GIOVANNI nacque a a Firenze l'11 dicembre 1475 dalla nobile casata DE' MEDICI, secondogenito di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini.
Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica fu circondato da insigni precettori, raffinati umanisti quali Calcondila, Poliziano, Ficino, Eginota, Bibiena, crescendo in mezzo al fasto della casata medicea, che gli ispirò l'amore per il lusso e le prodigalità e quella passione per tutte le arti, che tanto distinsero il suo pontificato.
Ottenne fin dalla fanciullezza cospicui benefici: nomina ad abate di Montecassino e di Morimondo, nomina a Protonotaio Apostolico a soli sette anni, nomina cardinalizia da parte di Innocenzo VIII avvenuta a soli tredici anni, con l'obbligo però di assumere le insegne soltanto dopo tre anni.
Studiò per un triennio diritto canonico a Pisa, dove ebbe come compagno Cesare Borgia.
Nel 1492, una volta preso pubblicamente il cappello cardinalizio si trasferì a Roma, ma si trovava a Firenze quando, nel 1494, ebbe luogo la caduta dei Medici e fu proclamata la Repubblica.
Allora per alcuni anni Giovanni prese a girare, trovando asilo dapprima alla corte urbinate di Guidubaldo di Montefeltro ed Elisabetta d'Este Gonzaga insieme al fratello minore Giuliano e al cugino Giulio (il futuro Clemente VII), poi viaggiò nei Paesi Bassi, in Germania e in Francia, dove conobbe molti uomini illustri ma dove venne anche arrestato, a Rouen, e quindi espluso.
Ritornò a Roma nel 1500 e qui prese alloggio nel palazzo di san Eustachio, attuale palazzo Madama, residenza dei Medici in città, facendo vita mondana e dedicandosi agli studi umanistici, al teatro contemporaneo (nell'autunno del 1514 farà rappresentare nelle sue stanze la commedia Calandria del cardinale Bernardo Dovizi, il Bibiena), al collezionismo di antichità e al mecenatismo artistico (tra i pittori da lui ricercati e protetti figura l'ammiratissimo Raffaello, cui commissionò svariati lavori).
Nel 1511 ricevette da Giulio II l'incarico di Legato per la Romagna; l'11 aprile 1512 assistette alla battaglia di Ravenna dove venne catturato e fatto prigionieri dai francesi vincitori.
Condotto a Milano riuscì tuttavia a fuggire prima di essere trasferito in Francia.
Grazie al contributo dell'esercito ispano-pontificio riuscì a ristabilire la signoria medicea a Firenze (1512-1513) che governò insieme al fratello Giuliano.
Morto Giulio II (21 febbraio 1513), nel conclave che si aprì abile fu il lavorio del segretario privato del cardinale de' Medici, Bernardo Dovizi il Bibiena, che riuscì a rendere bene accetta ai cardinali la presenza di un Medici sul trono pontificio, considerato anche esponente di una tendenza conciliatrice dopo il turbinoso pontificato di Giulio II; e considerata anche la salute malferma del seppur giovane candidato, che perfino in sede di conclave dovette stare a letto e subire degli interventi chirurgici, e che non lasciava intravedere un lungo periodo di governo.
Il cardinale de' Medici fu eletto al soglio pontificio il 9 marzo 1513, scegliendo di chiamarsi LEONE X.
Aveva appena trentotto anni.
La sua incoronazione si fece attendere una decina di giorni, il tempo occorrente per poter ordinare il neoeletto sacerdote e vescovo.
Fin dai primi atti del suo governo mostrò di non possedere lo spirito battagliero del suo predecessore.
Per la situazione caotica in cui versava l'Italia con i vari conflitti, Leone X cercò di condurre una politica meno belligerante, con un'azione di mediazione diplomatica, dal perdono concesso ai cardinali che avevano organizzato il "Conciliabolo" di Pisa, alla riconciliazione ufficiale con Pompeo Colonna, che aveva tentato di aizzare il popolo in un folle tentativo di instaurare una repubblica, e alla buona opera di mediazione compiuta a Firenze, nella scoperta della congiura di Boscoli e Capponi contro i Medici, per salvare la vita di Machiavelli.
