativo, il che nondimeno tanto v'inculcai nella mente, che si tramutò in consuetudine il rispondermi, ogni qual volta vi chiamavo, con l'o Magister ecce adsum. Ciò vi riduco a memoria, accioché nell'ozio presente inselvatichito l'ingegno, e ritornato al primo stato di strettezza, con cui l'ignoranza chiude l'adito al sapere, non vi riduciate a termine di non lasciare penetrare con la solita prontezza li miei documenti; o pure sentendo qualche nuova passione, per il mancamento dell'uso, v'assicuriate ciò non procedere da maggiore durezza della materia, ma dall'esservi disavvezzato, là onde risolverete di soffrire ogni patimento per ripigliare la ordinaria consuetudine, che vi rende agevole il sodisfare al precettore. Osservate finalmente di non ricevere le regole d'alcun altro, mentre siete da me lontano, posciaché essendo diverse dalle mie, come che la sostanza della dottrina è la stessa, ma diversa la quantità, e la qualità, confondereste voi stesso, e a me usurpareste il contento che pruovo al vedervi proclive all'apprensione delle mie, come più ordinarie, e meno istravaganti. Che se da altri quasi a viva forza permetteste inserta nella vostra mente una dottrina esorbitante, non più sareste atto al trattener la mia, la quale vacillarebbe, non appresa con la solita corrispondenza, in cui ho pruovata mai sempre la capacità della forma, aggiustata alla materia, ch'io proponevo. Non ho altro di che avvisarvi, posciaché la scienza, di cui sono avvezzo di far voi a parte, abbonda solo in vostra presenza. Al ritorno, che attendo in breve, frequentarò gl'insegnamenti per risarcire li danni del tempo decorso. In questo mentre non vogliate dimenticarvi del vostro diletto precettore, il quale per fine vi si raccommanda.
"Chi scrive - disse il Cavaliere - è un Pedante, cioè a dire la feccia della umanità, e il fiore, anzi una quinta essenza de' peggiori".
"Con una dottrina di quattro h - soggiunse il Barone -, come suol dirsi per proverbio, hanno una scienza d'aspirazioni, che si risolve in aria, o anche in nulla".
"E pure èvvi la speranza in alcuno - seguì il Conte - di veder sollevato il merito della propria virtù alle glorie de' primi letterati".
"La superbia - ripigliò il Marchese - è qualità connaturale a questa canaglia, ben raffigurata in un Asino, il quale con maestoso sussiego assiso in una catedra, pone gli occhiali, e fissandosi nel Cielo si dà a credere applicato alla contemplazione". "È proprio de' porci - replicò il Barone - il tralasciare di rugnire, quando tengono sollevato il capo. Quindi forse l'inalzano queste bestie in atto d'eccelsa speculazione, accioché non appariscano segni della loro bestialità".
"Non ci ammorbiamo più in grazia - conchiuse il Cavaliere - nel lezzo delle infamie di costoro, abominevoli anche in atto di vituperarle". Per cangiare discorso mutò foglio, in cui variate le note de' caratteri poteano dilettarsi con diverso tenore. Così era scritto:
[XXXV]
Molto Rev[erendo] Padron mio.
V.S. che per la somma virtù è onorata da' primi luoghi di Parnaso, sarà informata a mio credere degli affari di quella corte. Ho però stimato di non poter incontrare miglior mezo, per accertarmi d'un successo riferito da alcuni, li quali giurano d'essere testimoni di vista. Ma pure conoscendo io costoro, più superbi che virtuosi, in modo che non posso giudicargli introdotti in quel sacro luogo, non ho potuto appagar l'animo con una ferma certezza. La curiosità mi spinge ad importunarla, a fine di poter impetrare su li di lei attestati questa sodisfazzione d'animo. L'avviso dunque è giunto in tale forma. Raccontano che a' giorni passati un mercatante da caviale, e altri salumi, addimandò audienza appresso S.M., concessagli prontamente come che d'indi è sbandita la tirannide, e alteriggia propria de' Principi, li quali nauseano la presenza, non che le parole de' più vili. I suoi trattati furono un'amara condoglienza contro del suo Cameriere, il quale aveva applicati al necessario alcuni libri, che come buoni da nulla si rigettavano, e per uso ordinario a quegli consegnavansi, accioché servissero a l'invoglio delle sue merci. Il mancamento di questa solita provisione riuscivagli di molto discapito, come che obligavasi a maggiore spesa in carta bianca. Furono osservate le sue querele, con determinazione d'adunare alcuni virtuosi, li quali facendo l'elezzione de' libri occupati dal Cameriere, accusassero in esso una maligna intenzione per averne usurpata all'altro la parte che se gli s'aspettava. Fu eseguito l'ordine, e furono riportati sopra d'una grande tavola tutti que' fogli, che aveano meritato un tale disprezzo. Ora nell'esercizio di questo impiego, ritruovarono molte delle proprie composizioni quelli che già erano stati destinati al rivederle. Le fiamme nel viso, gli occhi torvi, li gesti sconcii, sono contrasegni di sdegno insufficienti all'esprimere la grande rabbia di coloro, che altrimente presumendo di loro stessi sopra d'ogni altro, scorgevano la sentenza da cui publicavasi la viltà de' loro scritti. Non contenti delle minaccie, vollero trascorrere alle battiture, e alle ferite contro del Cameriere, come che aveva esposte all'essere fregiate di sterco (degno ricamo di que' caratteri) carte ch'eglino apprezzavano meritevoli d'ornamento di gloria. Lo strepito chiamò Appollo, all'ingresso di cui arrossirono i litiganti a' rimorsi della coscienza, per la colpa commessa, fatti irriverenti a quel sacro luogo. Procurarono di sepelire con l'ardimento la confusione, e dell'animo, e della lingua, là onde esclamarono contro il Cameriere, attestando qualmente tutti que' libri erano da sardelle, e da caviale, malignamente però impiegati ad altro, con danno del mercatante. Giusta sentenza in cui, essendo avidi di condannar quello, diedero alle proprie composizioni quel posto, che converrà loro tenere, posciaché il giudicio dell'interessato medesmo, quando condanna, è irretrattabile. Avvidesi S.M. del predominio della passione, che rendeva parziale questo scindicato, là onde presesi diletto di fare nuova rassegna di quelle cartaccie, alcune delle quali aveano ricevuto onore non meritato, sotto il tetto d'una bottega, convenendosi loro per riserva un coperchio di necessario. Altre corrose da tarli, affumicate, o di materia tanto grossa, e roza, che offendevano il tatto, non che gli occhi, furono destinate al fuoco. Tanto ha narrato un ciarlatore moderno, conchiudendo una grande mortificazione in que' letteratucci, che su gli occhi propri vedeano le loro scritture valutate così altamente, correre o al necessario, o al fuoco, incaminate a tal meta da quella suprema volontà, che non poteva contrastarsi. Così è succeduto che taluno, il quale si spacciava come vitello gentile, per dar a credere di proporre dilicato pasto a gl'ingegni ne' suoi libri, s'è scuoperto un Bue. Chi credeva di vendere l'oro di molto pregio, è stato riconosciuto abbondante solo d'oro cantarino, strepitoso sì, ma di niun valsente. M'assicuro che avrà veduto il fuoco ne' suoi fogli, e degnamente, chi nello stesso cognome porta congiunti gli ardori, per non rendere diverso il merito de' libri da quello de' costumi. Chi non ha buoni vezzi, non avrà saputo lusingare la fortuna in questa occasione, né le sarà riuscito, come nell'adulare l'uno de' due Diavoli d'Europa, nel procurare di rimuovere somigliante rigore d'Appollo contro de' suoi scritti. Son certo che il sale, con grandi stridori, si sarà vendicato della condannazione alle fiamme, e avrà procurato di saltar fuori, come che sempre abbondando in presunzione, ha giudicato di meritare migliori trattamenti; tutto però indarno, essendo inviolabile la osservanza d'inevitabile decreto. Di chi ha molta lingua è superfluo il chimerizar il posto, come che buona al forbire, deve credersi che sarà andato al necessario. Chi gloriavasi d'avere fabricato su pochi fogli uno strato maestoso alla virtù, per celare all'ombra di questo le ignominie proprie della nascita, e della professione, avrà veduto un rogo acceso, per esporre in tal guisa alla luce le condizioni del suo merito. La vicinanza di Pallade non avrà giovato né meno a chi la vanta nel cognome, perché senza scudo di sapere la protezzione di questa Dea è vana, e cedono le di lei difese all'infallibile giudicio di quel Nume tutto splendori, per porre in chiaro somigliante verità. Lascio altra canaglia di molti, che uscendo nuovamente su la scena del mondo per far numero tra' letterati, non appariscono che quasi Scimie, provedute della semplice, e schietta imitazione d'alcuno de' migliori. Li scritti di costoro non furono degni d'entrare in tal contesa, impiegati per ordinario in accendere il fuoco di cucina, e a servizio de' più vili di corte. V.S. molto Reverenda mi favorisca d'un puntuale ragguaglio, per aver fortuna d'accertarmi di questi particolari. Il conoscerla pronta al far grazie mi fa ardito per ricercarle. Il desiderio di servirla mi fa importuno, accioché la mia confidenza dia moto all'auttorità, ch'ella tiene di commandarmi con assoluta disposizione di me stesso, in conformità di che me le offro di tutto cuore; e per fine, etc.
Fu arida questa lettera per gli Cavalieri, onde non puotero esprimerne materia di scherzosi motteggi; tanto più che, come disse il Conte, fora stato di mestieri il fermarsi sopra il necessario, luogo che non doveva occuparsi a chi aveva composto il ragguaglio, mentre egli appariva ambizioso di trattenerlo per suo posto. "Oltre che - soggiunse il Marchese -, l'accumulare biasimi contro li letterati è un voler esporre faci al Sole, e transgredire le leggi dell'umanità, aggiungendo afflizzioni a quelli che pur troppo, con maldicenze, e pessimi trattamenti, sono perseguitati e afflitti". Passò alle loro mani altra lettera, che così diceva:
[XXXVI]
Molto Illus[tre] Sig[nore].
L'abbondanza de' personaggi, che sono costà in Roma, avvalora le mie speranze d'incontrare la sodisfazzione de' miei desideri. Si va maturando sotto il torchio il parto d'un bellissimo libro, il quale dalla notte d'un'affumicata tintura, passarà tantosto alla luce. Bramarei d'appoggiarlo a soggetto di stima, che con atto di liberalità contracambiasse questa osequiosa dimostrazione. Le angustie de' tempi sono grandi, il dispendio della professione grandissimo, là onde quando non fruttifichino le dedicatorie, il seminare nelle stampe è un incaminarsi al mietere la povertà. Attenderò che da Vostra Signoria mi sia proposto personaggio d'ogni cui buono trattamento io possa contraere con lei obligazione, e applaudere al pensiero che m'ha persuaso di affidarmi a' di lei cortesi favori, a' quali corrisponderò prontamente in ogni occorrenza; e per fine, etc.
"Ha male indirizzati costui - disse il Marchese - li suoi disegni, mentre pretende d'acquistare dove di continuo si pela, e si scortica".
"Credo - soggiunse il Conte - che altrove né meno potrebbero sortire buon esito le di lui pretensioni, poiché nel mare degl'inchiostri non più ritruovasi chi spiri vento favorevole, e li grandi, dalla prodigalità de' quali dovrebbe prodursi, inclinano più ad accelerare li naufragii, che al procurare il porto alla virtù".
"Mercé - parlò il Cavaliere - che per le loro indegne azzioni temono fatta eterna la memoria de' loro biasimi, dove nella immortalità degli scritti si riserba a perpetua rimembranza l'altrui nome".
"Questa per mia fé - conchiuse il Barone - è la sola causa, onde ora non si rimunerano le dedicatorie da' maggiori, li quali nel rimirare il lor nome su'l frontispicio d'opera, la quale avanzarà longo corso di secoli appresso la posterità, riflettono sopra le molte ignominie che rammentarà tale prospettiva, rappresentando alla considerazione li loro malvagi costumi".
Non propose questa lettera materia di maggior discorso, come che l'abborrimento delle opere virtuose è mancamento de' Principi, tanto più deplorabile quanto più commune. Altra carta somministrò motivo di nuova lettura in non dissimili sentimenti:
[XXXVII]
Illustriss[imo] Sig[nor] mio.
Cedano le tanto decantate prodezze d'Ercole alla impresa con la quale io ho dato buon fine a gli amori di quella Dama, de' quali Vostra Signoria Illustrissima è consapevole, come partecipe de' più reconditi secreti del mio cuore. Già può rammentarsi la veemenza della passione, da cui tormentato esalavo con lei alle volte le mie pene, per disacerbare la doglia troppo acerba onde ero angustiato. Continuarono alcun tempo dopo la di lei partenza gli scherzi di quel pargoletto, che giuocando ferisce. L'amicizia col possessore di questa mia Diva aggiungevami nel godimento della di lei conversazione lacci sempre maggiori.
Quindi fatto nel cuore un nodo, quasi indissolubile, fu necessario il risolvere l'uso di quella spada, con cui simili groppi d'amore si sviluppano. Già l'appetito l'aveva arruolata, in modo che potevo assicurarmi d'un buon colpo, quando la fortuna mi avesse permessa la opportunità di porla a mano, e aggirarla a mio piacere contro l'amata nemica. Ero sforzato dalla veemenza della passione ad esercitarla da me solo con tutte quelle forme di scrimia amorosa che detta la natura, mentre s'ha il nemico medesmo a fronte. In contrappeso de' miei desideri, era la gelosa custodia del marito, onde erano tirate al basso le mie speranze, quanto più si sollevava la lance della bilancia, in cui hanno il lor peso le contentezze d'amore. Non potevo assicurarmi della corrispondenza dell'amata, poiché non avevo commodità di ricercarla, né fondamento per sperarla. Tanto essa era non sapevo se cauta o pudica, che però la domestichezza familiare tra noi non lasciava segno di fecondità, dalla quale potesse uscire alcun parto in mio compiaccimento. L'esperienza di questo, m'avvertì che gl'inganni soli poteano rendermi opportuno il porre in opera la verga, con cui dovevo levare l'incanto di tanti dolori che mi tormentavano.
