Il canto trentunesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge tra l'ottavo e il nono cerchio, nel Pozzo dei giganti (QUI IN UNA STAMPA DI G. DORE') puniti per essersi opposti a Dio; siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300 (Sabato Santo).
Si tratta di un canto di raccordo tra due zone diverse dell'Inferno, come lo era stato il canto IX (presso le mura della città di Dite) tra i peccatori di incontinenza e quelli di malizia, e i canti XVI e XVII (con il volo di Gerione) tra violenti e fraudolenti.
Intanto Dante inizia a scorgere la faccia, il petto, il ventre e braccia pendenti lungo i lati del gigante più vicino, A questa visione straordinaria viene in mente al poeta una riflessione sulla Natura, che secondo lui fece bene a cessare l'"arte" di creare tali esseri, così spesso esecutori di Marte, cioè strumento di guerra; essa crea ancora elefanti e balene senza pentirsene, e in questo chi guarda sottilmente la giudica giusta e discreta: poiché nei giganti si sommano la ragione e il mal volere alla potenza, contro le quali nessuno può ripararsi; nei grandi animali no.
La faccia del gigante ricorda a Dante la Pina di Basilica di San Pietro, una pigna in bronzo di fattura romana che allora era situata davanti alla chiesa del papa e che oggi si trova nel cortile appositamente creato da Bramante nei Palazzi Vaticani: era alta più di quattro metri; le altre membra, descrive Dante, erano proporzionate a tale misura (è la prima delle nozioni metriche che il poeta mette a dare realismo alla descrizione e che per ogni gigante danno un risultato attorno ai 25 metri).
L'argine (la ripa) gli fa da perizoma (parola piuttosto dotta per l'epoca, che deriva dal greco, presente nella Genesi a proposito della veste di Adamo e in Isidoro da Siviglia) e ne sporgeva abbastanza che tre frisoni (abitanti della Frisia creduti come della popolazione più alta al mondo) non sarebbero arrivati dall'argine ai suoi capelli: era infatti alto 30 palmi abbondanti da dove si vedeva fino a dove si attacca il mantello (le spalle). Queste misura danno più o meno lo stesso risultato di circa 25 metri d'altezza in proprozione.
Il gigante allora parla, ma il suo grido non è un "dolce salmo" e Virgilio lo rimprovera dicendogli di sfogarsi piuttosto col corno e indicandoglielo ben tre volte chiamandolo anima sciocca e anima confusa, al che alcuni hanno creduto che così Dante volesse indicare la stupidità dei giganti; in realtà la questione non è così semplice e tutto sommato non vi sono elementi sufficienti per valutare.
Per quanto riguarda l'oscura frase essa non ha dato luogo a grandi studi circa il suo significato, che Virgilio stesso definisce pochi versi dopo come incomprensibile, a differenza del più conosciuto Pape Satàn. Piuttosto è stata a lungo discussa la sua accentazione per questioni di metrica difficili da valutare in opresenza di questo linguaggio non reale.
Parlando con Dante Virgilio spiega come questo sia NEMBROT (o NIMROD), gigante biblico, che si rivela per quello che è: legato alla leggenda della Torre di Babele (secondo la dottrina dei padri della Chiesa, che collegava due passi non correlati della Genesi, X 8-10 e XI 1-9) egli usa un linguaggio che comprende solo lui e non comprende nessuna parola umana, quindi si può solo lasciarlo stare, per non parlare a vòto. La lingua di Nemrut sarebbe quindi la lingua pura delle origini (prima della catastrofe della Torre di Babele) oppure sarebbe la conseguenza, più probabilmente del fatto che a chi fosse in posizione più alta ricevette una lingua più degradata: essendo Nimrod il re di Babilonia che aveva avviato l'impresa, egli ricevette una lingua "ignobile", che Dante sottolinea con parole tronche, suoni duri ("z", doppie consonanti...) e andamento disarmonico.