Non fu nemmeno costante nella posizione politica europea: da antifrancese a filofrancese, e infine, a filoimperiale, navigò nella doppiezza, ma fondamentalmente ebbe a cuore la sua famiglia: creò cardinale il cugino Giulio, futuro Clemente VII, e il nipote Innocenzo Cibo.
Purtroppo in vari punti della penisola si erano accese varie dispute: Francia e Spagna erano decise a ignorare ogni compromesso, e tanto meno a rinunciare alla loro ambizione; i veneziani avevano stipulato un'alleanza con i francesi il 23 marzo 1513 a Blois.
L'intenzione era quella di sferrare un attacco agli svizzeri che controllavano il ducato di Milano.
L' attacco avvenne e si concluse con la battaglia di Melegnano (1515) e la riconquista francese del ducato; il papa rimase a guardare, anche quando Francesco I si impossessò di Parma e Piacenza già assegnati allo Stato Pontificio tre anni prima.
Lo lasciò fare, per avviare poi trattative segrete al fine di ricomporre tutti i contrasti esistenti a Bologna, dove furono gettate le basi di un concordato che regolasse definitivamente la questione religiosa in Francia.
Gli accordi si chiusero con un Trattato di pace firmato a Viterbo il 13 ottobre 1515, con cui il pontefice cedette Parma e Piacenza e il sovrano si obbligò a garantire l'autorità dei Medici a Firenze.
Mentre il 18 agosto 1516 venne stipulato un Concordato che conteneva la soppressione (finalmente!) della Pragmatica Sanzione di Bourges del 1438, ma in compenso la curia papale dovette fare sacrifici grandissimi: il re di Francia ricevette il diritto di nomina per tutti vescovadi (93, fra cui 10 arcivescovadi), le abbazie (527) e i priorati del suo regno; al papa rimase solo il diritto immediato di collazione per un numero ristretto di casi e la facoltà di confermare i candidati alle sedi vescovili, da nominarsi entro sei mesi dalla vacanza.
Questa sistemazione ebbe il buon effetto si stroncare le tendenze scismatiche della nazione francese e di riannodare più strettamente il paese alla Santa Sede fino alla Rivoluzione.
Nello stesso giorno Leone X dava l'investitura del ducato d' Urbino al nipote Lorenzo, figlio del fratello Piero de' Medici, che il 30 maggio di quell'anno, alla testa delle truppe pontificie e fiorentine era entrato a Urbino da dove poco prima era fuggito, riparando a Mantova.
Sempre nel 1517 la vita del pontefice corse serio pericolo per una congiura ordita all'interno del Sacro Collegio ad opera del cardinale Alfonso PETRUCCI, figlio di quel Pandolfo, signore di Siena, da alcuni sospettato di aver eliminato Pio III; era morto anche lui, lasciando il potere all'altro suo figlio, Borghese, ma Leone X nel 1516 lo aveva scacciato da Siena affidandone la signoria ad un altro Petrucci, Raffaello, vescovo di Grosseto, che aveva in vantaggio di essere amico del pontefice.
Accecato dall'odio e assetato di vendetta, il cardinale Petrucci avrebbe voluto assassinare Leone X, ma resosi conto che la stretta sorveglianza da cui era circondato il papa non avrebbe consentito di attuare il progetto, decise di ricorrere al veleno.
Corruppe il medico del pontefice, Pietro Vercelli, e lo indusse ad avvelenare la medicatura che era solito dare ad una fistola a cui Leone X soffriva da tempo.
Ma una lettera diretta al suo segretario Antonio de Nini venne intercettata e la congiura fu scoperta.
Il cardinale Petrucci arrestato e processato, fu fatto strangolare in castel sant'Angelo il 6 luglio; il de Nini e il Vercelli subirono sorte peggiore.