Essendo la stagione estiva uno stimolo al maturare li miei pensieri, per accommunare con la messe, di cui godono anche li più vili, quella delle mie contentezze, presi l'aura dal tempo, per aver facile il varco a felice occasione. Invitai e il marito e la moglie unitamente ad una mia Villa poco distante dalla Città, a fine di dar loro con le delizie di questa alcun trattenimento. Nel palaggio avevo ordita la mia rete, per prendere questa Venere, e strettamente collegarla meco, senza temere il disturbo della malignità d'alcun Vulcano. D'una stanza molto ampia ne feci due, non con altra divisione che quella facevano le tapezzarie, le quali s'estendeano per abbigliamento anche del rimanente. Nello spazio di quattro palmi sopra terra, avevo fatto congiungere tavole incrostate con sembianze di muro, per trarre fuori d'ogni sospetto la gelosa circonspezzione del marito. Contigui al finto tramezo erano due letti, l'uno per parte; non con altro intervallo fuori di quello che comportava l'ornamento, il quale ammantava la frode. Nell'uno designai il riposo degl'invitati; l'altro, ch'a loro nascondeasi, feci posto d'insidie, d'onde io doveva star in aguato, per compirle in sodisfazzione de' miei desideri. Dopo la cena, in cui misto alcun sonnifero m'assicurava non molestato dalla vigilanza del consorte, si ritirarono al trattenimento della notte, ch'essermi doveva impiego di delizie. Tacitamente anch'io mi condussi al mio sito, con pensiero di travaglio, se ben dolce, non già di riposo. Attendevo ogni loro discorso, che valutava tanto maggiormente i miei futuri furti, mentre scuoprendo lei vantatrice di pudica fede, ed esso vantatore d'un geloso affetto, m'era suggerita dall'animo più gloriosa l'impresa di schernirgli ambedue. Principiava li suoi effetti nel marito, benché lentamente, il sonnifero; là onde prevenendo la moglie nel coricarsi, la precorse anche nel dormire. Non giovarono li vezzosi scherzi, co' quali esso era sollecitato a gli abbracciamenti, perché l'interna operazione di quello trionfava de' sensi a fine di non lasciargli liberi ad esterno impiego. M'auguravo nel suo luogo per sodisfare alle amorose instanze dell'amata, avendo io bisogno di freno, là dove quello aveva necessità di speroni per scorrere quella carriera, in cui si brama senza fine, ma non senza meta il viaggio. L'uno per sottrarsi all'importunità noiosa, si ridusse all'estremità del letto, l'altra per veder disprezzati li suoi inviti, fingendo un grazioso sdegno, si trasse in disparte su l'altro canto. Quindi nel letto, che per collocarvi i miei disegni avevo a bella posta fatto porre assai capace, rimase un vacuo bastante al ricevere la mia felicità.
Levata dunque la cortina, che formava la tapezzaria, uscii in scena, dove non ambivo avere spettatori, poiché bastavanmi gli applausi de' miei appagati desideri. Fu di molto mio gusto la comedia ristretta in due atti, accioché il voler giungere al terzo, non cagionasse il fine tragico nel discioglimento de' miei insidiosi inganni. Mi collocai nel mezo tra'l marito, e la moglie, e con questa usando libertà di consorte, quale potevo essere creduto in quel posto, entrai senza opposizione, e senza foriere di ceremonie diedi a vedere che conoscevo l'alloggiamento come proprio. Quella mostrò né meno d'essere risvegliata. Con tanta quiete mi ricevette, come stimato familiare, là dove non fosse necessario il tumultuare per il mio ingresso. All'interrotto sonno, succedette sì tosto in lei l'amorosa languidezza, che non diede segno d'aver liberi li sensi se non quando sepelì entro le mie fauci la lingua, per significare che mancava la favella; e per mostrarmi qualmente moriva, con un profondo sospiro esalò l'anima, e spirò il cuore nel mio seno. Ripassai dopo il guado stesso, e mi ritirai nel lido del mio letto, considerando essere precetto di prudenza il non abusarmi di così longa tranquillità, che concedevami amore, contro l'ordinario costume di perturbare gli altrui diletti con la inconstanza de' suoi favori. Giudicai impresa di singolar gloria il godere una dama nel letto medesmo indivisa dal marito, ad onta della gelosa custodia di questo, e in scherno della da lei professata pudicizia.
Uscii il giorno seguente co'l marito risvegliato per mio ordine di buon mattino, a fine di trattenerci unitamente nella caccia. Da questa ricordavamisi la felicità con cui io avevo uccellato la notte, e come bene avevo colpito nello scopo, anche tra le tenebre. Narrommi questi ridendo il contrasto seguito tra lui e la moglie, allor che sorse dalle piume, poiché essa accennava le dolcezze gustate nella notte, delle quali però egli protestavasi innocente quale era, avendone le mie frodi la colpa. "Credomi - disse - che abbia sognato, non avendomi mai concesso la profondità del sonno di sollevarsi i sensi ad amorose contentezze". Auttenticai anch'io questo credito d'amorosa apprensione lasciata da' fantasmi del sogno, ancorché ben sapessi qualmente non aveva dormito, chi con gli spiriti più vivaci aveva animate le mie delizie.
Non seppi fermar il corso a' miei desideri, o fosse per insaziabilità dell'appetito, o perché secondo il mio credere fossero imperfetti li passati diletti, mancando il principale condimento, cioè a dire l'aperta corrispondenza di quella ch'amorosamente si gode. Tentai di nuovo la mia sorte nella Città, beffandomi della gelosia del marito, per cui non potevo prommettermi di riuscire in questa impresa con altro mezo che d'occulte insidie. Abboccatomi seco un giorno con prevenzione d'affettuosi tratti, ricordandomele sviscerato servitore, gli diedi un bugiardo testimonio di fedele amicizia, manifestando l'intenzione d'alcuni Cavalieri spiata da me in modo sicuro di venire alla sua casa di notte, e rapirgli sin dal seno con violenze la moglie, tanto più invaghiti delle di lei bellezze, quanto più s'offendevano dal guardarla egli con tanto rigore. La seguente notte dissi essere la destinata all'impresa, con tale scompiglio dell'animo di quel buon uomo, ch'io lo rimirai nel tempo stesso confuso, stolido, e quasi tramortito. Trattavasi la perdita di quel tesoro, ch'era il suo cuore medesmo, per cui conduceva una stentata vita, nel timore che fosse participato da altri.
A me ch'ero l'oracolo si rivolse, accioché fossi il Nume propizio, e se avevo dimostrato il male, offerissi anche il medicamento. Raccommandai una esatta secretezza, in guisa che alcuno di casa, anzi la moglie né meno fosse consapevole di questi interessi. Per non insospettir questa, ch'a me molto più d'ogni altro premeva, gl'imposi di coricarsi al solito con lei, e dopo addormentata che fosse sottrarsi a lei, pervenire dove io l'attenderei, con ordinato il rimedio per ogni pericolo. Sono nella casa due porte, la principale l'una, e l'altra in capo a un giardino cinto di mura in parte più rimota. Condussi meco su l'imbrunire della sera alcuni uomini armati, con parte de' quali posi colà il marito di guardia, rimanendo io cogli altri nell'altro posto, a fine d'assicurare con le nostre persone ambedue li passi. Il concerto fu fatto di non muoversi scambievolmente, accioché quando il bisogno richiedesse d'unirsi, non si dasse campo a' nemici nella parte abbandonata, onde accorressero all'altra. Li miei soldati consegnati a quello, aveano ordine secreto di trattenerlo fin a mio avviso per propria sicurezza. Disposto il tutto conforme il disegno, giunse l'ora felice per me, poiché lasciata preda del sonno la Dama, scese il buon uomo in farsetto, ma però carico d'arme per contrapesare alla gravezza, con cui atterravalo la timidità. Ubbidì a' miei ordini, collocandosi nel luogo stabilito, e dividendosi da me con prommessa di non partirsi dalla disposizione de' miei cenni.
Ascesi con la prattica che avevo le scale, portando meco un lume coperto in lanterna doppia. Entrai nella stanza, e d'indi me ne passai al letto, dove giacendo la Dama m'introdussi ne' più angusti recessi, ne' quali si ricovera la povertà delle dolcezze terrene. Penetrai nell'archivio della riputazione del marito, e depredando tutto ciò che poteva arricchirmi di contentezze, non mi curai se la fedeltà fosse offesa, o violata l'amicizia. Nel sommo de' godimenti, rapito fuori di me stesso trascorsi in un ahimè, nota espressiva d'estraordinario piacere, da cui fui scuoperto ladro. Riconnobbe l'amata la differenza della voce, occultata fin a quel punto, o col tacere, o con falsificarne in brevissimi accenti il suono. Rilasciata questa allora al suo naturale, palesò qualmente io ero altri che il suo consorte. Avvalorò il sospetto con altre inequisizioni, sì che con più diligente esame scorgendomi diverso, tramutò in certezza il dubbio. Principiò ad esclamare, come tradita, sollevando le grida secondo il costume del sesso, inabile al sostenere li suoi sdegni, o le sue vendette con la forza.
Sbalzai dal letto, e postomi in chiaro qual io fossi col lume, m'offersi di morire per appagare li di lei furori. Nell'una mano avevo la lanterna, nell'altra afferrai un pugnale, rivolgendone la punta al petto e mostrandola dirizzata a ferirmi, quando ella non si risolvesse di compatirmi. "Ucciderommi - le dissi - quando io stimi voi più sodisfatta della mia morte, che del mio amore. Usate però prudenza, o Signora, né siavi a gloria il publicare anche nelle vendette contro di me li vostri falli. La casa è piena di miei soldati. Seguiranno le stragi di chiunque contrastarammi lo scampo, il quale però io non curo, contento di cader vittima svenata alla vostra Divinità, se la stimate offesa da chi v'adora".
Così dicendo mostrai di rinforzar il colpo, onde essa, allungata la mano, trattenne il corso del braccio. "Fermatevi - disse - o amico, poiché non fa di mestieri che trascorra a tanta fierezza la dissimulazione, con cui noi donne rassembriamo irate contro chi furtivamente ci gode. Furti a noi dolci, che ci arrichiscono di piaceri, rubbando all'incontro la sola vanità di quell'onore ch'è un bene tormentoso, e per altro imaginario. Ci riescono gradite le delizie gustate con nuovi amanti, poiché un solo marito, sempre lo stesso, troppo ci annoia. Amate pure, godete, e tacete, che ogni avventuroso sortimento de' vostri affetti sarà per me un Paradiso di felicità".
Da questi sensi così gentili fattami molto più cara di prima quella Dama, l'abbracciai con eccesso di tenerezza. Per sodisfare alla sua curiosità, raccontai la forma delle mie frodi, avvisandola anche dell'inganno usato in villa né da lei penetrato già mai. Per la notizia di questo strinsemi essa più dolcemente, e annodandomi strettamente, mostrò di farmi total dono della sua grazia, anzi di se medesima, premiandomi come scaltro amante.
Interruppe il nostro trattenimento lo strepito ch'udii, cagionato dal moto dell'armi. Alla porta picciola del giardino vennero alcuni, deve credersi ladri, che procurando d'aprirsi l'adito posero in scompiglio la guardia. Ciò diede credito alle mie menzogne, onde il marito degno per appunto custode degli orti, sollevò tutti al mantenimento del posto. Lasciai anch'io la mia beatitudine per accorrere alla difesa, non però necessaria, mentre atterriti quelli dal solo rumore, abbandonarono l'impresa, e procuraronsi salvezza con la fuga. Così terminò la Comedia, con questo vantaggio per me: d'aver sempre in pronto la scena, ogni qual volta volevo rinnovare gli atti delle mie contentezze. Come fatto assai più confidente del buon uomo, avevo esentata da ogni sospetto la mia conversazione. Dall'altro canto la moglie accorta, mendicava con mille arti moltiplicate occasioni per felicitarmi nel suo seno. Tale è stato l'esito de' miei amori, de' quali ho voluto ragguagliare V.S. per sodisfare con quello in cui più confido a quel tale prurito degli amanti, che meno si compiacciono de' loro furti, quando sono meno palesi. Condoni a questa passione il tedio del racconto, e contracambi la mia confidenza col pratticare verso me la sua gentilezza nell'onore de' suoi commandi, a' quali m'offro di tutto cuore; e per fine le bacio le mani.
"Ecco - disse il Cavaliere - quale è il termine dell'amicizia de' nostri secoli, ne' quali li più domestici sono que' soli che maggiormente insidiano la riputazione".
"Chi pose per pruova d'amicizia - soggiunse il Marchese - la necessità di mangiare unitamente un moggio di sale, insegnò qualmente conveniva l'esser becco, a chi voleva mantenere veri amici, là onde era di mestieri gustar il cibo più gradito a quelli animali, per avvezzarvi il palato".
"Non mi stupisco dunque - ripigliò il Barone - ch'in alcune Cittadi principali d'Italia siavi l'uso d'accommunare vicendevolmente le mogli, poiché forse si vantano di professare le leggi di vero amico, avendo appruovata l'amistà con la pruova del sale, onde hanno fatto buono stomaco per goderne l'appetito".
"Osservo - parlò il Conte - come simbolo di vera amicizia il Cervo, mentre gli animali di questa specie nel transito de' fiumi scambievolmente soccorronsi l'un l'altro, nel che s'esprime la necessaria condizione di veri amici, che obliga al porgersi vicendevole aiuto ne' maggiori pericoli. Quindi per ragione di somiglianza, conchiudo doversi a gli amici un grande apparato di corna".
"Lasciamo in grazia - ripigliò il Marchese - questi apparati alle case della Germania, ove singolarmente si apprezzano, essendo altrimente nella nostra Italia pompe d'ignominia".
"Sì - aggiunse il Barone -, appresso alcuni pochi, da' quali non si riveriscono li sensi de' maggiori, onde in conformità degli antichi non annoverano tra' voti di singolare solennità l'offerta d'un Bue con le corna d'oro, quasi che il valsente di queste ne scemi il vitupero".
"S'accostuma ciò - ridisse il Cavaliere - ne' sacrificii per li Principi. Universalmente però stimo che una gran parte di quelli, che non hanno corna in capo, le abbia nel seno. Comunque ciò sia nulla giovaci lo scuoprire ciò che può aprire le nostre piaghe". Espose alla curiosità de' compagni altro foglio vergato co' seguenti caratteri:
[XXXVIII]
Carissimo Amico.
Alla vostra partenza, che ci divise, io restai impacciato negli amori di quella Monaca a voi benissimo nota. Eromi imbarazzato per ceremonia, ma con tanta difficoltà mi sono poscia sviluppato, che non senza ragione affermo essere quasi pece questa affezzione. È un male attaccaticcio, ch'allorda, intrica, e in ogni minima scintilla concepisce inestinguibile incendio. Esaggeri pur chi vuole l'ordinamento de' più ben composti laberinti, ne' quali ad ogni passo s'incontra inavvedutamente un laccio; ch'ad ogni modo sarà forza confessare maggiore il ravvolgimento, con cui si confondono gli affetti, se pongono il piede entro quelle crati di ferro. Considerisi di qual condizione sia quell'amore, che deve imprigionarsi, quasi prima di nascere, e ne speri chi può fortunati progressi, mentre quello vanta li suoi principii in un carcere. Raffigurano que' ferri per appunto il cinto d'una gabbia, in cui però è molto folle chi rinserra la libertà del cuore, a fine d'accompagnarsi con una bestia indiscreta, la quale nel suo ozio ha per unico trattenimento il dileggiare, o anche il tormentare amanti. Mentre sono racchiuse in luoghi sacri, né scorgesi in esse anima di virtù, fa di mestieri il crederle cadaveri, onde nel congiungersi con loro si pratticano que' più crudi patimenti, ch'in alcun tempo inventar puote già mai la spietata fierezza de' più barbari tiranni. V'assicuro, o amico, che chi pose li Carnefici sotto la disciplina di Cupido, gli assignarebbe per scola li Chiostri di Monache, dove con particolare studio si professa esquisitezza in schernire, o tradire chi capita nella rete delle loro lusinghe.
La moltiplicità d'amanti ricevuta dall'avarizia delle meretrici è procurata da queste tanto più sfacciatamente, quanto che a diversi nell'ora stessa fanno communi le loro delizie, o per meglio dire li loro inganni. Cangiando luogo variano affetti, e da' discorsi con uno, trapassando a favellare con altri, replicano li detti medesmi, e fanno la scena stessa inalterabile delle solite finzioni. Con tutti sono prodighe de' diletti, che lor permette la capacità del luogo, gloriandosi d'adescare gli uomini, onde stimino il sommo de' piaceri l'autorità di palpar loro una mano, di cogliere un baccio, rubbato per la maggior parte da' ferri fraposti, e di veder talvolta quella carta, su la quale chi ama giuocarebbe volentieri tutto il suo, non avvedendosi quanto facilmente si tramuti, non lasciando altro avanzo che d'appetito. Se inoltra la corrispondenza al permettere, conforme la mostra che si fa, il lavoro delle mani, non inferiormente all'uomo adoperando l'amata le dita, queste sono le più vaghe fatture di questo amore, e li più amorosi artificii, co' quali ei componga le sue dolcezze. Quivi terminano tutti li più soavi godimenti, e principia l'opportunità d'accreditare le più fine frodi. Que' frutti, il gusto de' quali si valuta dall'apprensione, è spacciato alla presenza d'un amante, e pure si vende da' pensieri all'affezzione d'un altro. L'intenzione degrada l'opera, onde taluno sciocco, il quale la crede disegnata per sé, la paga con molto dispendio a contanti d'affetto, e anche di regali.
Rinnovano li costumi degl'istrioni antichi, le rappresentazioni de' quali consistevano in prospettive, e in gesti, mentre in questi amori comparisce ciascuno a far scena del più dilettevole, e con le mani gestisce a suo grado. Riescono le comedie di vago aspetto, ma gli atti sono manchevoli, mentre non si può entrare in teatro, e si sodisfa solo a gli occhi, a' quali bastano le apparenze. Sono violenze troppo crudeli, che necessitano l'uomo ad estenuarsi, e distruggersi da sé solo, persuadendo pure di poter assottigliarsi, di modo che penetrando per quelli angusti fori, vada a congiungersi con oggetto, che con soverchia forza lo rapisce.
In questi gusti (lo confesso) m'invescai anch'io, là dove avevo posto il Paradiso in somiglianti contentezze. Giudicavo brevi li giorni consumati in adorare una di queste Parche, le quali troncano lo stame per amorosa morte, senz'avere nelle mani il fuso. Vicino mai sempre a quelle crati per godere l'aura del suo respiro, e per approsimarmi le fiamme, ch'ardevano nelle sue guancie, rassembravo ambizioso d'accommunarmi quel carcere; potevo almeno essere creduto avido di divorare quel ferro, ch'imprigionando la mia Diva, vietavami il goderla. Avendo vicino il mio Sole, ma privato della commodità d'abbracciarlo, pruovavo una rigida stagione. Quindi il serpe amoroso faceva talora grande sforzo per intanare il capo della lingua nelle di lei labbra, accennando il desiderio di procurar altrove ricovero anche alla coda. Ho impetrata qualunque sodisfazzione d'apparenza, con offerta anche di meglio, quando l'opportunità dell'occasione favorevole concedesse di schernire l'impedimento di racchiusa prigione. Bisognavami ben sì compiacere alla di lei avarizia ingorda d'acquisti, di modo che sollecitandomi con doni da nulla, mi necessitava al corrispondere con molto. Affermo più interessati questi amori, che dispendiose le libidini delle meretrici, poiché obligando al frequentare li doni, fanno cambii di molta usura.
Oltre che non può disporre di sé, non che del suo denaro chi rapito dalle loro frodi è consecrato a quella Divinità, ch'adorandosi appunto ne' Tempii credesi non mai bastevolmente gratificata. Con arti studiate nelle loro Celle ingannano talmente che si rende più difficile lo sfuggire le loro insidie, mentre più accuratamente ne vengono tesi i lacci. In quella loro ritiratezza, come somministrano materia alla propria disonestà con artificii di vetro, e con le lingue de' cani, così con disgiustati pensieri si propongono varie forme di scherni, e tradimenti. Dopo d'avere taluna lusingato in tal modo impuro prurito, viene a sollecitarlo negli amanti godendo in quella sazietà d'aggiungere stimoli d'appetito ad un famelico. Ma ceda ogni pena, e ogni dispendio alla necessità di fermarsi tutto giorno ne' ceppi, a fine di servire alla loro curiosità, ed esser loro passatempo di conversazione. Li discorsi sono della malignità, della emulazione, dell'invidia regnante ne' chiostri, o sono tessuti d'amorose freddure, ch'intirizzano quel misero, che sta ivi appeso a que' ferri, quasi una statua. Mancandosi da questa schiavitudine un solo momento, non mancano querele, e rimproveri, in guisa che fa di mestieri dimorar fermo tra' nodi di quella catena, che assicura a' loro scherzi, e maggiormente ravviluppa tra' loro inganni. In ogni breve lontananza abbondano al sicuro messaggieri, e biglietti, li quali tutti sono polize di cambio per esiggere alcuna cosa. Annoiano almeno con le loro vane sciocchezze in espressione d'un simulato affetto. Ho scosso finalmente il giogo, avvedutomi della indiscretezza della mia Furia, la quale mi dileggiava, mi tradiva, e mi tiranneggiava con le sue lusinghe, trastullandosi nel tempo medesmo con altri tre o quattro, non so se egualmente a me trattati. Queste date in preda alle più licenziose dissolutezze, o con alcuna intrinseca amica, o da loro stesse solazzano nelle proprie stanze; e dopo con assaporito il palato dalle dolcezze gustate si conducono a' loro amanti, con simulati vezzi facendo inghiottir loro bocconi, de' quali difficilmente smaltiscono la durezza. In somma il tutto consiste in finzioni; e se anche non fingono, altro non resta per gli uomini che compendiati tormenti, mentre fa di mestieri sostenere le punture d'un appetito che non può compiacersi. Non può ottenersi di vantaggio che d'impastare alcuni pochi gusti con le mani, ne' quali però non hanno il loro pasto li desideri, non essendo cibo di nutrimento, mentre non possono stagionarsi entro l'amorosa fornace. Non s'impronta la forma d'amoroso compiaccimento, non occorrendovi la compressione degli abbracciamenti, e l'impressione de' baci, là onde il lavoro delle mani ha solamente una non so quale superficiale apparenza di diletto. Guardimi il Cielo dall'impaccio di questi amori, posciaché quanto si condanna nelle femine sognato anche solo dalla imaginazione, che sempre compone contro d'esse tratti di biasimo, s'avvera puntualmente nelle monache. Ciò serva d'avvertimento a voi ancora: ch'io gustarò di rimuovere coll'esempio delle mie sciagure tanta vostra infelicità, come godrei che a mie spese sortiste l'incontro d'ogni desiderata contentezza, quale v'auguro; e per fine, etc.
"Se le monache - disse il Marchese - sono ad imitazione della ritiratezza delle Vestali, non disdice che procurino di tener sempre piena la lucerna, e stuzzicarvi adentro il lume, o con le dita, o con alcun'altra cosa".
"Il lume inestinguibile ch'a quelle riserbavasi - soggiunse il Cavaliere - rassembra appropriato a queste nel loro insaziabile desiderio, il quale mai non può estinguersi".
"Bisognarebbe - ripigliò il Conte -, in conformità di quelle sepelirle vive, né ciò bastarebbe (cred'io) al levare il fetore, con cui nauseano già li nostri secoli le loro impudicizie".
"Infelice quel terreno - parlò il Barone - in cui esse soggiornassero, poiché essendo sotterra depredarebbero sin dalle radici con ingorda voracità tutto ciò ch'indi potesse germogliare, o nascere".
Vollero proseguire ne' biasimi, e rimproveri dovuti alle femine ch'in professione sacra contaminano lo stato, e il luogo, quando accennò il Marchese avere maggior colpa in questi eccessi le impertinenze de' Padri, ch'a viva forza sepeliscono ne' chiostri le figliuole. Quindi esse col fuoco della loro libidine violentemente rinserrato, formano quegli scoppii, da' quali s'inorridiscono li secoli con lo scandalo, e dirocca stranamente la riputazione delle famiglie, e de' monasteri. Incolpando però queste violenze dalle quali benché provenga anche talora alcun buono effetto riesce poco durevole, lasciarono di rimproverare le donne di questo partito, le quali col solito poco senno corrompendo l'apparente bontà, divengono sfrontatamente pessime. Cessarono però d'esaggerare questa sciagura, deplorabile nelle più gloriose Cittadi, ove tal chiostro di monache è più esecrando de' publici postribuli, e degli antichi Lupanari di Roma. Fu proposta nuova lettera, e tale erane il soggetto:
[XXXIX]
Reverend[issimo] Sig[nor] mio
Qual Diavolo perseguita costà li letterati, onde mal rimeritate si scorgono le loro fatiche e interdetta la lettura delle loro composizioni? Qual'estraordinario rigore ha introdotto un severo scindicato de' libri, ove regna la dissolutezza de' costumi? L'auttorità pratticata altre fiate solo in censurare la temerità degli Eretici, che con dogmi contrari alla fede corrompessero la verità, s'abusa ora a termine di proibire li libri, o per malignità, o per ignoranza. Già si vede rimmessa questa causa, o a' Padri Giesuiti, li quali appruovano ciò solo ch'esce dalle loro penne, o ad altri men dotti, ma più invidiosi, che permettono a publica notizia le opere sole che si conformano a' loro capricci. Abbiamo gli esempi nell'Adone del Marini, e nella proposta fatta non è molto di vietare la lezzione delle istorie sacre tramutate con le parafrasi moderne dello stile Italiano, ad onta di soggetto il quale ha scritto in questa materia. Dunque un giudicio in cui devono aver parte li soli sentimenti della coscienza sarà corrotto da sensi d'animo poco ben affetto, colà ove si professa l'integrità di pensieri non meno che d'azzioni Sante? Altra non posso credere sia la cagione della severità, con cui in questi tempi si condanna un libro, quasi eretico, o empio nella corruttela de' costumi per simplici parole, non mai negate alle descrizzioni de' Poeti, o alle scritture de' profani. Con tale sentenza si puniscono le parole Fato, Deità, Destino, Paradiso, Beatitudine, e altre simili; quasi che in chi scrive, o in chi legge vacilli la vera credenza, onde possa scuotersi da questi accenti, quali rassembra si confrontino co' pareri della pazza Gentilità. A fé che non può traballare per queste minuzie la fede d'un Christiano, quando stia ferma al vedere costà conculcati li precetti di Christo, disprezzati li suoi consigli, esercitata la Simonia, e la Sodomia con qualunque altro vizio peggiore, da chi dassi a credere più d'ogni altro perfetto. Io per me stimo che ciò proceda dallo scorgere li libri moderni avvantaggiati di riputazione, onde si sepeliscono le altre freddure, con le quali in particolare d'ingegno presumono di trionfare d'ogni altro alcuni fratacci, in libri di Scolastica, o di Prediche. Scorgono benissimo, come verità palese anche a' più ciechi, qualmente li nuovi libri di belle lettere portano il vanto sopra le altre materie. Le opere di Teologia o Filosofia non aggiungono a' loro autori altra gloria che quella può acquistare il titolo di buoni Asini, abili al portare grande soma, là dove dalle intere biblioteche di libri traportano le sentenze, le opinioni, gli argomenti, tutto il contenuto in somma, non altro appunto, che un transunto de' pareri d'altri scrittori. Ne' discorsi sacri, o nell'adunanza di Concetti predicabili, non èvvi altro merito, fuori di quello può avanzare la temerità in falsificare la Bibbia, in mentire l'autorità de' Santi, in corrompere in somma con sensi stiracchiati, e con rozo stile ciò che più altamente altri ha pronunziato. Altri in somma, che forse maggiormente presumono in una affettata erudizione, mostrano di saper poco, mentre danno a vedere d'aver letto molto, in guisa che compariscono ricchi solo con pompe mendicate; e scorgesi non essere la loro virtù un fonte nascente, mentre la loro fecondità dipende da quanto somministrano rivoli maggiori. Se la perfezzione d'uomo dotto in questa forma sortisse li suoi privilegi, ne seguirebbe biasimo, o niuna lode a' primi, li quali senza rapire le altrui scritture, senza ingravidarsi delle altrui sentenze produssero parti sì ingegnosi, che ancora vivono dopo tanti secoli, che consumati dal tempo hanno pruovata la morte.