Nel processo risultarono coinvolti ben quattro cardinali: il Riario, decano del Sacro Collegio, il Sauli, il Volterrano e il Castellanese.
Furono tutti deposti e riuscirono ad evitare il carcere solo dietro pagamento di forti somme di denaro.
Il Riario perse anche il suo palazzo, che fu da allora assegnato a sede della Cancelleria.
Leone X, accortosi che tredici cardinali che componevano il Sacro Collegio gli davano così preoccupanti prove di inimicizia, per circondarsi di persone devote, nominò in una sola volta trentuno nuovi cardinali, fatto che non si era mai verificato prima.
In ogni caso quelle condanne a morte cancellarono di colpo i precedenti atti di magnanimità e perdono del pontefice e tanto più le grazie concesse sub condicione ai quattro cardinali furono fortemente criticate in Italia e Germania.
Durante il pontificato di Leone X si ebbe l'elezione del nuono imperatore, successore del defunto Massimiliano I d'Asburgo.
I principi elettori elessero a Francoforte il 28 giugno 1519, l'appena ventenne CARLO V di Spagna, figlio di Filippo d'Asburgo e Giovanna di Castiglia, incoronato ad Aquisgrana nell'ottobre 1520.
Il giovane imperatore era riuscito a far convergere su di lui i voti appoggiandosi alla potente banca dei Fugger (850.000 fiorini di prestiti promessi!), che si ripagò il favore imperiale con vasti possedimenti, grazie alla quale era riuscito a 'convincere' gli elettori.
Il giovane imperatore era così venuto a trovarsi improvvisamente nella posizione di sovrano più potente d'Europa: un complesso blocco eterogeneo frutto di quattro eredità distinte, con una costellazione di principati e città libere; un agglomerato di repubbliche mercantili e urbane e di signorie feudali, spesso travagliate da lotte intestine; la Castiglia e le conquiste castigliane, nell'Africa settentrionale, nell'area caraibica e nell'America centrale; l'Aragona e i domini aragonesi d'oltremare e cioè Napoli, la Sicilia e la Sardegna.
Insomma stava iniziando l'avventura storica, politica e umana del monarca spagnolo che costruì un impero "sul quale non tramontava mai il sole".
Leone X si convinse a dare il suo appoggiò quando si rese conto che Carlo V poteva costituire un ottimo appoggio per un tentativo di unificazione politico-religiosa dell'Europa.
Qualche tentativo di riforma e unificazione fu avviato con la conclusione del Concilio Lateranense V, aperto da Giulio II nel maggio 1512, e che si era protratto per parecchio tempo anche con Leone X.
Nella sessione VIII (dicembre 1513) era stata condannata la dottrina della duplice verità in filosofia e teologia e nella sessione XI (dicembre 1516) con la bolla 'Pastor aeternus' veniva rigettata la Pragmatica Sanzione di Bourges (vedi sopra) e la teoria conciliarista, con la dichiarazione solenne che al romano pontefice spetta una giurisdizione plenaria sopra tutti i concili, la loro convocazione, il loro trasferimento e scioglimento.
Circa la questione specifica della riforma, furono emanate alcune buone disposizioni riguardanti la nomina ai benefici ecclesiastici, la condotta del clero e dei laici, l'esenzione, le tasse curiali, i diritti dei religiosi rispetto all'esercizio della cura d'anime, ecc.; ma nel loro complesso erano norme troppo superficiali e blande, come dimostrarono le clausole restrittive aggiunte.
Ma il vero problema era la mancanza di una ferma volontà pontificia di una energica attività riformatrice.
Quello della politica religiosa è del resto un capitolo estremamente controverso del pontificato leonino.
L'esaurimento delle già compromesse finanze papali (il mantenimento della corte leonina costava ben 100.000 ducati annui), la necessità di reperire i fondi per l'immenso cantiere di san Pietro, dove i lavori per l'erigenda basilica procedevano sempre piu a rilento, costrinsero il papa a un sensibile aggravio delle imposte, che aveva già causato il complotto del Petrucci.