Rinuovansi le antiche glorie de' primi letterati da' moderni scrittori, mentre con la dettatura di stile lor proprio e con vivacità di spiriti somministrata dall'anima dell'intelletto stesso, che gli tramanda alla penna, formano le composizioni invidiate per la precedenza, ch'ad ogni altra sortiscono. Né di ciò può dubitarsi da chiunque sa qualmente tra gli autori furono detti mai sempre Divini li Poeti, e con titolo d'Entusiasmi, o furori inspirati dal Cielo si nominano li profluvi de' loro discorsi; non così le più sottili Questioni, overo li più eruditi ragionamenti. L'esquisitezza dello stile Toscano, pratticato in questo nostro secolo, altro non è che la Poesia medesma assolta dalla severa obligazione della Rima, e quindi ha communi gli atributi, ch'assignandole la porpora, fanno per riflesso di questa arrossire ogni altra forma di scrivere. Ecco la pietra di scandalo, in cui inciampando ogni libro de' migliori, pare che cada degnamente per supposti falsi, e per imaginati pretesti, nelle Censure Ecclesiastiche.
Li sopra intendenti costà a questo negozio, come ignoranti rimmettono la causa a' Padri Giesuiti, li quali con sopraveste di Teologo danno a credere che molto studio partorisca un buon cervello. Questi poi, come per ordinario ambiziosi, e maligni persecutori di chiunque esercita la virtù, condannano con vera invidia, benché con apparenza di zelo, quelle opere dalle quali veggono poste in disprezzo le farraggini de' loro scartafacci. Mercé che li più saggi non sono sì sciocchi, che apprezzino le parole d'un Papagallo maggiormente degli discorsi d'un uomo; o con erroneo senso si persuadano di giudicar quegli nel suo cinguettare più perfetto. Con lo stesso paragone io tratto il merito de' letterati facendo Papagalli coloro ch'altro non dicono, se non ciò che trassero da' libri, o di che furono imbevuti dagli altrui insegnamenti. Stimo uomini que' soli che scrivono quanto è loro suggerito dal proprio intelletto, né tengono bisogno di rivedere gli squarciafogli antichi, a fine di ritruovare alcuna partita, da cui s'accresca il capitale di poco sapere.
Da questo eccesso di merito, ch'acquistano li libri de' migliori, segue ancora che li Padri Dominicani, li quali hanno convertita in tirannide l'autorità posseduta nella Inquisizione, procurano col proibirgli divertirne la publica notizia. Con poca o niuna mutazione gl'imprimono poi sotto lor nome, onde con questi tesori malignamente sepolti, arricchiscono di personaggi dotti la loro Religione. Artificio è questo usato da essi, perché, come nel vivere mendicanti si mantengono con ciò che accattano, così non men poveri d'ingegno, e di dottrina, s'avvantaggiano nel credito con ciò solo ch'in tal modo essi rubbano.
Non altrimente però devono trattarsi le composizioni ch'essendo degne di singolar lode incontrarebbero particolare pregiudicio, non perseguitate dagl'invidiosi, e dagl'ignoranti. Crederemmo ghiande le gemme, quando proposte a' Porci riuscissero loro aggradite. Quel tiranno da cui solo per non avvilire il prezzo dell'argento, e dell'oro si vietò, anzi si punì l'invenzione maravigliosa di colui che rappezzava il vetro, e lo faceva trattabile al paragone di qualunque più pieghevole metallo, insegni quali siano li personaggi, e quali i fini, onde si proibiscono le opere ripiene di gloria, sì che soprabonda l'ammirazione.
Io non posso non esaggerare in tal modo, chiamando tiranniche queste proibizioni, mentre scorgo esserne fatte fondamento bastevole le parole baci, abbracciamenti, amorose contentezze, e altre simili espressioni di scambievole affetto. Aspetto d'ora in ora d'udire che venga proibita la lettura della Bibbia, dove sono frequenti e chiare le parole osculatus est eam, dormivit cum ea, coivit cum ea, e simili. Non è forse la Sacra Cantica tessuta d'amorose tenerezze, in guisa che maggiori non possono porsi in bocca d'un amante a fronte della sua Diva? Per qual causa dunque non si permettono alla descrizzione d'amori terreni que' veri, e propri termini, che usa lo Spirito Santo in senso metaforico, per dichiarazione d'amore spirituale?
Deh, che in cotesta Città si pratticano amori, ne' quali non possono intervenire li baci, e quindi vietano l'imprimere questi su' fogli, come abborriti da cotesti Grandi, li quali non ne aggradiscono l'impressione su le labra, nella fronte, o nelle guancie. Dubitano ch'in somigliante lettura si corrompano gli animi de' giovani, onde non sia loro lecito il fargli corrompere a lor voglia più indegnamente. Temono ch'in vedere rappresentate le naturali delizie dell'amore di donna, si rimuovano li giovani dal consentire a quegl'infami diletti, che soli appruovansi nella prattica. In somma io non so conoscere con qual fondamento il rigore delle censure perseguiti li termini amorosi permessi nel matrimonio, né contrari almeno alla natura in altri congiungimenti, se non per bandirne la rimembranza, e abolirne l'uso. Quindi pretendono vivi que' soli co' quali si nutre l'infamia de' loro piaceri. Proibisca Roma gli eccessi, co' quali corrompe non che li costumi la fede; o se dalla qualità del clima, o dall'abito divenuto natura, è fatto necessario il comportargli, compatiscano ancora que' libri, ne' quali fa di mestieri il lusingare il secolo con alcuni tratti vezzosi. Conchiudo in somma che un libro moderno non può nuocere a persone simplici, come superiore alla loro capacità; alle persone intelligenti non insegna cosa di male, come posteriore alla cognizione, che hanno della qualità del mondo per vivacità di spirito, che precede talvolta la prattica. Se a Vostra Signoria Reverendissima occorresse talvolta il discorrere familiarmente con alcuno porporato costà, gli manifesti questo inconveniente, con cui si discredita l'autorità del Pontefice. Fatte tanto ordinarie le proibizioni, non più s'apprezzano, e per altra parte aummentandosi il pregio de' libri, quando sono proibiti, invoglia ciascun autore di mendicare con tal mezo maggior valsente alle sue composizioni. È almeno disordine grande, in biasimo di chi si scuopre più maligno che zelante, in questa premura contro li libri, non contro li vizii. Scusi V.S. questo sfogamento necessitato dalla impertinenza degl'Inquisitori, li quali non più lasciano che scrivere, o che leggere a' letterati. Intenderei volentieri con quali pretesti coonestino cotesti Signori simile tirannide. Se ne otterrò la grazia moltiplicarà l'obligazione, contratta già per la toleranza con cui avrà V.S. letta la presente, alla quale però imponendo fine bacio a V.S. le mani.
"Chi scrive - disse il Marchese - ha dimenticato l'uso di proibire li libri, pratticato anche da' Principi ne' loro stati, quando contiene alcun particolare non descritto a loro grado".
"Questo - soggiunse il Conte - è costume appreso da' Pontefici, e pratticato da' Grandi, li quali non vogliono che si dica la verità, quando massime scuopresi in essa alcun loro mancamento".
"Quindi è - ripigliò il Cavaliere - che più d'ogni altro fanno instanze per la proibizione di libri aspettanti a gl'interessi presenti li Spagnuoli; come che le loro azzioni, ripiene maggiormente di crudeltà, e d'ingiustizie, in qualunque carattere incontrano un rimprovero".
"Eglino - parlò il Barone - sono doppiamente interessati nell'odio di tali scritture, sì per la ragione ordinaria del vedere scoperte le loro ignominie, sì per particolare pregiudicio, mentre vedono dichiarate false quelle relazioni, o quelle scritture, ch'essi publicano con grande apparato di menzogne, per ingannare gli aderenti, e accalorare il proprio partito".
"È tanto facile - ridisse il Conte - il contradire a ciò che gli Spagnuoli publicano con affettate bugie, che li più ignoranti ancora in questi tempi s'ingeriscono in publicare scartafacci in loro scorno, e in far apparire, o la falsità de' loro assiomi, o la empietà delle loro massime".
"Non concorriamo dunque noi ancora - conchiuse il Marchese - con questi merloti, li quali dando di becco nelle azzioni de' Spagnuoli credono di far gran pruove, né s'avveggono d'esser conosciuti quasi Corvi, che si trattengono sopra Cadaveri fetenti, e abominevoli, ne' quali è morta la riputazione, e la gloria". In conformità di questo suo sentimento aprì altra lettera, in cui così era scritto:
[XL]
Molto Rever[endo] Sign[ore].
Ho appagata la mia curiosità ne' libri moderni inviatimi da V.S., ma con mia poca sodisfazzione. Ritruovo molto che osservare in essi, ma nulla di buono. Il nostro secolo dovrà dolersi degli scrittori, che pretendono d'onorarlo con composizioni, le quali da' posteri, quando non siano più ignoranti di chi ora vive, saranno schernite, e vilipese. Sono due li punti principali, tra' quali si ristringeranno li biasimi communi. L'uno è l'ingerirsi in trattati degl'interessi de' Principi d'alcun Frataccio, il quale sa solo che cosa sia cucina, né tiene altra notizia di ragione di stato che dell'Ius de' cuochi. L'altro è la corruzzione della lingua Toscana, mentre ciascuno ne fa pompa nello scrivere, e nella prattica ne riesce nemico. Li barbarismi, le improprietadi, li errori distemperano talmente con varia dettatura e con ortografia volubile questa favella, che temo debba farsi barbaro un sì perfetto linguaggio. Universalmente non può esprimersi da queste opere alcuna sostanza, onde questo secolo de' letterati può chiamarsi la età delle frascherie. Credo che la sferza degl'ingegni sarà usata dalla posterità, per punire gli scritti de' viventi ora. Ma chi l'ha composta sarà qual altro Perille fabricatore del Bue di bronzo, pruovando egli prima il flagello, frustrato conforme il suo merito. Ben è vero che avvezzo a queste battute, come a' colpi di pistolese, e di bastone, non pruovarà forse patimento, né si curarà d'ignominie fatte già suo patrimonio. Oltre che fatto boia in atto di sferzare gli altri, non può discapitare di riputazione, anche ottenendo un capestro. Non sarà preservato quel Marchese imaginario uscito nuovamente alla luce, il quale credo che chimerizi in se stesso dottrina, come finge l'onore de' titoli. Egli ha preparato grande antidoto per riserbare all'immortalità li suoi scritti, ma il veleno della sua ignoranza è troppo vigoroso, onde gli ha uccisi, quasi prima della nascita. Egli ha moltiplicati da se stesso testimoni, che appruovino la sua virtù, e componendo medicamento di mummia, col servirsi d'autore morto già dieci anni, ha pensato di sanare il suo male, e darsi a credere buon intelletto. Ma le lettere medesme d'attestazione, essendo quasi maggiori del libro, dimostrano che l'autore ha più superbia, che cervello. La sua dottrina deve credersi di quella razza che s'impronta con lettere, mentre ne sono segnate le sue composizioni, o serviranno forse ad accreditarla, come le scatole degli speziali. Non posso saziarmi di schernire la spropositata affettazione di costui, in guisa che scorgendo il nuovo titolo di Marchese, dommi a credere che la Pazzia l'abbia investito d'alcun suo feudo. Communque ciò sia lo compatisco, quasi frenetico, e disperato nella infermità di poco sapere. Condanno il poco giudicio degli altri, che dimostrando la vivacità del loro spirito, non l'esercitano poscia come conviene. Ammiro l'ardimento di molti anche tra' migliori, li quali non sanno come si parli, e vogliono scrivere; non capiscono l'ortografia delle lettere, e presumono d'esser eccellenti ne' dogmi del comporre. Corregga la loro ignoranza particolare influsso di Nume letterario, e suggerisca giudicio per fargli risolvere di non scrivere, o scrivendo di moderare così frequenti errori di lingua, insopportabili a chi ha senso nel vedere inselvatichito il nostro idioma, da chi maggiormente lo coltiva con lavoro degl'ingegni. Tanto conceda il Cielo al nostro secolo, e a me fortuna di servire a V.S. alla quale m'offro per fine.
"Chi scrive - disse il Conte - sarà per certo un Cruscante, che nelle osservazioni della lingua esercita la solita professione della Critica".
"Nello stesso lor nome - seguì il Marchese - mostrano la condizione del proprio essercizio, mentre nello scrutinio delle belle lettere riserbansi la crusca, forse perché d'essa si forma delizioso pasto a' porci".
"Ammiro - soggiunse il Barone - il lor capriccio di voler imporre legge al mondo con la scelta delle loro parole tratte da' più rozi abitatori delle montagne, quasi ne debbano convenire li discorsi de' villani con le composizioni de' letterati".
"Stupisco assai più - ripigliò il Cavaliere - dell'antipatia di costoro con l'h e della parzialità col z, in queste due lettere principalmente consistendo il rigore, e la puntualità della loro dottrina".
"Non è maraviglia - replicò il Conte - stando che il z è necessario al comporre il loro nome, sia come pazzi, o come visi di cazzo. Odiano poi l'h per l'odio che portano al nome di Christo, tolto quando si levi l'h mentre sarà poco diverso da crista, e cristiero, soggetti che tendono dove essi inclinano".
"Siasi del z come si voglia, io gli scuso - disse il Marchese - nel particolare dell'h, poiché piace loro ciò che sta su'l necessario, e quindi in conformità della natura abboriscono il superfluo, quale è questa aspirazione".
"Sète buon cane da usma per questi luoghi, o Marchese - conchiuse il Cavaliere -, onde avete dato di naso nel vero punto, e ritruovata la ragione della loro stravaganza". In questo dire apriva già altra lettera, onde subito così lesse:
[XLI]
Rever[endissimo] Sig[nor] mio.
Grande bisbiglio è stato a' giorni adietro in questa nostra Città per l'avviso venuto che S. Santità abbia levate diciotto feste. Chi diceva che il Papa aveva proibiti li Santi, chi aggiungeva che gli aveva banditi; chi in somma in un modo, e chi nell'altro descriveva scioccamente questa novità. Se avessero detto ch'egli aveva bandita la Santità, ciò non fora stata cosa nuova, perché non altrimente ritruovasi esule da Roma la virtù, e ogni uomo da bene per li di lui costumi, e per lo tirannico governo de' Nipoti. Ma il dire d'avere esiliati li Santi, è un mostrarlo sì temerario, che abbia voluto porre la sua autorità in Paradiso. Questi sono stati concetti di persone simplici, le quali però al di più delle volte, mentre parlano innocentemente, discorrono con verità. E dall'avere posto in scompiglio tutto il mondo coll'ingerirsi per tutto altro non può credersi, se non che debba cagionare confusione anche in Cielo. Chi ha intrapreso di travagliare tutti i Principi d'Europa, eccettuati li nemici della fede, può giustamente stimarsi ora rivolto ad intorbidare la gloria de' Santi. Se li nepoti fossero ansiosi di Beatitudine, come sono avari d'oro, potrebbe credersi che usurpasse la gloria a' Santi, per appropriarla ad essi, come già sono loro applicate tutte quasi le rendite della Chiesa. A tal fine è sì longamente prorogata la vacanza di tanti Cardinali, e con tal interesse forse d'una tirannica autorità, se non d'ingorda avarizia, pretende di trattare anche li Santi. O forse presume di scacciar questi dal Paradiso, per vuotare luogo a se stesso, e a' suoi, poiché colà su non saravvi stanza per essi. Così è stata variamente interpretata la proibizione di queste feste, osservata nel numero di diciotto, eguale a gli anni del Pontificato di S. Santità. Concetizano sopra di questo gli speculativi, come se in ciascun anno del suo dominio abbia discapitato la Chiesa, quanto deve stimarsi la perdita d'un Santo. Diciotto Santi sono aboliti dal Catalogo, perché in diciotto anni è decaduta diciotto gradi la Chiesa nel continuo mancamento della virtù, ne' mali esempi d'un zelo tutto passione, e interesse, nel fomento in somma di schisma per la rivoluzione di tutta la Christianità. Mancano tanti giorni di solennità, quanti anni egli ha dominato, perché si mutano in giorni di pianto, e se più longamente ei vive, si cangiaranno in secoli di miserie. Diminuisce ragionevolmente le feste chi moltiplica le occasioni di gemere, non di gioire, e se egli tosto non muore, credesi che sia per mancare ogni solennità, a fine di riserbarsi più pomposa al celebrare li suoi funerali. Con somiglianti sentimenti è stata confusa questa nuova, di modo che io stesso non so distintamente assicurarmi che cosa sia, e quale sia l'intenzione di S. Santità. M'avvisi Vostra Signoria Reverendissima con reale schietezza, ch'io a tanto onore professarommi obligatissimo, quale appunto me le dedico; e per fine, etc.
"Quanto è deplorabile - disse il Barone - la condizione de' Grandi, li quali soggiacciono alla malignità de' maldicenti, che con ogni peggiore strapazzo conculcano la loro Maestà. Ha il Pontefice levate queste feste, a proffitto de' poveri artigiani, accioché men di rado distratti dal lavoro, non abbiano così frequenti le perdite del guadagno, con cui si mantengono. Ecco una azzione diretta a publico giovamento, come empiamente viene scindicata!".
"Pretende forse S. Santità - soggiunse il Cavaliere - d'aggravare li sudditi di contribuzioni, onde procura li loro vantaggi. Ma per giovar a' poveri, non doveva levare le feste, ma levare li tesori superflui a' nipoti, rapiti dal publico Erario della Chiesa, e dispensargli in loro sovvenimento".
"Orsù - ripigliò il Conte -, voi ancora annoverarvi volete tra quegli empi, che biasimano chi deve adorarsi. Riserba li tesori della Chiesa appresso li nepoti, quasi in deposito, per impiegarli in aggrandimento di lei, e in occorrenza di rilievo".
"Forse nella conquista del Regno di Napoli - parlò il Marchese -, come rassembrava publicato da falsa voce. Eh, questo nostro Pontefice non ha tanto spirito, e ama troppo l'oro per non gettarlo, ancorché con speranze maggiori. Basta bene ch'in sì longo Pontificato lasci memoria di grandi imprese nella riforma del Breviario, e nel degradare la solennità di questi Santi".
"Concertate sì bene - ripigliò il Barone - con chi ha scritta la lettera, che quasi caderei io ancora in questa consonanza, se non dubitassi di peccare gravemente in questa mormorazione, poiché io tasteggiare più altamente, e toccarci altre corde più sonore de' biasimi di questo Papa, trascurando le bagatelle quali s'accennano da voi, soggeti solo da Pasquinate scherzose. Volgiamoci in grazia ad altra materia, ch'altrimente su questo libro sarei sforzato di cantare anch'io note d'ignominia".
Ciò dicendo aprì altra lettera, con la curiosità di cui rapita l'attenzione de' compagni, gli distrasse dall'altra. Così era scritto:
[XLII]
Carissimo Amico.
Lo studio mi traportò l'altr'ieri al leggere l'opinione de' Pitagorici in materia della transmigrazione delle anime. Non puotei non ammirare la stolidità di que' saggi, che la fondarono, e insieme non piangere la misera condizione de' nostri secoli. In questi abbiamo la tramutazione d'uomini in bestie ordinaria, e ad uso corrente, là dove in tempo di que' Filosofi bisognò quasi sognarla per passaggio. Da quelli fu similmente assegnata per castigo della felicità, anche de' più grandi. Già vedesi traportata la umanità quasi universalmente in azzioni brutali, là dove non può che giudicarsi pratticato l'inserto delle anime umane in corpi di belve. Questo sia detto per una non so quale similitudine in rimprovero di chi opera male, e sepelisce il lume della ragione col vivere tra le tenebre de' vizi a suo capriccio. Guai a questa nostra etade, se avverandosi il sentimento di que' Filosofi, conforme il demerito o il merito dell'uomo, dovesse succedere il transito in animali di nobile, o d'ignobile specie.
M'assicuro ben sì che scorgerebbonsi solamente cimici, pulici, pidocchi, tavani, e altre bestie d'infimo grado, e il porco fora il più nobile, a cui si participasse questa transmigrazione. Altrimente né Aquile, né Leoni, né Cavalli, né altre belve, le quali hanno non so che di generoso, e di grande, non pregiudicarebbero alla propria perfezzione con ricettare li viventi d'ora. Li Principi per certo non rinunziarebbero le cimici, e le pulici, per continuare di suggere l'altrui sangue, e dissipare le umane sostanze, unico impiego della loro potenza. Se ne pavoneggiarebbero anzi, apprezzando quasi felicità il non esser obligati al deporre con la vita la porpora, che tanto ambiscono; mentre in questi animali potrebbero ancora ritenerla, quasi sopraveste della loro fierezza. Li Cardinali massime stimarebbero di non decader punto, restando sotto coperta d'un cimice, né scorgerebbesi differenza per l'abito, come pure sarebbe egualità nel fetore, con cui ammorba la putredine del loro vizioso temperamento. Li Grandi, che servono nelle Corti, e amministrano li governi, imitando il principale regnante nello svenare li sudditi, ma con minore temerità non gloriandosi della fierezza in esterne pompe, passarebbero ad animare pedocchi, ch'insidiano particolarmente alla gola, e hanno sempre agguzzo il dente per mordere. Li giudici divverrebbero sanguisughe mentre nell'atto di purgare li colpevoli veggonsi ripieni di maligni umori, o per la corruzzione del giudicio, o per la copia delle altre particolari sceleratezze, onde finalmente fa di mestieri che scoppino. A gli Avvocati converrebbe il farsi tavani, come che sono indiscreti, e insaziabili in succhiare il sangue di quegli stolidi, li quali si fermano scopo alla loro vorace impertinenza. A' medici dovrebbesi in questa transmigrazione il corpo de' scarafaggi, che vanno formando ballotte in somiglianza delle loro pillole; e se ben hanno le ale, in pompa del loro vano sapere, non sanno rintracciarsi altro più degno posto che lo sterco, nauseando la rosa che loro è mortale, sì come a quelli riesce odioso il bene d'altri, per essere nocivo al loro interesse. Mai non finirei, se ad ogni grado di persone assegnar volessi la sua bestia, imitata ne' costumi, poiché rassembrarei un Orfeo in trarre tutti gli uomini, e tutte le belve, a fine di fare tra loro aggiustato parallelo. Da' personaggi più riguardevoli accennati, a' quali pare dovuto il seggio delle fiere più nobili, congietturisi di quali specie si popolarebbe il mondo nella transmigrazione delle anime degl'inferiori, che non solo per la licenza del vivere dissoluto, ma ancora per la sciocchezza, e balordaggine particolare, non sanno che cosa sia l'essere ragionevole, né l'avere discorso. Anche li più dotti della nostra età, li quali in materia di giudicio rassembrano privilegiati di merito, avrebbero gran vantaggio se passassero sotto sembianze di grilli, che con alcun salto mostrano d'essere qualche cosa, e cantando su'l tre, publicano fatti più vantatori che saggi della propria perfezzione, la quale consiste nel numero ternario. Lascio quelli che vedrebbero inserte le loro penne in ale d'Occa, mentre fastosamente le allargano, quasi che presumono un alto volo; e pure non possono sollevarsi da terra, non dotati d'altro che d'un noioso gracchiare. Da' musici riempirebbesi il mondo di que' mosconi, li quali con molesto sussurro si rendono maggiormente odiosi, e hanno questa qualità di più, di offendere tutti li sensi, e non lasciare all'udito né meno il riposo, già che questo tormentarsi non può dalle loro immondezze, e dalla molesta importunità; non altrimente essendo li Musici per ogni capo abominevoli.
Questi sono concetti imaginarii, occasionati da questa transmigrazione d'anime; ma per discorrerne più fondamente, io aggiungo con pace della fede Christiana che ritruovasi avverata questa opinione de' Pitagorici. Se mi è addimandato il quando, dirò quando alcuni passano allo stato Religioso, facendosi Preti, o Frati: poiché se vero è che muorono al mondo, mentre pure continuano in vivere nel mondo, deve dirsi che sono morti quali erano sotto umane sembianze, ma che vive la stessa anima sotto altra forma. Ed ecco la transmigrazione appruovata dalla Chiesa. Che poi passi l'anima ad un corpo di bestia, guardinsi li Religiosi, e non saravvi punto di dubbio. Lasciamo che secondo il detto di Davide eglino siano Asini senza discrezione, e senza termine, lasciamo che siano quasi bovi ignoranti, ne' quali il più che s'ammiri è il mugito nel coro, o su pergami; lasciamo che siano porci, dati solo alla crapula, e che s'ingrassano solo di minestre, e di broda; il peggio è che appariscono con paragone de' più licenziosi bruti, delle più sfrenate belve, o delle più spietate fiere. Ove regnano principalmente le bruttezze della nefanda lassivia, li morsi d'una feroce invidia, li sbrani de' più maligni tradimenti, meglio che negli chiostri? Questi possono dirsi li serragli dove tiene Iddio le fiere più monstruose in questo gran palaggio del mondo, come li altri luoghi delle più ben regolate adunanze di Religiosi possono dirsi le sue stalle. Dove dominano li Preti, o hanno giurisdizzione gli Ecclesiastici ben appare questa verità, poiché concepirsi non possono Lupi più ingordi, Tigri più crudeli, animali più irragionevoli di coloro che non hanno mira ad altro che a rapire, o a svenare. Non sarà dunque ben fondato il mio parere, che questa mutazione di stato sia la transmigrazione Pitagorica delle anime? Scusatemi, o amico, del tedio di questa lezzione, che per essere in proposita materia non è spropositata, e perché contiene veritadi non è necessitosa d'altre pruove. Lasciarò d'infastidirvi maggiormente con affettate ceremonie. Assicuratevi che sono tutto vostro, e vogliatemi bene.
"Disegnavo quasi - disse il Marchese - d'interrogare qual bestia riserbasse a sé chi ha scritto, per la sua transmigrazione. Ma parmi ch'egli discorra sì fondatamente che sia ingiustizia il condannarlo tra' bruti irragionevoli".
"Ciò dite forse - parlò il Conte - perché con tanto giudicio egli tratta li Frati, e Preti secondo il loro merito? E chi non descriverebbe li loro publici vituperi, mentre bastano al ridirgli anche gl'insensati?".
"E pure - ripigliò il Cavaliere - s'esercitano li Religiosi nelle sceleratezze più secrete, come nella Sodomia, ne' furti ammantati d'altri pretesti, e nella malignità de' tradimenti, là dove non dovrebbero essere tanto palesi le loro ignominie". "Aderite voi forse ancora ad essi - soggiunse il Barone - non credendo nella dottrina di Christo il quale disse Nihil occultum quod non reveletur, là dove vanamente confidano di tenere celata la moltiplicità de' loro nefandi eccessi?".
"La frequente conversazione degenera in disprezzo - replicò il Conte -, là dove non è maraviglia se addomesticandosi le persone sacre con Christo, abitando in casa sua, e maneggiandolo ne' Sacramenti, convertono la Religione in strapazzo".
"Quindi è - conchiuse il Marchese - che li Padri Giesuiti, li quali hanno voluto addomesticarselo anche nel nome, sono peggiori degli altri, e rendono opprobrioso il nome, e insieme gl'insegnamenti".
Mentre così discorrevasi, aperta aveva il Cavaliere nuova lettera, e fuori dell'ordinario affissava gli occhi nella sottoscrizzione, la quale era di Ferrante Palavicino. "Parmi - disse - che la mente mi rappresenti chi sia costui, non solo nel cognome della famiglia, nota in queste parti, ma ancora nello stesso nome".
"A proposito di Frati, e Preti scelerati - soggiunse il Marchese - capita a tempo questo soggetto, poiché imita li peggiori con le sue dissolutezze".
"Egli s'annovera tra' letterati - parlò il Conte -, non può però non essere vizioso".