A ciò si assommava l'esigenza di fronteggiare il pericolo turco, che ormai spadroneggiava con numerose scorribande per tutto il Mediterraneo.
Inoltre, le costanti richieste di interventi di riforma, specie nel nord Europa, dove la situazione religiosa e politica era ormai in rapidissima evoluzione, convinsero Leone X a concedere, come già prima di lui i suoi predecessori, un'indulgenza plenaria da divulgarsi in tutta la cristianità.
L'indulgenza era (ed è) un condono delle pene che il credente dovrebbe scontare nel Purgatorio e in vita, che il papa concede a quei fedeli, sinceramente pentiti, disposti a compiere particolari penitenze (pellegrinaggi, elemosine, opere meritorie).
Lo "sconto" offerto da questi certificati d'indulgenza era proporzionato all'importo del denaro versato.
Quale commissiario dell'indulgenza per grande parte della Germania il papa nel 1515 nominò il giovane principe di Hohenzollern Alberto di Brandeburgo.
I redditi ricavati dall'indulgenza dovevano venire devoluti per la metà alla fabbrica di san Pietro; l'altra metà veniva rilasciata all'arcivescovo, per dargli modo di pagare le gravi tasse dovute alla curia papale per la conferma della sua elezione e per la cumulazione di tre vescovadi (14.000 e 10.000 ducati), più esattamente per estinguere il debito di 29.000 fiorini contratto a tale scopo presso i banchieri Fugger di Augusta.
Ma fu proprio in Germania che si ebbero particolari abusi e scandali.
Addirittura il predicatore domenicano Johann TETZEL giunse ad affermare che ad ottenere l'indulgenza per i defunti bastava la sola offerta dell'elemosina ("...appena il tintinnio della monetina tocca il fondo della cassetta delle offerte..."), anche senza lo stato di grazia.
Chi, pagando una certa somma, riusciva ad entrare in possesso del documento scritto (i vivi direttamente, i morti tramite i parenti ancora in vita), poteva ottenere uno sconto sulla pena (per i vivi anche sulle pene future!), a prescindere naturalmente dalla fede personale di chi lo acquistava o di chi ne beneficiava.
In tal modo i benestanti potevano facilmente mettersi la coscienza a posto.
Addiritture era stato creato un tariffario (la 'taxa camarae', composta di 35 articoli), che catalogava le colpe in base alla gravità; in questo modo tutti i crimini, anche i più orrendi, potevano essere perdonati in cambio di denaro.
Ne riportiamo alcuni articoli più significativi:
"[...] I sacerdoti che volessero vivere in concubinato con i loro parenti, pagheranno 76 libbre, 1 soldo.
[...] La donna adultera che chieda l'assoluzione per restare libera da ogni processo e avere ampie dispense per proseguire i propri i rapporti illeciti, pagherà al Papa 87 libbre, 3 soldi. [...] Il vescovo o abate che commettesse omicidio per imboscata, incidente o per necessità, pagherà, per raggiungere l'assoluzione, 179 libbre, 14 soldi.
Colui che in anticipo volesse comperare l'assoluzione di ogni omicidio incidentale che potesse perpetrare in futuro, pagherà 168 libbre, 15 soldi.
[...] Il frate che per migliore convenienza o gusto volesse passare la vita in un eremo con una donna, consegnerà al tesoro pontificio 45 libbre, 19 soldi.
[...] I laici contraffatti o deformi che vogliano ricevere ordini sacri e possedere benefici, pagheranno alla cancelleria apostolica 58 libbre, 2 soldi. Uguale somma pagherà il guercio dell'occhio destro, mentre il guercio dell'occhio sinistro pagherà al Papa 10 libbre, 7 soldi.
Gli strabici pagheranno 45 libbre, 3 soldi.
Gli eunuchi che volessero entrare negli ordini, pagheranno la quantità di 310 libbre, 15 soldi [...]".