"Presume ben sì - replicò l'altro - d'essere virtuoso, forse per dare questa licenza a' suoi costumi, ma la presunzione è temeraria, ed è falsa la fama".
"Qual notizia avete di questo soggetto?", interrogò gli altri due il Barone.
"E chi èvvi - rispose il Conte - che sappia leggere e non lo conosca, mentre ha già quasi riempite le Biblioteche di sue opere, e va consumando tutte le stampe sempre con nuovi libri?".
"Sarà facile - ripigliò il Cavaliere - conchiudere di qual valsente siano, mentre con la moltiplicità ne dimostra il pregio, non mai essendo riguardevole ciò ch'è copioso".
"Il maggior credito - disse il Marchese - che abbiano le opere di questo autore è l'essere mal vedute, anzi bandite in Roma, dove in tutti li particolari si perseguitano mai sempre li migliori".
"E da quello - soggiunse il Conte - deve ciò aggradirsi, come che egli si pavoneggia d'ogni gloria indegnamente acquistata".
"Altro avanzo non può pretendere - replicò il Cavaliere - con un ingegno servile, e con una virtù mendica, sempre più miserabile, quanto più ne disperge il povero talento; ma vediamo che cosa ei scriva". In conformità di ciò così lesse:
[XLIII]
Illustrissimo Signor Fratello.
Con molto mio disgusto intendo le querele presentate a V.S. per parte non solo di S.A. ma della Città Piacenza, contro il mio libro de' successi del mondo dell'anno 1636. Ho maledetta mille volte l'ora nella quale determinai di comporlo, a compiaccimento di chi me ne pregò. Ho sempre supposto d'avere in questa opera minor gloria, che nelle altre, ma non ne aspettai già maggiori disturbi; né mi diedi a credere che l'avanzo dovesse essere le mormorazioni di tanti, e lo sdegno del mio Principe. Opposi però uno scudo contro questi colpi, che già mi presagiva l'animo, nella lettera a' Lettori, che stampai a capo del libro medesmo. Se per mia disgrazia questa non si trascurasse da chi legge, non sarei in necessità di prendermi briga ad ogni ora per nuova difesa, e di ripetere ciò ch'in essa ho scritto. Protestai d'essere traduttore, non scrittore, sì che non avendo avuta altra obligazione che d'imitare l'originale, cioè gli annali latini stampati in Francfort sotto titolo di Mercurii Gallobelgici etc., non è mio debito il difendere ciò che colà è stampato. A chi mi dice ch'io delle cose d'Italia dovevo prendere informazione particolare per ruggire le falsitadi, rispondo che a chi fa copia d'un ritratto, o d'una scrittura, non lice traviare dall'esemplare, permessa quella sola diversità, che può cagionare il colorire del pennello, o lo scrivere della penna, non il concerto della Idea, o l'operare dell'ingegno. Non professai d'esser istoriografo per me solo, che allora con la considerazione a singolar debito, avrei procurato d'impiegarmi conforme conviene. Ho ben sì moderati que' sensi di poca stima co' quali l'altro auttore trattava il Signor Duca, prendendomi tale libertà per la riverenza che gli professo. Né stimai che fosse biasimo un atto di prudenza, quale fora stato il ritirarsi in luogo sicuro supposto il pericolo della sollevazione della plebe.
Dovevo supporlo, così rappresentandomi l'istoria; non avendo certezza in contrario, né essendo mio obligo il pervertire quella composizione, che dovevo tradurre. Né si dolgano di ciò tanto gravemente li Signori Piacentini, poiché nelle sollevazioni non si descrive la infedeltà de' Cavalieri, ma la volubilità della plebe interessata nel bene privato, là onde vedendo mancare ciò che serve al solito lusso, non che alla necessità, si rivolge sconsiderata al ricercare il suo commodo. Non s'è veduta la plebe di Milano a' nostri tempi congiurata contro il Governatore, solo per non avere a suo modo la desiderata abbondanza del pane? Non però si chiama Città infedele Milano, constante pur troppo nel conservarsi divota alla indiscretezza Spagnuola, ancorché travagliata, e sollecitata altrimente dagli esempi d'altri Regni, e Provincie, che scuotono il giogo per esser quegli insopportabile.
Se similmente nella plebe di Piacenza, avvezza a vivere agiatamente per la fertilità del paese, la penuria, qualunque fosse, portata dall'assedio, avesse partorita alcuna rivoluzione, non perciò a' nobili fora seguito disonore, e all'universale della Città composto di questi, cattiva fama. S.A. similmente fuggendo il pericolo, ancorché solo imaginato, non prende alcun titolo, che servir possa di pretesto per condannarlo, o come timido, o come poco amato da' popoli. Il volgo ne' suoi furori non ha discorso, e non riconosce legge; là dove, come è poco prudente quel Principe che tutto a lui s'affida, così è temerario, se pretende di contrastare l'improvisa mossa di sregolata ferocia.
Non mi fermo sopra gli altri errori di nomi falsi, o di racconti non veri, poiché rimando li miei accusatori all'originale, replicando ch'il mio libro è copia, là dove convenivami il ritrarre anche li nei. E poi somiglianti falli non sono insoliti anche nelle più stimate istorie, mentre o le informazioni appassionate, o la Cosmografia variata li producono frequenti. Oltre che talvolta sarà descritta la verità, e pure chi legge, o parziale del suo senso, o altrimente impresso, la crede menzogna. Siasi ciò come si voglia, in questo non mi prendo punto di briga, poiché come traduttore sono esente dal cercare o la verità, o la puntualità de' nomi.
Mi occorre però d'osservare la ignoranza di chi mi biasima, mentre mi tacciano che avendo io scritto ciò che pare sia poco a favore del Duca, non abbia riferito ciò che seguì in suo vantaggio nel mese di Gennaio dell'anno 1637. Sono dunque tanto sciocchi costoro che non vedano il libro intitolato successi del 1636? Come dunque pretendono d'astringermi al continuare gli accidenti dell'anno che succedette, in cui non mi sono ingerito? Ho preteso di dar saggi d'uno stile isterico non sprezzabile, a fine di persuadere li Principi al darmi commodità di comporre più regolatamente, e fondatamente istorie. Se ciò fosse seguito, supposto che li Principi del nostro secolo avessero ogni pensiero, fuori che quello di promuovere li virtuosi, e li letterati, forano stati compiacciuti questi balordi; e m'avrebbero scuoperto tanto più copioso nel descrivere le glorie del mio Padrone, quanto più ristrettamente ne ho circonscritta la poca fortuna. Vengano pur dunque le invettive che V.S. minaccia, preparatemi contro da' grandi ingegni di costà. Saprò ben io ribattere li colpi, e forse li pungerò io sì al vivo, che non avranno spirito per più risentirsi. Questo è quanto m'occorre in risposta della sua, per sincerare li sospetti della mia poca affezzione verso S.A. Resto quivi suo al solito, e per fine le bacio le mani.
"Chi è facile al peccare - disse il Conte - è sempre pronto nelle scuse. Quindi questo autore, anche ne' suoi libri è prodigo di proteste e di discolpe".
"Non però basta - soggiunse il Marchese - a smaltire la quantità de' suoi mancamenti, poiché la moltitudine di questi, e nella lingua, e nello stile, e nel modo di comporre, non può sortire lo spaccio anche sotto quel manto che gli ricuopre".
"Lasciamolo in grazia - conchiuse il Cavaliere - nella sua pace, essendo egli pur troppo angustiato dalla necessità d'esimersi da tanti maldicenti, a' quali non può celare le sue vergogne; e molto maggiormente dall'obligo di sincerarsi appresso un Principe che difficilmente lascia l'impressione di sinistro concetto".
Aveva già altra lettera nelle mani il Barone, onde leggendola propose altra materia. Così diceva:
[XLIV]
Molto Illustre Signor mio.[XLIV] È molto tempo ch'io manco di tributo di lettere, ch'ero solito di presentare sovente a V.S. in segno del mio affetto, e per desiderio ch'in lei non cessi la memoria d'un suo parziale servitore. La tardanza dello scrivere, avrà cagionato la moltiplicità delle offerte, ch'io ora raddoppio, mentre le mando l'avviso d'una novità qui succeduta, oltre li testimoni della nostra incorrotta amicizia. Per un cancaro venuto ad un virtuoso, stante li molti malanni che piovono in questi secoli, inviò Appollo il suo cirugico. Visitò questi l'infermo, e ritruovò che il male aveva corrosa la carne fin all'osso, essendo così malamente trattati da' Grandi de' nostri tempi questi che hanno maggiore merito, là onde con una miserabile nudità hanno scoperte le stesse viscere. Disse non esservi altro rimedio, che il riempire l'apertura della piaga con carne d'ignoranti, perché essendo buon lenitivo il grasso di porco, non sonvi porci maggiori degl'ignoranti, ingrassati da' Principi, da' quali sono alimentati con ogni maggiore delicatezza.
Oltre che potrebbe solo giovarsi a gli virtuosi col maccello di questi, come che la ignoranza è la sola cagione delle loro ruine. Li grandi, sciocchi e balordi, non possono amare se non chi gli rassomiglia. Accolgono nel seno quelli che sono loro conformi di qualitadi, e questi per non esserne scacciati perseguitano gli riguardevoli; e si osservi quanti Filosofi, o quanti letterati fomenti la grandezza de' regnanti. Se havvi alcuno, che gli trattenga, scorgeransi al sicuro fatti ludibrio anche de' più vili; in paraggio almeno di adulatori, e di buffoni sono sforzati di lagrimare la inferiorità della propria condizione. Avrà taluno de' più Grandi una turma di Musici, che è lo stesso che una adunanza di scelerati, li quali hanno maniere di Diavoli, quanto più Angeliche le voci, e costumi; tanto più degni d'inferno, quanto più dolcemente raffigurano concerti di Paradiso. Rimirasi uno stuolo di Nani, o Pigmei, degnamente introdotti ad accimentarsi scherzosamente con la Maestà de' Grandi, per rinnovare il loro antico combattimento con le ocche. Vedesi una schiera di pazzi, oltre quelli che nel volontario corteggio sono tali, ancorché sia loro necessario l'accreditarsi come saggi. E pure chi alimenta così numerosa canaglia per semplice pompa di lusso apparente, rassembra mendico, per fomentare le glorie d'un virtuoso. Per questo sono vuoti li erari, impoveriti li tesori; là dove per mantenimento di tante bestie rassembrano inesausti. La miseria dunque de' letterati, onde si trasportano sin al languire famelici, è il solo cancaro che gli affligge, e l'apertura della piaga sin a scuoperta dell'osso, è la bocca spalancata, che mostra li denti e chiede sollievo per guarire la fame. Così diffinì il chirurgo, soggiungendo che in Parnaso aveva sua Maestà introdotta una nuova beccaria d'ignoranti, accioché con le loro sostanze fosse proveduto di cibo a' virtuosi. Quindi aggiunse succederne, che per lo rigore di questo ordine ch'inviolabilmente doveva osservarsi, vedeansi nuovamente tanti ignoranti ammantarsi col titolo di virtuosi, a fine di fuggire il maccello. Sempre sortiscono alcuni di nuovo, li quali componendo quattro fogli, e presumendo la imitazione de' moderni scrittori, fansi una sopraveste di letterato per scansare il pericolo. Erano però in peggior termine li veri virtuosi, poiché li Principi, li quali dilettansi sempre maggiormente di finzioni, e d'inganni, esentavansi da' meritati rimproveri col favorire alcuno di questi finti; la beccaria per altra parte restava vuota, scemandosi gl'ignoranti, e moltiplicando gli affamati. Erasi però consultato di consegnare la porta di Parnaso a chi con diligente inequisizione potesse chiarirsi della verità, spogliando chiunque entrava, a fine d'assicurarsi qual fosse il vestimento ch'immascherava, o quale l'abito di vera virtù. Udiva questi discorsi un buono scrittore moderno, venuto per consolare il paziente, o per dare adito al vicendevole sfogamento delle loro passioni. Impallidì, tremò, e quasi istupidì, all'udire che doveano spogliarsi li pretendenti l'ingresso in Parnaso. "Non v'affliggete - dissegli il Chirurgo - credendo forse che colà s'usi la tirannide pratticata da' Grandi, sì che lo spogliarvi sia per rubbare le vesti, e per aggiungere a gli altri mali anche la nudità. Chi non mentirà le apparenze, sarà gloriosamente rimeritato, e chi comparirà con veste non propria, sarà scorticato per lo maccello". A questo conforto non si riebbe punto l'angustiato, onde si credette ch'egli pure uno fosse tra quelli, che con bugiardo manto temesse l'esecuzione della sentenza. Il nome però della sua fama, e la fama delle sue opere persuadevano il contrario. Continuarono le consolazioni, quando quegli finalmente prendendo respiro, posto tra timore e vergogna: "Sono tutto ulcere - disse - là dove m'arrossisco di scorgermi nudo in quell'atrio magnifico, dove non veggonsi che fregi pomposi". "Ciò non vi turbi, o figliuolo - replicò il Chirurgo -, poiché li patimenti de' virtuosi sono conosciuti, e compassionati colà, predominandovi la ragione del merito". "Anzi - ripigliò quegli - perché io non mi sono trattato come virtuoso ho queste piaghe, le quali però dubito che non vengano compatite". Non sapeva l'altro qual giudicio formare sopra questa sua risposta, mentre s'assicurava esser quello un buon virtuoso, e pure vedealo dolente d'essere in male stato, per non essersi portato da virtuoso. Con gentili prommesse di risanare ogni sua piaga, qualunque ella si fosse, l'indusse, benché difficilmente, al manifestare il suo male. Necessitato quasi da tante instanze, e anche dal desiderio di fuggire maggiore vergogna, scuoprì due Maestose pannocchie, e il membro, ch'in un grande invoglio di fascio aveva un sacco di taruoli, porrifighi, e altre galanterie, soliti regali delle femine. "Sono effetti d'umana fragilità questi - disse il Chirurgo -, come reliquie non digerite di que' bocconi, che troppo ingordamente tranguggia un appetito giovenile. Sono però commiserati, ovunque è giudicio e discrezzione". "Eh - disse l'altro -, so ben io di non meritare totalmente pietà, essendo degno di castigo, come colpevole nell'aver traviato dalla strada ordinaria de' virtuosi in cercare diletti. Se conforme l'uso di questi io mi fossi compiacciuto d'un ragazzo, non avrei questi mali, che mi seguono dall'essermi trastullato con una donna. Ciò mi fa arrossire, l'avere cioè trasgredite le regole de' saggi, li quali come hanno privilegiate qualitadi in ogni parte, così non devono partirsi da' loro particolari gusti". Mosse a riso la simplicità di questo buon uomo, onde io subito pensai di darne ragguaglio a V.S., accioché mentre si diletta di virtù, sappia similmente quali esser debbano le sue delizie, per fuggire la occasione d'aver oltre il male anche lo scherno. Me le ricordo affezzionatissimo al solito, e per fine le bacio le mani.
"Chi attende a belle lettere - disse il Barone - impari, se pure già la prattica non ha precorsi questi insegnamenti".
"La più bella lettera dell'alfabetto - soggiunse il Marchese - è l'o, se è vero che la figura circolare è la più perfetta; non è però maraviglia che tanto aggradisca a' professori di belle lettere".
"Entro questa circonferenza - parlò il Conte - ritruova il centro della perfezzione chi prattica il più perfetto vivere, o le più perfette scienze".
"Mi stupisco però - conchiuse il Cavaliere - di chi condanna l'uso della Sodomia in Roma, ne' padri Giesuiti, e universalmente in tutti gli Ecclesiastici, o dotti; mentre pure si sa che questi personaggi sono maggiormente obligati a vantaggiosa perfezzione. Quindi nello studio di tal arte compiscono questo lor debito".
"Mi rassembrate, o Signori - ridisse loro il Barone -, tante mosche d'oro, che v'aggirate con pomposo susurro di ragionamenti di perfezzione, e di circoli, e poi finalmente riposate su lo sterco. Deh, partiamo in grazia". Aggiustatamente al suo consiglio principiò la lettura d'altra carta, in cui così era scritto:
[XLV]
Molto Illustre Signore.
Non posso non esaggerare con V. Signoria una stravaganza, quale osservo tra le maggiori che si veggono nel mondo, la principale. Questa è l'uso, non so da chi introdotto di pagare le puttane con tanto pregiudicio dell'uomo, e della superiorità del sesso maschile, obligato al pagare ciò che la femina, come soggetta, ha debito di donare a nostro compiaccimento. E a qual fine è fatta la donna, se non per servire a' nostri piaceri, e sottoporcisi, quando nella lotta amorosa vogliamo prenderla alle strette? Dunque l'uomo sopportarà che viva sotto sue sembianze nel mondo un mostro, che rende sprezzabile la umanità, e neglette le sue maggiori pompe nell'operare senza ragione, e senza giudicio? Dovrà tolerare le inscienze di questa schiava, alla formazione di cui dando una costa l'ha annodata con una catena d'obligazione, come comperata col suo? Dovrà pazientare tanta sua sciagura d'avere congiunta, e uniforme, la infelicità animata, la tirannide viva, e l'Inferno compendiato? E poi quando pretenderà trarne que' gusti, per i quali soli è nata, bisognarà isborsarne rigoroso prezzo? Sarà dunque di mestieri all'uomo d'umiliarsi con la servitù, e quasi con le adorazioni, assoggettirsi a moltiplicati stenti, affaticare l'animo nel cimento delle passioni, e travagliare il corpo nelle amorose fatiche; e dopo in vece d'attenderne premio, dovrà egli stesso prepararne il pagamento? Oh Dio, come cieco è il mondo, e come allucinati gl'infelici mortali, che comperano le maggiori sciagure, e li peggiori malanni quali scorrono in contanti nel commercio con le meretrici, dispergendo le sue migliori sostanze, e profondendo di più anche l'oro! Fu questo pure artificio di demone inimico delle contentezze del nostro sesso, mentre essendo forse le più apprezzabili quelle di lassivo godimento, volle amareggiarle col pensiero dell'isborso di ciò ch'a noi è più necessario, o grato. A ragione potrebbero gli uomini invidiare lo stato de' bruti, e desiderare l'autorità, con cui soprasede il maschio alla femina nella propria specie, mentre ovunque la scorge stimolato dall'appetito, monta, cavalca, gode, né senza altro riscontro s'obliga al dar la paga de' suoi gusti. Un povero amante dovrà dunque essere peggio trattato d'un cane, e quando non abbia denari, sarà privo di que' piaceri che non si negano ad una bestia? Maledetto instituto, conforme il quale a suono di preziosi metalli si regola l'amorosa danza, posta la gabella sopra quelle dolcezze, che sì abbondantemente dona la natura. E quali angustie non soffre chi ama, e desidera, né può sodisfare le sue brame per l'avarizia della sua Diva, la quale ha per esercizio lo scorticare? Se anche giunge a godere, non è egli molestato dal debito che allora contrae, onde, riflettendo sopra la necessità di pagare, perde ogni gusto? È forse che insaziabili, e indiscrete, le cortigiane de' nostri tempi non hanno collocato in alto prezzo la loro mercanzia? Forse che li momenti di fugaci diletti non devono contrapesarsi con molto dispendio di ciò ch'in longo corso di tempo s'acquista? Forse che non bisogna avere ferrate le borse, per resistere a' colpi, ed esser saldi alle oppugnazioni delle femine avare? Benedetto sia quel tale decreto de' Sacri Canoni, il quale prefigge per paga d'una meretrice quanto può bastare al suo vitto d'un giorno. Prescrisse saggiamente un limite alla loro indiscrezzione, nel modo stesso che alla ingorda avarizia de' Preti, e de' Frati, nel pretendere lo stipendio delle Messe. Volesse il Cielo che fosse osservato, di modo che quelle lupe voraci non esigessero sempre tesori per una cosa alfine vilissima, e abominevole, e per diletto imaginato, più che gustato. O almeno, come nelle ben regolate Cittadi quanto si vende ha la metà del prezzo, così l'avesse anche la carne delle puttane, ch'essendo la peggiore di quella d'ogni altro animale, m'assicuro che poco ne sarebbe il valsente. Il licenziare altrimente la loro indiscretezza, è un accumulare meretrici, poiché ciascuna donna avara, se non disonesta, muoverassi per interesse al pratticare sì infame mestiere. Adescate dal guadagno, verranno tutte le femine a gala nel mare delle lassivie; e se continua l'uso d'arricchirle con tale eccesso non v'ha dubbio che rimarranno spopolate le Cittadi di Matrone pudiche. Vivono quelle dissolute con ogni maggiore lusso, e negli addobbi, e ne' vestimenti, e nella mensa, in guisa che fatto prezioso, il vizio avvalorarà le sue violenze per rapire la inclinazione d'ogni femina, proclive pur troppo al seguirlo. Influisca il Cielo rimedi convennevoli ad un tanto disordine, per beneficio della umanità, e per sollievo de' poveri amanti. Conceda a Vostra Signoria ogni bene, come gliel'auguro di cuore; e per finire, etc.
"Non sa - disse il Cavaliere - questo sciocco che scrive, qualmente l'uomo non avendo il freno del pagamento correrebbe con tanta immoderatezza alla sazietà de' suoi appetiti, che consumarebbe la vita, mentre a crepa panza, come suol dirsi, vorrebbe satollarsi di ciò di cui non isborsasse prezzo".
"Dite pure - soggiunse il Marchese - che mancarebbero le rendite a' Principi, li quali vogliono tributo anche da' guadagni delle meretrici".
"Oh - disse il Conte -, non èvvi tra' Principi chi ciò faccia, altri che il Gran Duca di Fiorenza, il quale con la sottigliezza infusa dal clima ha chimerizata questa forma d'avanzo".
"Anzi credo che a beneficio de' bardassi - ripigliò il Barone - impongansi colà questa contribuzione, essendo ordinario di far pagare rigoroso dacio a chi entra in pregiudicio d'alcuna arte principale".
"Non è mal pensiero il vostro - replicò il Cavaliere - poiché da questo aggravio scemato il numero delle cortigiane, resta più libero il traffico a' negozianti in tondo; né conviene di danneggiare una professione universale, in cui ciascuno di quella Città indistintamente è interessato".
"Sète voi forse ancora, o Cavaliere - parlò il Conte -, uno di questi mercatanti, che tengono le balle in magazeno, e non in bottega? Ciò giovami di credere, mentre sostenete sì puntualmente le ragioni di questa mercanzia".
"Ricordomi - risposegli l'altro - d'aver negoziato alcune volte con voi alle strette". Sorrisero tutti, e per non dar luogo ad altra replica subito così ei lesse:
[XLVI]
Illustr[issimo] Sig[nor] mio.
Ho mutata stanza, che però ne do avviso a V.S. Illustrissima per assicurarla qualmente non è variata la mia servitù, e sempre sto fermo nel desiderare li suoi commandi. Amai in Lucca, dove ero come ella sa, una Dama maritata, la quale corrispose a' miei amori, e col premio de' godimenti rimunerò l'applicazione de' miei affetti. Il marito era di poco spirito, onde avevamo unitamente maggior lena per farlo becco. Osservò egli un giorno in Villa in possesso della moglie li miei abiti, de' quali essa avvalevasi talvolta per trattenimento, come bizarra. Congietturò ch'io fossi addomesticato, dove lasciavo le vestimenta, e che dasse adito alla persona, quella che tratteneva le vesti. Figurossi in questi le spoglie ch'io riportavo da' trionfi del suo onore. Disperato di scorgersi quale non poteva negare d'essere, partì per Roma; non avendo viso esente da' rossori dovuti a tanta infamia, non avendo però né meno corraggio per abolire col ferro le sue vergogne. Tanto più liberamente proseguirono le mie delizie; e quasi fiume nel proprio letto non più pruovavo argine, che vietasse il condurmi sin al mare più profondo di più copiose dolcezze. Mi tradì la fortuna nel sommo de' miei contenti, mentre interessò il fratello dell'amata in mantenere la riputazione della famiglia.
Essendo però della patria stessa che l'altro, non aveva cuore risoluto ad onorate vendette. Accusommi appresso li secretarii, con protesta di non voler precipitare li propri interessi, onde pregavagli di porvi rimedio, per esimere lui medesmo dalla necessità di fare alcuno sproposito. A suo compiaccimento ebbi ordine di sfrattare, e di partirmi di Lucca; il che esequii, vantandomi di portare una sì gloriosa memoria della generosità de' Signori Lucchesi. Andai alla villa della Dama, ove in effettuazione del publico castigo m'ho presa più volte una volontaria morte, da cui però risorgendo secondo l'ordinario degli amanti, riducevomi prigioniero nel di lei seno, per assoggettirmi di nuovo a quella mortale sentenza. Ora mi trattengo quivi, dove l'onore de' commandamenti di V.S. Illustrissima è la maggiore felicità ch'io auguri a me stesso; con che per fine, etc.
"Sono corraggiosi, e prudenti - disse il Conte - li Signori Lucchesi, onde senza proprio pregiudicio, sanno in tal modo facilitarsi le loro vendette".
"A me ancora - soggiunse il Barone - è occorso che mentre in Lucca appunto godevo una Vedova mia vicina, da' di lei parenti furono mandati li sbirri a fine di rimuovermi con simile bravura da quegli amori; ma portò il caso che non mi colsero, e io feci loro le fiche con le dita, in loro scorno".
"E che volete? - ripigliò il Marchese -: una così picciola Republica ha poche teste, in conseguenza pochi cuori, onde per suo mantenimento fa di mestieri che procurino di conservarsi la vita".
"Sono loro necessari buoni capi da governo - parlò il Cavaliere -, quindi conviene loro l'avere giudicio grave, per ben pesate risoluzioni, non però ricusano la gravezza delle corna".
"Non c'intrichiamo con questi Signori - replicò il Conte -, perché ora sono scommunicati, e in disgrazia di S. Santità. Oltre che con la riputazione, quale acquistano in questo negozio, sepeliscono ogni altro loro disonore". Prese quindi altra lettera, e così lesse:
[XLVII]
Illustr[issimo] Sig[nor] Conte.