Come si può vedere la Chiesa cattolica aveva raggiunto l'apice massimo in fatto di corruzione.
Tra il malcontento generale si levò una voce, quella del monaco agostiniano tedesco MARTIN LUTHER
(latinizzato in Lutero), nel cui sistema teologico (ricordiamo il voto di farsi monaco, l'esperienza della Torre, il suo commento alla Lettera ai Romani) ormai non c'era più posto per l'indulgenza.
Il 31 ottobre 1517 questi affisse, secondo l'uso accademico, all'ingresso della chiesa del castello e dell'università di Wittenberg 95 tesi formulate in latino, sul valore e l'efficiacia delle indulgenze (Disputatio circularis pro declaratione virtutis indulgentiarum ) e altri problemi connessi.
Queste tesi ebbero una risonanza enorme, in poche settimane si diffusero in tutta la Germania: molti speravano che dal suo intervento provenisse la spinta decisiva per una vera riforma della Chiesa.
Ma il suo scritto non fece altro che suscitare polemica: Tetzel contrappose alle tesi luterane delle tesi contrarie, il celebre teologo cattolico Eck lo accusò di sostenere le stesse tesi di Jan Hus, vale a dire la negazione dell'autorità del papa e dei concili.
Frattanto la curia romana aveva cercato di ricondurre l'agostiniano alla retta dottrina per mezzo dei superiori del suo ordine ma invano; poi nel luglio del 1518, Leone decise di convocare il monaco a Roma, dove quest'ultimo confermò nuovamente le proprie posizioni; il mese successivo risolse ancora di farlo convocare, in Germania, dal cardinale Caietano, suo inviato alla dieta imperiale di Augusta, e di farlo incarcerare e mandare a Roma se avesse perseverato nella sua linea; se invece fosse stato contumace, di scomunicarlo.
Accolse quindi fiduciosamente le generiche promesse di sottomissione del monaco e attese fino al I giugno 1520 prima di condannare i punti fondamentali della sua dottrina (bolla Exsurge Domine).
A sua volta il 10 dicembre il teologo ribelle di Wittenberg, bruciò in pubblico platealmente la bolla papale.
Leone rispose il 3 gennaio 1521 con la scomunica (bolla Decet Romanum ponteficem).
Si stava prospettando la rottura definitiva fra il papato e il monaco.
Ma quando arrivò la promulgazione dell'editto imperiale di Worms (25 maggio 1521),
con cui Carlo V poneva Lutero al bando dall'impero e ordinava la distruzione dei suoi scritti, il mondo germanico e del nord Europa aveva già avviato il distacco dalla Chiesa cattolica di Roma, e il monaco tedesco aveva già trovato ospitalità presso il principe elettore Federico di Sassonia.
Ricordando questi avvenimenti, appare chiaro come Leone X si sia mostrato inadatto alla situazione enorme che si era trovato a fronteggiare ed è azzeccata l'affermazione del Seppelt secondo cui egli «fu per la Chiesa una indicibile sfortuna e una fatalità che sulla cattedra di Pietro sedesse lui. Quando la catastrofe incombeva, egli non si rese conto della sua gravità e non fece nulla per allontanarla, perchè il suo buon senso si dissolveva in frivolezze e in politici intrighi».
Se la politica religiosa fu un vero disastro, nel corso dei nove anni di pontificato di Leone X fu tanto lo splendore a cui salirono le arti e le lettere italiane, da essere uno dei maggiori papati più prolifici che la storia ricordi.
Ciò che valse a rendere illustre questo papa e a farlo annoverare fra i grandi italiani, fu l'aver riunito intorno a sè e l'avere incoraggiato e protetto i maggiori ingegni dell'epoca.
Basti accennare a Michelangelo, Raffaello, Bembo, Sadoleto, Sannazzaro, Castiglione, Guicciardini, Erasmo, Giuliano e Antonio da Sangallo, Sansovino, Peruzzi, Romano ; piu freddo verso l'Ariosto, ostile verso il Machiavelli.