Mi rincresce vedere V.S. Illustrissima applicata allo scrivere le istorie de' nostri tempi per cagione dell'antica amicizia, che le professo. Si scorge consumato il suo buon talento, con troppo discapito non solo appresso li letterati, mai non fermi nel circonscrivere la qualità dello stile isterico, ma principalmente appresso li curiosi, li quali si scorgono defraudati della notizia della verità. Viviamo in secoli troppo pervertiti dalla perversità de' dominanti, onde fa di mestieri che gl'isterici ancora siano adulatori. Altrimente, chi vuole discernere il vero, primo elemento delle istorie, fa di mestieri scuoprire le piaghe de' Principi con soverchio pericolo di restar infetti per la loro maligna corruzzione. E che altro può scriversi, che la ingiustizia de' consigli, e la imprudenza nelle esecuzioni? Èvvi forse ravvolgimento in Europa a' cui raggiri non segua la iniquità, e la tirannide de' Potentati? La ingorda rapacità degli Spagnuoli, non mai paga di ciò che possede, è pure l'unico motivo di questi tumulti, ne' quali sopravenuti da inaspettate procelle, sollevate però dal vento indiscreto della loro ambizione in Catalogna, e in Portogallo, piangono ora il naufragio imminente della loro grandezza. La ingiustizia dell'Imperatore, feconda di ruine alla misera Mantoa, è pure la sola cagione della rivoluzione dell'Imperio, fomentata dal voler egli admettere a parte de' suoi interessi gli Spagnuoli, che porrebbero in bisbiglio anche il Paradiso. Quindi la morte di Fridland, la perdita d'un tanto esercito in Italia, hanno partorito l'esterminio della sua Maestà, che ora riluce quasi face che stia di ponto in ponto per estinguersi, se non per altra ragione politica, per castigo del Cielo, il quale ha voluto che contrapesino nel suo dominio le sciagure prodotte da lui nella povera Italia. La inquietudine del Re di Francia, dato in preda all'arroganza di Ricleu, dissemina in ogni luogo dissensioni; e impegnandosi più di quello ei sia, appare meno di quello che è, facendo ridere il mondo con le sue machine aeree, ma facendo piangere pur troppo chi è caduto per affidarsi a' suoi vani appoggi, o chi travaglia di continuo per avvolgersi nella volubilità de' suoi capricci. Il Papa, che attende solo ad arricchire li Nipoti, al compendiare in loro le rendite de' Cardinalati vacanti e mostrasi Pontefice solo in riforma di Breviario, o in moderare le feste, non impedisce tra tanto, o forse promuove, queste turbolenze. Li principi di Savoia scioccamente trattando li propri interessi, non s'avvedono di servire per gioco a' Spagnuoli, che suonano conforme il lor genio, per fargli ballare, sin che la danza vada a lor modo. Vedranno dopo d'aver sviscerato lo stato per nutrire la ingordigia di questi finti amici, che servono solo al particolare interesse. E come ardirà V.S. descrivere questi affari, che altrimente non possono delinearsi, quando nel quadro della istoria non si neghino li colori della verità? Lascio altri Principi di minor riguardo, o dotati forse di maggiore prudenza, ingiustamente però arruolati dove non si veggono che communi biasimi, o non può che ammirarsi lo sforzo di possanza superiore. Se ne' gabinetti de' Principi sono empi li Consiglieri, non meno perfidi e sciocchi sono gli esecutori di somiglianti consegli. Tra' capi di Guerra li disordini, le sciocchezze sono fertili de' loro vituperi, in guisa che l'onore delle vittorie non può che simplicemente attribuirsi alla fortuna. E come possono scriversi li loro falli, se chi di presenza invia le relazioni, essendo appassionato, gli cela? Così va in somma, mentre non può che da informazioni dipendere l'isterico, non può assicurarsi di verità, se si fonda in congietture, non può che dir male. Chi sa quanto s'offendano li Principi da chi palesa le loro ignominie, non s'arrischiarà sì arditamente. Chi pur anche conosce quanto sia necessaria la verità all'isterico, negarà d'intraprendere la formazione d'un parto per cui non può ritruovare la propria sua sostanza. Tutto ciò sia detto conforme il mio sentimento, rimmettendomi per altro al giudicio di V.S. Illustrissima alla quale per fine m'offro di tutto cuore; e le bacio le mani.
"È superflua la esaggerazione di costui - disse il Marchese -, poiché chi scrive istorie in questi tempi pone in non cale la verità, e quindi rimangono preservati li Principi".
"Basta - soggiunse il Conte - a gl'isterici moderni di sodisfare alla vana curiosità di chi legge, e niente più curano le regole del mestiere che professano".
"Mercé - ripigliò il Cavaliere - che s'esercita in queste composizioni chi appena sa leggere, là dove non operasi altro che ammassare riporti, o avvisi mendicati da diversi luoghi".
"È tanto familiare - conchiuse il Barone - anche a' più abietti, e ignoranti, l'ingerirsi in trattati di Principi, e in negozii di stato, che meritamente l'ufficio dello scrivere istorie è capitato in persone le quali vituperano sì degno esercizio".
"Dirò più tosto - ripigliò il Marchese - che gli atti de' nostri Principi non meritano di passare per altre mani, né d'essere sollevati da altre penne". Ciò dicendo aprì nuova lettera, il cui contenuto era il seguente:
[XLVIII]
Molto Illust[re] Signora mia.
È tanto copiosa la informazione che nella ultima vostra mi date della libertà con cui si trafficano li vizi costà in Roma, che sonmi invogliata di trasferirvi la mia abitazione. Intendo principalmente quali vantaggi abbia la libidine sotto l'abito de' porporati, onorata anzi della protezzione d'un nipote di S. Santità. Ho ritrattato il sinistro concetto imbevuto in me da' detti di quelli ch'esaggeravano l'uso delle più nefande immondezze, onde a paragone de' giovanotti erano in opprobrio le donne. Conforme da voi mi viene accennato, conosco la falsità di questa calunnia, e scorgo che di buon cuore dassi ricetto costà a tutte le dissolutezze. Anche le femine hanno il loro dispaccio; e a dir il vero appresso chi ha cervello una figura doppia fa più bel gioco nelle mani, ed è un grande vantaggio il poter falsificare la carta, già che rassembra appresso gli uomini singolarmente desiderabile il dilettarsi d'inganni e d'apparenze. Qual maggior gusto èvvi, per chi ancora gode del brutto peccato, che il poter fare un cambietto di mano, e quando s'ha una donna tra le braccia cangiarla in maschio, secondo che più aggrada? Lodata sia Venezia, dove la delicatezza dell'appetito con minore scandalo prattica questa forma di sodisfazzione. Così non si proibiscono alle donne li loro vantaggi, né a gli uomini li loro piaceri. In somma singolarmente mi piace l'intendere che costà abbiano campo tutte le disonestadi, là onde io risolvo di venir a godere cotesta aura nella mia vecchiezza. Spero di poter esercitare con molto avanzo il Ruffianesmo, perché dove il clima dispone alle lassivie, riesce meno faticosa la nostra professione. Mi prommetto d'impetrare subito la grazia di tutti li Cardinali, poiché otterrò per essi quanto sapranno desiderare. Spero d'aggiungere al ruolo delle meretrici tutte quelle poche dalle quali si riserva la onestà, ed eleggerei la morte, quando non presumessi ragionevolmente di far cadere le più pudiche matrone. Procuratemi alcun buon posto, ch'io non tralasciarò di servire a voi ancora con tutto lo spirito, in conformità di che mi vi offro, e di cuore vi bacio le mani.
"È mal capitata costei - disse il Conte -, mentre fonda li disegni del suo Ruffianesmo in Roma, ove il traffico delle dissolutezze non ha bisogno d'alcuno sensale, o mezano".
"Servirà - soggiunse il Marchese -, se non a' grandi di colà, a' poveri Frati, e Preti, la plebe de' quali tiranneggiata da' dominanti, è impedita dal prendersi li suoi gusti".
"Quindi è - ripigliò il Barone - che da costoro s'esercitano li più abominevoli piaceri, per trattargli secretamente, e maneggiargli a lor posta".
"Colà - conchiuse il Cavaliere - sono così communi con la libidine tutti li vizi, che ciascuno è buon negoziante, e alla scoperta sa procurare li suoi vantaggi". Mentre ciò diceva passò alle mani del Conte una lettera con annesso picciolo invoglio. Così era scritto:
[XLVIII]
Illustr[issimo] Signor mio.
Invio a V. Signoria Illustrissima il ritratto della Dama, la quale ebbe autorità d'occupare li di lei affetti, mentre essa dimorò in questa Città. Ecco eseguiti li ordini lasciatimi nella sua partenza. Non so se così bene rimarrà servita dal Pittore, come ho procurato io stesso di servirla. Merita scusa l'arte, quando abbia errato nell'epilogare un volto in cui la stessa natura ha compendiata ogni sua perfezzione. Non possono capire in picciolo rame quelle bellezze, per le quali è angusto il giro della sfera stessa del Sole. Non può effigiarsi questo Cielo senza la necessità d'aggiungervi il motto di colui: Pulchriora latent, non potendo compirsi con un pennello quella vaghezza, per cui è sviscerato il possibile d'ogni maggiore beltà. Nelle pitture, le ombre danno lume a' colori, ma quivi come possono star le ombre in faccia del Sole? Non può darsi l'aere proprio a questo sembiante, ch'essendo Angelico non gode altro aere che di Paradiso. Consideri in somma V.S. Illustrissima quale l'apprezzi il di lei cuore, e conoscerà qualmente non meglio poteva dipingersi, come che oggetto Divino mal s'aggiusta con fattura di mano terrena. Compatisca il Pittore, il quale non può sopra di sé, molto meno sopra la natura, e il Cielo. Aggradisca la mia buona volontà, con cui ho sollecitato il compimento della opera, e il compiacimento de' di lei desideri, li quali incontrarò sempre volentieri, per affaticarmi in ogni sua maggiore sodisfazzione; in conformità di che me le offro, e per fine, etc.
Mentre leggeasi questa, il Barone, più degli altri giovine, in conseguenza più inclinato a gli amori, curioso, anzi impaziente di vedere la Dama descritta sì bella, diedesi a disciorre l'invoglio, e aprì la scatoletta, quando per appunto era terminata la lettura. Gli fu di mestieri participare anche a' compagni quella vista, ch'egli, quasi già fatto geloso, ambiva d'appropriarsi. Gli encomi furono iperboli d'amanti, poiché non inferiormente poteva celebrarsi quel volto. Furono però brevi, poiché mentre quella anche nella pittura viva pareva che fosse in atto di parlare, commandava a gli altri di tacere. Dimoravano però tutti egualmente stupidi ammiratori, non so se ingannati dal crederla animata, onde stimavansi obligati ad una modesta riverenza, e ad un riverente silenzio, o pure affacendati in una tacita divozione per ringraziamento di quella fortuna, che aveva loro conceduto di vagheggiare una tanta bellezza, la quale anco dipinta era degna, sì che se ne vantassero come favori gli sguardi. Apparivano questi Cavalieri, nella loro immobilità, quasi tocchi dal fulmine, e tale rassembrò il Cavaliere più degl'altri vecchio, quando sopragiunse il Secretario del Signor Duca, e lo toccò quasi per risvegliarlo, poiché convertissi la faccia in cenere di pallidezza. Aveva questi ancora compìto di leggere le lettere del Governatore di Milano intercette d'ordine del Padrone, come su'l principio s'accennò, onde procedette lo svaligio del Corriero.
Vagheggiò il ritratto, e applause al concetto degli altri. Cangiò dopo materia per gli loro discorsi, interrogandoli quale fosse stato il loro trattenimento. Risposero con epilogata relazione di quanto aveano letto, vantandosi d'aver incontrato non poco gusto nella varietà de' capricci, nella moltitudine delle sciocchezze, e nella diversità degli umori, de' quali aveano avuta notizia in tante e sì differenti lettere. Dissero d'aver lasciate a parte molte, che nel contenuto di negozi familiari, e ordinari non erano soggetto di curiosità. Dopo tale risposta ricercarono dall'altro quale novità egli avesse scuoperta insieme col Principe nel discioglimento de' fogli trattenuti. A sodisfazzione di questa richiesta così parlò:
Nelle lettere del Governatore di Milano, altro non abbiamo che la dichiarazione delle forme ordinarie, con le quali pretendono gli Spagnuoli d'ingannare, o di tradire gli altri Principi. Descrive li loro disegni sempre vivi nel desiderio, ancorché mancanti nell'effetto, di soggiogare la Italia, e di porre un piede in qualunque principato d'Europa. Ancorché la Monarchia sia in istato miserabile, senza deporre il fasto della solita ambizione, vanta la grandezza del suo Re che ha mortificato il Duca di Parma, snervato quello di Mantoa, tiene soggetto quello di Modena, ha un piede sopra il collo di quelli de Savoia, presume d'avere ad arbitrio suo il Gran Duca di Toscana, stima d'avere nelle mani, per regolarla a suo modo con proposta vantaggiosa d'interessi Politici, la Republica di Venezia, come tiene tra le unghie quelle di Genova, e di Lucca. Si pavoneggia però della possanza Spagnuola, mentre nel maggior discendente, in cui si scorgesse già mai, ancora vedesi trionfante, di modo che o per antico possesso, o per nuove aderenze, o per superiorità di forze ha tributari tutti li Potentati d'Italia. Non curano se il Papa sia loro parziale o no, prommettendosi di porgli facilmente il freno; come che ne' nostri secoli il solo potere Spagnuolo entrato in Roma ha ritruovate catene per gli Pontefici. Esaggera la tirannide, con cui li ministri della Corona girano a lor grado li Principi di Savoia, in guisa che con pretesto di difendergli rendongli esausti di forze a proprio giovamento, e accioché ancora non possano rivolgersi ad offendergli. Quindi con la solita Politica hanno differita sì longamente ne' loro stati la guerra, prolongando gli acquisti, ch'in pochi mesi poteano terminarsi, quando si fossero eseguiti li consigli del Principe Tomaso. Gli Spagnuoli legano quel Grande, ch'essi proteggono, non per difenderlo, ma per far sì che serva a' loro vantaggi. Quindi nel lasciare occupate le loro forze contro li Francesi, presumono di poter disimpegnare il proprio potere in altre imprese, massime nel prender Casale, ch'è quel pomo per cui eglino sono altri Tantali, tanto più ingordi, quanto più quegli fugge la loro rapacità con soverchio loro danno, e tormento. Consolansi con buone speranze questi privati della corona, quanto più sono disperati, come pure, con falsi avvisi di vittorie, e d'acquisti, usano d'accalorare il lor partito, animando l'aderenza di chi lo segue, e spaventando chi gli è contrario. Confessa nondimeno anche il Governatore, nella sua, il grande tracollo della Monarchia per le rivolte di Catalogna, e Portogallo; per avere gli Spagnuoli perduto oltre il credito il denaro, là dove non potendo sostentare l'Imperatore, obligato ad essi solo per l'interesse di quello, non possono avere riscontro di forze. Già nella Germania sono in opprobrio, non che in poca stima, e la lega d'Alsazia, prima rotta che conchiusa, oltre il dispendio di mezo millione, discapito notabile in queste congiunture, ha unita la perdita totale della riputazione in que' paesi. Mancando però la soldatesca, che ivi può loro somministrarsi, perché manca l'oro, decadono le forze, mentre pure in Spagna, in Fiandra, e in Italia ne tengono molta necessità. Sostengonsi su fondamenti aerei assicurandosi totalmente su le ale della fortuna, non essendo men vana la fede in Dio, ch'essi professano. In tal modo publicansi dalle lettere del Governatore le miserie, senza umiliare però il fastoso orgoglio vantasi parimente buona speme per sollevarsi, non aspirando ad altro che ad opprimere li poco amorevoli.
Questo disse il Secretario essere quanto aveano spiato ne' loro fogli, senza però alcuna nuova cognizione, come che le massime tiranniche degli Spagnoli sono già palesi, e li loro interessi vengono publicamente trattati anche da' più vili, e ignoranti. Levaronsi dopo questo discorso unitamente tutti gli Cavalieri, poiché oltre l'essere stancati da sì longa lettura obligavagli l'ora già tarda ad assistere alla servitù di S.A.