Leone X arricchì la Biblioteca Vaticana, restaurò e ampliò la Biblioteca già voluta dal padre (e detta appunto Laurenziana) dopo i saccheggi compiuti dai seguaci di Savonarola: compito, questo, che avrebbe portato a termine il cugino Clemente VII affidando i lavori a Michelangelo.
A quest'ultimo commissionò la facciata di san Lorenzo a Firenze.
Affidò a Raffaello la decorazione delle Logge del Vaticano.
Mandò dovunque dotti esploratori alla ricerca di preziose antichità, acquistò manoscritti latini che erano all'estero, contribuì allo sviluppo e alla diffusione della stampa, protesse e favori la stamperia del Muzio.
Istituì scuole e università che divennero famose per gli uomini che vi pose a insegnare.
Creò un collegio per gli studi greci sotto la direzione di Giano Lascaris.
Favorì gli studi di arabo ed ebraico ed ebbe come segretari ai Brevi umanisti quali Pietro Bembo, Jacopo Sadoleto e Angelo Colocci (che fu anche segretario apostolico).
Bembo (a Roma dal 1512 al 1519) raccolse poi epistole e brevi papali, esempi del suo gusto ciceroniano, negli 'Epistolarum Petri Bembi Cardinalis et Patricii Veneti, nomine Leonis X Pontificis Maximi scriptarum libri XVI'; Colocci fece della sua villa romana (detta anche Horti Colotiani) un importante luogo di elaborazione e diffusione dell'umanesimo romano dopo l'esperienza dell'Accademia romana di Pomponio Leto.
Su sollecitazione di Leone X Jacopo Sannazaro attese all'edizione del poemetto cristiano, lungamente elaborato, 'De partu Virginis' e Marco Girolamo Vida diede inizio alla 'Christias', un poema sulla vita e la passione di Cristo, che completò tuttavia soltanto nel 1527, sotto il pontificato di Clemente VII.
In questa vera e propria "età dell’oro" delle arti, giunge a maturazione quel linguaggio antichizzante e classicista su cui si erano esercitati gli umanisti quattrocenteschi, e che comincia davvero ad affermarsi come strumento di comunicazione universale.
Non da meno la passione architettonica.
Raffaello progettò Palazzo Branconio dall’Aquila e poi Palazzo Vidoni-Caffarelli; Antonio da Sangallo elaborò, in Palazzo Baldassini, nuove proposte tipologiche di derivazione antiquaria che poi troveranno applicazione anche al momento della costruzione di Palazzo Farnese in via Giulia, mentre in Palazzo Alberini-Cacciaporci e in Palazzo Maccarani Giulio Romano mise a punto ulteriori varianti tipologiche dello stesso segno.
Baldassarre Peruzzi realizzò la residenza suburbana di Agostino Chigi alla Lungara (la Farnesina) che può ben dirsi il luogo dove, grazie anche al determinante appoggio decorativo di Raffaello, forse più che altrove si raggiunge quell’auspicata 'unione delle arti' che ne fa ancor oggi uno degli edifici più rappresentativi e ben conservati dell’epoca.
Tutta la città si rinnovò su iniziativa di molteplici promotori.
In questo contesto il ruolo propulsivo di Leone X è centrale e determinante.
Grazie al suo mecenatismo possono prendere il largo operazioni urbane raffinatissime e svilupparsi progetti di svariata natura.
La sua passione antiquaria, inoltre, lo porterà a cercare di prendere provvedimenti anche in materia di conservazione del patrimonio monumentale antico, minacciato dalle attività edilizie più disparate.
In tal senso risulta fondamentale la nomina di Raffaello a sovrintendente dei 'magistri viarum', con mansioni d’ispettore generale del patrimonio artistico.
Raffaello svolse per il papa anche il ruolo di architetto della Fabbrica di san Pietro, proponendo per la chiesa un progetto a pianta longitudinale che risentiva di stilemi bramanteschi ed elaborando un’idea di nuova piazza rettangolare dominata al centro dalla presenza di un alto obelisco (1514).
Per il cardinale Giulio de’ Medici l’urbinate progettò inoltre la Villa Madama a Monte Mario, realizzata solo in parte, che venne esemplata dichiaratamente sul modello della villa pliniana di Tusci e rappresenta una delle più complesse opere architettoniche realizzate attingendo elementi compositivi derivati dal vocabolario progettuale dell’antichità.
La presenza di Antonio da Sangallo in qualità di assistente di Raffaello in questi due ultimi cantieri ricorda l’alta considerazione che di lui ebbe il papa, il quale lo impiegò anche in progetti più direttamente legati alla sua persona, come nel caso della complessa opera di riprogettazione di piazza Navona e adiacenze, per dare forma a una vera e propria 'cittadella medicea' nell’area più rappresentativa dell’antico Campo Marzio.
Nelle intenzioni del pontefice, infatti, l’area tra il Pantheon e piazza Navona avrebbe dovuto accogliere un’enorme residenza papale (dapprima progettata da Giuliano da Sangallo nel 1513 e poi da Antonio da Sangallo), oltre ad altre funzioni direzionali.
La facciata del palazzo si sarebbe proiettata sulla piazza, che veniva così a essere a sua volta l’emanazione fisica del potere papale e principesco dei Medici.
Se questo progetto urbanistico sfumò, altri non meno importanti vennero realizzati.
Leone X si rivolse alla zona più orientale della città, verso la porta del Popolo.
L’obiettivo era quello di mettere in collegamento la zona medicea di piazza Navona con quella che era la porta urbana più frequentata dell’epoca, nell’idea di rifunzionalizzarla in pieno.
Nel 1517 venne aperta la via di Ripetta, denominata anche Leonina, che costeggia il Tevere fino alla porta.
La fama di Leone X si diffuse ovunque e il fatto che il suo pontificato coincise con l'apogeo del Rinascimento hanno spinto alcuni storici e letterati a chiamare quel periodo col nome di 'papa Medici'.
Dopo aver da poco elevato Carlo V a difensore della fede cattolica contro il luteranesimo dilagante, una volta aver rivisto ritornare Milano nelle mani degli Sforza, assicurate allo Stato Pontificio Parma e Piacenza, per la quale a Roma già si preparavano grandi avvenimento, Leone X morì improvvisamente, il 1° dicembre 1521.
La sua improvvisa scomparsa, a soli 46 anni, dopo appena otto di pontificato, fece circolare la voce che fosse stato avvelenato; per questo fu arrestato il suo coppiere, Bernabò Malaspina.
Il maestro delle cerimonie di corte, Paride de Grassis insistette presso i medici per l'autopsia, ma non se ne fece nulla e tutto fu messo a tacere.
La voce che parlò invece, come sempre, fu quella di Pasquino, che tra sarcasmo e maldicenza così salutava il papa mediceo:
Gli ultimi istanti per Leon venuti,
egli non poté avere i sacramenti.
Perdio, li avea venduti!
Di certo la continua ebbrezza intellettuale e materiale (non sono poche le testimonianze intorno ad una sua presunta omosessualità) in cui visse questo papa fece coincidere la sua volontà di vita con la voglia di vivere del suo tempo.
Il suo desiderio di godere la vita e di evitare grandi responsabilita gli fece tollerare scandali di prelati e cortigiani, lo indusse a creare cardinali indegni, per brama di appoggi e ricchezze, senza rendersi conto che ormai l'unità cristiana dell'Europa era definitivamente compromessa.
Floscio e obeso come lo dipinge Sebastiano da Piombo, ci appare idealizzato in una placida signorilità nel celeberrimo ritratto di Raffaello (oggi ammirabile nella Galleria di Palazzo Pitti a Firenze).
Sepolto momentaneamente in san Pietro, fu poi trasferito nel suo mausoleo, disegnato dal Sangallo, in santa Maria sopra Minerva.
[Biografia curata da Pasquale Giaquinto]